Catastrofe palestinese
Mentre scriviamo, a più di cinque settimane dall’“orgia di omicidi e sadismo”, come Amira Hass ha definito l’orripilante carneficina perpetrata dagli uomini di Hamas il 7 ottobre scorso (1330 morti di cui 878 civili e più di 200 ostaggi), è in pieno svolgimento la sproporzionata rappresaglia israeliana sulla Striscia di Gaza, operazione approvata dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Assedio con taglio delle forniture di acqua, elettricità e carburante, bombardamenti sui civili, con più di 11.000 morti tra i quali più di 4.000 bambini e minori, in una funerea contabilità in continuo aggiornamento. Non si hanno numeri precisi dei dispersi, delle vittime sotto le macerie degli edifici bombardati – tra i quali ospedali, scuole, chiese e moschee, locali dell’ONU – in cui sotto le bombe e senza mezzi non è possibile scavare neppure per cercare di recuperare gli eventuali superstiti. Cifre inizialmente messe in dubbio dall’amministrazione statunitense ma poi sostanzialmente confermate dagli osservatori delle Nazioni Unite in loco e dall’intelligence statunitense. A questo scenario di morte si aggiungono più di un milione e mezzo di sfollati, sul cui capo pende la minaccia di un trasferimento forzato in Egitto, possibilità avversata dagli abitanti di Gaza e dai leader arabi che vi vedono profilarsi la possibilità di una seconda Nakba, addirittura con un numero doppio di rifugiati. Un’eventualità suggerita dal Ministero dell’Intelligence del governo israeliano, come rivela uno scoop della pubblicazione in ebraico online Sicha Mekomit, come soluzione ottimale (per la versione in inglese www.972mag.com/intelligence-ministry-gaza-population-transfer/).
L’aeronautica israeliana, secondo il resoconto di Raz Segal, che in un articolo su Jewish Currents parla di un “caso da manuale di genocidio”, al 13 ottobre aveva già sganciato più di 6.000 bombe su Gaza, una delle aree più densamente popolate del mondo: quasi quante ne sganciarono gli Stati Uniti su tutto l’Afghanistan durante l’anno più intenso della sua guerra, il 2019. Già dal quarto giorno dei bombardamenti secondo fonti delle Nazioni Unite non si sapeva dove seppellire i morti. Il manifesto del 10 novembre riporta l’articolo di Neve Gordon apparso su Al Jazeera in cui si forniscono i dati aggiornati: i militari avrebbero sganciato su Gaza circa 30.000 tonnellate di esplosivi danneggiando circa il 50 % delle unità abitative nella Striscia di cui il 10% sarebbero inabitabili. I bombardamenti hanno provocato lo spostamento forzato di quasi il 70% della popolazione. Più di un milione e mezzo di persone intrappolate in un paradigma militarista e ora vendicativo condiviso secondo Gordon dalla maggioranza degli ebrei israeliani. L’obiettivo vittoria “implica una spinta eliminazionista su vasta scala, diretta contro il popolo palestinese e non solo contro Hamas”. Sulla questione del genocidio è intervenuto sul NYT lo specialista di studi dell’Olocausto e dei genocidi, Omer Bartov (“What I Believe as a Historian of Genocide”) per sostenere che mentre non si può affermare che un genocidio sia in corso, come fanno Raz Segal e altri, si può ben dire che abbiamo prove di “intenti genocidiali” dimostrati dalle numerose inoppugnabili affermazioni al riguardo di esponenti di punta del governo israeliani. Mentre non abbiamo prove per affermare che i militari stiano prendendo volutamente come bersaglio i civili, continua Bartov, forse stiamo assistendo a “un’operazione di pulizia etnica che potrebbe rapidamente trasformarsi in un genocidio, come è accaduto più di una volta in passato”. Bartov invita gli studiosi e le istituzioni a lanciare l’allarme finché si è in tempo, per una situazione che potrebbe passare dalla carneficina attuale alla pulizia etnica e al genocidio. Per lo storico Ilan Pappe, Israele usa l’attacco del 7 ottobre come pretesto per perseguire politiche genocidarie”.
Non c’è niente di nuovo in questo approccio devastatore come rappresaglia al raccapricciante eccidio di Hamas da parte di Israele, a parte l’intensità dei bombardamenti. Si tratta della cosiddetta “dottrina Dahiya”, dal quartiere sciita di Beirut bersaglio di bombardamenti a tappeto per il lancio di missili durante la guerra del Libano del 2006. Secondo tale “dottrina” le aree urbane diventavano bersagli militari su cui usare una forza sproporzionata con l’obiettivo di raderli al suolo. Per il Generale Gadi Eizenkot i villaggi erano obiettivi militari e la loro distruzione un’azione punitiva (Ilan Pappe, A History of Modern Palestine, p. 275). Tale dottrina sembrerebbe ora applicata anche alla Striscia di Gaza, con lo scopo di infliggere danni tali che, secondo le parole di un generale dell’IDF, sarebbero necessari secoli per risollevarsi.
È come se si fosse avverata la previsione di Zygmunt Bauman che già nel 1971, quattro anni dopo la Guerra dei Sei Giorni, avvertiva che “L’esercito avrebbe governato la nazione e non il contrario”. Bauman presagiva la militarizzazione della psiche israeliana e della sua classe dirigente. Erano le conseguenze dell’occupazione in corso che, come aveva prima di lui avvertito il filosofo Yeshayahu Leibowitz, era “immorale e degradava gli occupanti”. Ritornando sull’argomento nel 2014, al tempo dell’operazione Margine protettivo, il sociologo polacco sosteneva che gli israeliani, essendo vissuti sempre in guerra, avevano perso la capacità di risolvere i problemi senza ricorrere alla violenza (A tutto campo. L’amore, il destino, la memoria e altre umanità. Conversazioni con Peter Haffner, Laterza, 2021).
Dallo scoppio della seconda intifada, nel 2000, e passando per le varie operazioni militari su Gaza, da Summer e Autumn Rains del 2006 a Guardians of the Wall nel 2021, il totale dei morti palestinesi (Gaza e Territori compresi) era, secondo B’Tselem, alla vigilia del 7 ottobre, di 10.555 vittime; quello dei civili israeliani uccisi dai palestinesi era di 881.
Vale la pena a questo punto, mentre le bombe continuano a cadere sulla Striscia e dal Libano arrivano i razzi di Hezbollah che minacciano un allargamento del conflitto, di concentrarsi su alcuni aspetti chiave che contribuiscono alla comprensione dei motivi del precipitare della complicata situazione sul terreno, concentrandosi sulle mancate prese di posizione dei paesi europei, con la significativa eccezione dell’Irlanda, su cui non abbiamo lo spazio per soffermarci, riguardo ai diritti del popolo palestinese.
L’indifferenza dei paesi europei
Può essere utile partire dal “j’accuse” che Amira Hass ha lanciato nel suo intervento su Haaretz il 16 ottobre (“Germany, you have long since betrayed your responsibility”) in risposta all’affermazione del Cancelliere tedesco Olaf Scholz, fatta il 12 ottobre: “La sofferenza e le avversità della popolazione civile nella Striscia di Gaza non potranno che aumentare. Hamas è responsabile anche di questo”. Scholz ha giustificato questa sua affermazione ricordando le responsabilità derivanti alla Germania dall’Olocausto, che le impongono di garantire l’esistenza e la sicurezza dello Stato di Israele. Per Amira Hass, come per tutto il fronte pacifista, la “responsabilità” derivante dall’Olocausto è “proprio quella che impone di impedire la guerra, che produce disastri che a loro volta producono guerre che aumentano le sofferenze, in un ciclo di violenza infinito”, come Hass stessa aveva scritto in un articolo pubblicato all’indomani dell’eccidio, il 10 ottobre (“Arriving Again at the Cycle of Violence”). Una lezione, questa, che Hass dice di aver appreso dal padre, ”un sopravvissuto ai carri bestiame tedeschi”.
La responsabilità derivante dall’Olocausto, in cui perirono tanti suoi familiari, è stata paradossalmente tradita, secondo Amira Hass, con il sostegno senza riserve dato a uno “Stato, Israele, che occupa, colonizza, priva le persone dell’acqua, ruba la terra, imprigiona due milioni di abitanti di Gaza in una gabbia affollata, espelle intere comunità dalle loro case, le demolisce e incoraggia e spalleggia la violenza dei coloni. Questo sotto gli auspici del cosiddetto accordo di pace che i leader occidentali hanno accolto a braccia aperte per poi permettere a Israele di agire esattamente in direzione contraria al fine di rendere impossibile la fondazione di uno stato palestinese nei territori che Israele occupa dal 1967”.
Tutto questo è accaduto nonostante gli appelli e i rapporti che sono venuti dalle organizzazioni umanitarie nel corso degli ultimi decenni, ultimo quello di Amnesty del 2022, che ribadiva al mondo il regime di apartheid instaurato da Israele dal Giordano al Mediterraneo, già segnalato peraltro e da anni oltre che dai palestinesi da altre organizzazioni umanitarie indipendenti israeliane e internazionali. Gli attivisti palestinesi e israeliani per i diritti umani, che da decenni si battono contro l’occupazione, avvertivano che la politica di Israele avrebbe potuto inevitabilmente portare a un’esplosione di proporzioni inimmaginabili.
I paesi occidentali e la Germania in primis hanno continuato a inviare a Israele lo stesso messaggio rassicurante. Nessuno avrebbe punito Israele per le sue nefandezze. Mentre i critici venivano e vengono bollati, in particolare in Germania, con l’infamante accusa di antisemitismo. Per non parlare dell’interdetto lanciato contro un movimento non violento come quello del BDS, osteggiato da molti stati e anch’esso tacciato di antisemitismo. Questa posizione ha portato ora molti paesi europei, oltre alla Germania, a vietare le manifestazioni contro la guerra, o a esporsi al ridicolo bloccando il premio alla scrittrice palestinese Adania Shibli all’ultima Fiera del libro di Francoforte in un’ondata repressiva inaudita che mette a repentaglio il diritto di parola e la libertà di pensiero, mentre si assiste a una preoccupante impennata dell’antisemitismo e dell’islamofobia anche in Europa e negli USA.
Le responsabilità di Netanyahu
La soluzione dei due Stati, che ufficialmente USA e UE indicano come l’obiettivo da perseguire, è da tempo morta e sepolta, come ben sanno le diplomazie occidentali. Nemico acerrimo di tale soluzione sono sempre stati l’attuale primo ministro israeliano e il suo partito, il Likud, che nel suo programma politico esplicita “il suo categorico rifiuto alla creazione di uno Stato palestinese”. Per impedire anche solo il profilarsi all’orizzonte di una tale possibilità, Il leader Netanyahu ha contrassegnato tutta la sua carriera politica con una posizione di cui oggi si vedono le tragiche conseguenze, vale a dire il sostegno, dietro le quinte, ad Hamas, organizzazione considerata nello schema cinico del suo “divide et impera” una forza concorrente dell’Autorità Palestinese in un dissidio che avrebbe reso impossibile a medio e lungo termine proprio la creazione di uno stato palestinese.
Su quest’ultimo punto, è tornato lo storico Adam Raz in un articolo su Haaretz il 20 ottobre. Per 14 anni la politica del premier è stata volta a rafforzare il dominio di Hamas sulla Striscia con l’obiettivo di indebolire l’Autorità palestinese. Un completo capovolgimento della politica del suo predecessore Ehud Olmert, che aveva cercato nel 2007 di porre fine al conflitto attraverso un trattato di pace con il più moderato e acquiescente leader palestinese, il Presidente della PA (Palestinian Authority) Mahmoud Abbas. Tentativo arenatosi a causa del processo per corruzione cui fu sottoposto Olmert e che portò alla caduta del suo governo. Un’inversione di tendenza si ebbe di nuovo di recente con il governo di coalizione guidato da Naftali Bennett e Yair Lapid, che cercarono di fermare il finanziamento di Hamas basato principalmente su risorse che giungevano in contanti dal Qatar. Oltre alle testimonianze di molti esponenti politici e militari, che confermano tale approccio spregiudicato condotto in segreto, Raz riporta una comunicazione in chiaro di Netanyahu del marzo 2019 a una riunione di parlamentari del Likud in cui si parlava dei finanziamenti ad Hamas: “Chiunque si opponga ad uno Stato palestinese deve sostenere l’invio di fondi a Gaza perché il mantenimento della separazione tra l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza impedirà la creazione di uno Stato palestinese”.
Si tratta di posizioni note al partner principale, gli USA, come pure ai paesi europei, che hanno comunque all’unisono continuato a sostenere a parole la soluzione dei due stati e il cosiddetto “processo di pace”. Tornano alle mente le parole di Noam Chomsky a proposito del ruolo degli USA come mediatori di pace nel Medio Oriente: “la soluzione è il problema”. Confermata tragicamente nel corso degli ultimi due decenni.
Il quadro attuale
La situazione gravissima sul terreno oggi è anche il frutto di tali calcoli. E la conseguenza della corruzione morale derivante dall’occupazione, come aveva predetto Bauman. Il costo pagato è alto, secondo Michael Sfard, l’avvocato che rappresenta varie organizzazioni umanitarie israeliane e palestinesi: “L’imposizione da 75 anni dello status di rifugiati a milioni di palestinesi, l’occupazione imposta ad altri milioni da 56 anni, e i 16 anni di assedio imposti a milioni di palestinesi a Gaza, hanno eroso i nostri principi morali. Hanno normalizzato una situazione per cui ci sono persone che valgono meno. Molto meno”.
Ecco come lo stesso Sfard descrive Israele oggi: “Un paese e una società in cui gli appelli a cancellare Gaza non sono solo appannaggio di persone patetiche ed emarginate che lasciano commenti sui social media. È un paese in cui i legislatori del partito al governo chiedono apertamente e senza vergogna una “seconda Nakba”, dove il ministro della Difesa ordina di negare acqua, cibo e carburante a milioni di civili, un paese il cui presidente, Isaac Herzog, volto moderato di Israele , afferma che tutti gli abitanti di Gaza sono responsabili dei crimini di Hamas”.
A questa sconvolgente catastrofe di cui non si riesce a prevedere la fine, si aggiungono sempre più intensi i pogrom in Cisgiordania da parte dei coloni e dell’esercito, una pratica di pulizia etnica in corso da decenni e sulla quale aveva acceso i riflettori un report di B’tselem nel settembre scorso. Si tratta di operazioni concertate, sostenute dall’esercito e dai coloni che si erano già guadagnati nel 2014 la definizione di neonazisti da parte di Amos Oz, che adesso hanno i loro rappresentanti al governo, e favorite ora dal fatto che l’attenzione del mondo è concentrata su Gaza. I due scenari hanno in comune lo stesso obiettivo, la pulizia etnica. Obiettivo per ora frenato per quanto riguarda Gaza mentre è invece in pieno svolgimento in gran parte dell’Area C: intere comunità che fuggono per l’intensificarsi della campagna di estrema violenza che sta producendo un altissimo numero di vittime, 185 dal 7 ottobre con più di 2.800 feriti, in un tragico bilancio che va anch’esso, aggiornato di ora in ora. Dal 1 gennaio al 19 settembre di quest’anno, soldati e coloni avevano già ucciso 189 palestinesi ferendone 8.192. Squadracce armate irrompono nei villaggi sparando contro i residenti, come è avvenuto l’11 nel villaggio di Qusra in cui i coloni dell’insediamento di Esh Kodesh hanno sparato contro manifestanti pacifici e disarmati uccidendo 4 persone. Gli stessi coloni sono ritornati il giorno seguente mentre si svolgevano i funerali delle vittime uccidendo ancora due persone, padre e figlio. Tantissimi gli episodi di violenza documentati sul sito di B’Tselem.
Secondo i dati di B’Tselem negli ultimi due anni, fino al settembre scorso, sei comunità (479 persone in tutto di cui 179 minori) erano state costrette a fuggire per le violenze dei coloni. Dal 7 ottobre se ne sono aggiunte altre 10 per un totale di ulteriori 900 persone di cui 300 minori. Tutto questo sullo sfondo della campagna decennale di spossessamento delle comunità in quell’area, la chiusura dei checkpoint che accrescono l’isolamento di ogni singola comunità anche per quanto riguarda gli approvvigionamenti dei beni di prima necessità.
Sono notevolmente aumentati i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane: prima del 7 ottobre erano più di 5.000 di cui più di 1.200 in regime di detenzione amministrativa, vale a dire senza accuse precise e senza diritto alla difesa, tra i quali più di 200 minori. In pochi giorni, i detenuti palestinesi provenienti soprattutto dalla Cisgiordania sono aumentati di più di 1.000 unità, cui si aggiungono altre migliaia da Gaza e un numero sconosciuto di militanti armati. Ma gli arresti interessano anche i cittadini arabo-israeliani ed ebrei dissidenti rei di aver criticato le politiche del governo, in un’ondata maccartista senza precedenti, compresi i leader politici arabi, tra cui quattro importanti membri del Partito Balad/Tajammo e Muhammad Barakeh, ex parlamentare, solo per aver tentato di organizzare un sit-in a Nazareth contro la guerra a Gaza. Non fanno eccezione gli ebrei di sinistra, denunciati, licenziati, sospesi dagli studi o addirittura arrestati per aver postato opinioni critiche delle politiche del Governo in questo drammatico frangente.
Intanto, Hamas trattiene più di 200 ostaggi tra cui 23 bambini e adolescenti, la cui sorte non sembra costituire una priorità né per le autorità israeliane né per gran parte dell’opinione pubblica, trascinate dall’automatismo della ritorsione e della vendetta.
Inascoltati sinora gli appelli, che giungono sempre più forti dai parenti degli ostaggi e da una larga parte del fronte antioccupazione, nonché da accademici e intellettuali, ebrei e non, firmatari di due petizioni, la prima delle quali chiedeva la cessazione dell’occupazione e la seconda che da un lato chiedeva di dare la priorità alle trattative per il rilascio degli ostaggi e dall’altro la fine della punizione collettiva dei civili di Gaza. Garantirne il rilascio con uno scambio è la via da seguire, fermando l’invasione e dando precedenza alle trattative, come si fece per il rilascio di Gilad Shalit. Si potrebbe cominciare da quelli che Israele tiene in carcere in detenzione amministrativa, o dai 200 minorenni. Gideon Levy, su Haaretz il 22 ottobre, si spinge fino al punto di proporre la liberazione di Marwan Barghouti, considerato l’unico leader palestinese che potrebbe generare un cambiamento nella realtà palestinese. O il rilascio di arabi israeliani in carcere da più di 40 anni come Walid Daqqa, da tempo malato.
La crisi del blocco antigovernativo e della sinistra
La crisi ha di fatto completamente bloccato la mobilitazione democratica di massa in corso da gennaio contro il tentativo di golpe giudiziario promosso dal governo Netanyahu e ha portato scompiglio nel campo antioccupazione e nella sinistra in genere. Lo sconcerto profondo che si è abbattuto sui militanti ha provocato un notevole disorientamento con frange che si schierano apertamente a sostegno della reazione militarista del governo. Mentre altri mantengono la ferma determinazione ad andare avanti nella difesa dei principi democratici e liberali, come è evidente nella lettera di Arielle Angel, direttrice di Jewish Currents, tradotta e pubblicata dagli Asini. O come fa Peter Beinart sul NYT (“There Is a Jewish Hope for Palestinian Liberation. It Must Survive”) del 14 novembre, sforzandosi di indicare una strada possibile per il dialogo e la collaborazione tra ebrei e palestinesi basata sul principio irrinunciabile che i civili devono essere risparmiati. Beinart ricorda la lezione impartita dall’ANC in Sud Africa nel 1988 quando si assunse l’impegno a non colpire i civili. Dichiarava l’ANC, allora: “La nostra moralità di rivoluzionari esige il rispetto dei valori che regolano una condotta umanitaria della guerra”. L’ANC si rifiutava di terrorizzare i bianchi perché non voleva cacciarli. Aveva una visione che prevedeva una democrazia “multirazziale”. Lo stesso obiettivo che dovrebbe porsi il fronte di chi si batte per porre termine all’occupazione e smantellare il regime di apartheid. Ma per questo è necessaria un’opera di ricostruzione morale che sarà lunga e difficile e che Beinart sente che non farà in tempo a vedere.
Difficilissimo per ora prevedere l’evolversi della crisi e tanto meno il futuro dei gazani che riusciranno a sopravvivere a questa devastante punizione collettiva. Si precisano i piani futuri di Israele sulla Striscia. Secondo Netanyahu, Israele dovrà assumere il controllo totale della sicurezza. Una prospettiva che non sembrerebbe essere condivisa dal principale alleato. Di sicuro, una pesantissima ipoteca pesa sul futuro del premier, il cinico apprendista stregone che passerà alla storia non soltanto come il responsabile dell’incredibile débacle delle forze di sicurezza israeliane, ma anche come colui che ha contribuito con la sua tattica spregiudicata al rafforzamento di un’organizzazione terroristica che ha inflitto a Israele uno dei colpi più duri e sanguinosi dalla sua fondazione.