“Non possiamo compiere la traversata se non ci sosteniamo a vicenda”

Traduzione di Aurora Caredda
Quella che qui pubblichiamo in traduzione italiana è la lettera/editoriale di Arielle Angel, direttrice di Jewish Currents, la rivista dell’ebraismo progressista americano, sulla necessità di rinnovare l’impegno nelle battaglie che la rivista da tempo conduce.
Questa è stata la settimana più difficile che abbiamo mai dovuto affrontare come redazione a Jewish Currents. Gli eventi si stanno muovendo così velocemente che non sembra esserci alcuna speranza di comprenderli pienamente, di dire la cosa che sembrerà giusta per il momento che è già passata. Con grande sforzo, finiamo una sezione della nostra esposizione solo perché nuove informazioni emergano e la invalidino. E non si tratta solo di fatti. I sentimenti e le posizioni sono in continuo mutamento. Ci sono questioni politiche e linee di faglia che ribollono sotto la superficie nella nostra organizzazione – nella sinistra ebraica, e presumo nella sinistra in generale – che si impongono all’attenzione, ostacolando i lavori in un momento in cui l’urgenza sembra fondamentale. I colleghi scoppiano frequentemente in lacrime, litigano con le loro famiglie o con i loro amici, soffrono di sonni agitati. Il figlio di un collaboratore è un ostaggio. Un collaboratore di Gaza ci scrive: “Ancora vivo. Stanno bombardando ovunque. Nessun posto è sicuro.”
La maggior parte dei nostri disaccordi interni si concentra sul contenitore corretto per il nostro dolore. Il nostro staff non è diverso dal resto del mondo ebraico nel senso che molti di noi sono solo a pochi gradi da qualcuno che è morto o è stato preso in ostaggio. Come possiamo piangere pubblicamente la morte e la sofferenza degli israeliani senza che questi sentimenti vengano metabolizzati politicamente contro i palestinesi?
Abbiamo buone ragioni per preoccuparci: mentre gli israeliani contano i loro morti, i politici in Israele e negli Stati Uniti chiedono il sangue palestinese con un linguaggio diretto e genocida. “Stiamo combattendo delle bestie umane e agiremo di conseguenza”, ha dichiarato ieri il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant. “Falli fuori, Netanyahu”, ha detto l’ex ambasciatrice alle Nazioni Unite e candidata repubblicana alle presidenziali, Nikki Haley. “Neutralizza i terroristi”, ha detto il senatore democratico John Fetterman. Gli ebrei condividono meme sul più alto numero di vittime ebraiche dall’Olocausto, senza preoccuparsi di chiedere chi, in questo momento, stia subendo la pulizia etnica, o quanti massacri di questa portata Gaza abbia visto negli ultimi dodici anni. Questo linguaggio fa esplodere le bombe che cadono dal cielo sugli abitanti di Gaza, radendo al suolo interi quartieri, spazzando via famiglie senza preavviso, rannicchiate nelle loro case perché non hanno nessun posto dove fuggire. “Ci sono parti del corpo sparse ovunque. Ci sono ancora persone scomparse”, ha detto alla CNN un uomo a nord della città di Gaza. “Stiamo ancora cercando i nostri fratelli, i nostri figli. È come se fossimo bloccati a vivere in un incubo”. Probabilmente vedremo presto questo impulso genocida diffondersi, man mano che il governo israeliano distribuirà armi automatiche ai coloni della Cisgiordania, molti dei quali erano già eliminazionisti armati. In questo modo, il dolore ebraico viene ricondotto nella violenza di uno spietato sistema di sottomissione palestinese che regna dal fiume al mare. Viene mobilitato dai politici statunitensi che sostengono Benjamin Netanyahu e il suo governo estremista, che ha intensificato la morte e lo sfollamento dei palestinesi e ha fatto sparire ogni speranza di una soluzione diplomatica. Viene usato per raccogliere il sostegno per l’invio di armi a Israele, anche se sappiamo che, come ha scritto Haggai Mattar su +972 Magazine, “non esiste una soluzione militare al problema di Israele a Gaza, né alla resistenza che emerge naturalmente come risposta alla violenza dell’apartheid”.
Non possiamo lasciare che il nostro dolore venga piegato a questi scopi, ma non è chiaro dove altro collocarlo. Chiunque abbia lavorato in questo ambito sa che i nostri movimenti non sono preparati a gestire queste ricadute emotive e politiche. Osserviamo come gli ebrei e i gruppi che pensavamo di aver coinvolto nella nostra lotta, o che almeno iniziavano a muoversi politicamente, improvvisamente serrino i ranghi, professino il loro sostegno all’IDF e si ritirino nella disperazione. Le relazioni già complesse e fragili tra attivisti palestinesi ed ebrei di sinistra – così come le fazioni all’interno di entrambi questi gruppi – vengono messe in discussione mentre lottiamo per ricavare lo stesso significato dalle immagini che arrivano sui nostri schermi. Amici e colleghi di tutte le parti si ritrovano feriti dalle reciproche reazioni pubbliche o dal loro silenzio. Un attivista antisionista di lunga data con cui ho parlato si chiedeva se non si stesse aprendo un “abisso” tra gli attivisti palestinesi ed ebrei, soprattutto perché il momento attuale ha reso visibili i legami tangibili degli ebrei della diaspora con quel luogo e con quelle persone che, è un fatto, non sono solo materia di propaganda israeliana. Durante il fine settimana, molti ebrei dichiaratamente antisionisti hanno scoperto di non potersi unire alle proteste di solidarietà perché avevano bisogno di qualcosa che le proteste non potevano fornire: uno spazio per piangere i morti israeliani, per lottare per il proprio posto nei prossimi impegni politici. È una situazione che nessuno di noi ha mai affrontato seriamente prima, nel mezzo di una lunga storia enormemente sproporzionata nel numero dei morti. E ora, quando ne abbiamo più bisogno, ci troviamo a lottare con la mancanza di un vocabolario emotivo e politico.
Il 7 ottobre, i miei sentimenti hanno oscillato all’impazzata. La mia prima sensazione è stata la paura. Ascoltare attentamente il linguaggio genocida del governo israeliano nell’ultimo anno ha significato vivere nel terrore del giorno in cui avrebbero trovato la scusa per fare seguire alle parole i fatti. Scrivendo su n+1, David Klion, redattore collaboratore di Jewish Currents, racconta le parole di un attivista universitario all’indomani dell’11 settembre: “Sono già morti”, aveva detto il giorno in cui Bush dichiarò guerra agli iracheni, al loro destino segnato. Ho sentito queste parole nel mio corpo, mentre singhiozzavo davanti allo schermo. All’inizio, c’erano state grida di sbigottimento. Ho guardato più e più volte l’immagine del bulldozer che distruggeva la recinzione di Gaza e ho pianto lacrime di speranza. Ho osservato adolescenti palestinesi che sembravano fare un giro su un’auto rubata in un posto a mezzo miglio di distanza in cui non erano mai stati; un blogger di Gaza che all’improvviso comunicava da Israele. Ma a queste immagini se ne sono aggiunte presto altre: l’immagine del corpo di una donna, pressoché nudo e piegato in modo innaturale nel cassone di un camion; stanze piene di famiglie ammucchiate, le pareti schizzate di sangue. Volevo disperatamente tenere separate queste immagini, tenere stretta la metafora liberatoria e bandire la realtà violenta. Quando ho iniziato ad accettare che si trattava di immagini dello stesso evento, ero sconvolta e lottavo con una crescente senso di alienazione rispetto a coloro che non sembravano condividere il mio dolore, soprattutto quando la portata del massacro è diventata chiara.
“Ho amici ebrei antisionisti che sono giustamente spaventati”, ha scritto la scrittrice e giornalista Hebh Jamal in un recente articolo su Mondoweiss. Jamal osserva come, nonostante tutta la loro simpatia per la sofferenza palestinese, questo potrebbe essere il primo momento in cui questi amici sperimentano la paura – e lo stato di lutto – che è stato reale per i palestinesi per decenni. Lei ha anche perso qualcuno questa settimana: un cugino di 20 anni. “Non mi rallegro della morte. Mi rallegro della possibilità di vivere”, scrive, e come tale “non posso condannare i militanti se credo anche per un secondo che potrebbe esserci la possibilità che tutto questo finalmente finisca”. Hebh descrive la sensazione di cambiamento che molti palestinesi hanno sentito in questi eventi, poiché hanno scosso – forse solo momentaneamente, resta da vedere – il paradigma dominante in cui sono condannati a morire aspettando la loro libertà, come tanti altri percorsi non violenti di liberazione sono stati puniti o ignorati. La reazione di Hebh sembra comune a così tanti palestinesi che conosco e sono convinta che devo provare a comprenderla.
Mentre guardavo le persone online discutere sui modelli di lotta anticoloniale, facendo paragoni con l’Algeria, il Nord America e il Sud Africa, mi sono ritrovata a tornare al mito fondativo della liberazione ebraica: l’Esodo. Era difficile non pensare al momento del seder pasquale in cui con i mignoli prendiamo il vino dalle coppe colme mentre recitiamo le piaghe. Questo rituale si è materializzato come una pietra di paragone indispensabile, ribadendo il fatto che per mantenere la nostra umanità dobbiamo piangere ogni violenza, anche contro l’oppressore.
Ma ho pensato anche alle piaghe stesse, in particolare a quella finale, l’uccisione dei primogeniti: bambini, adulti, anziani. Sembra che nel nostro mito di liberazione si nasconda il riconoscimento che la violenza colpirà indiscriminatamente la società dell’oppressore. So di avere molti amici e che Currents ha molti lettori che si chiedono come possono far parte di una sinistra che sembra considerare le morti israeliane come una parte necessaria, se non desiderabile, della liberazione palestinese. Ma ciò che l’Esodo ci ricorda è che la disumanizzazione necessaria per opprimere e occupare un altro popolo disumanizza sempre a sua volta l’oppressore. Per le persone che hanno la sensazione che il loro dolore venga svalutato, è perché è così; e la svalutazione è essa stessa un segno distintivo del ciclo di diminuzione del valore della vita umana. Come ha detto la geografa abolizionista Ruth Wilson Gilmore: “Dove la vita è preziosa, la vita è preziosa”. Stiamo vedendo i modi in cui gli ebrei come agenti dell’apartheid non saranno risparmiati, nemmeno quelli di noi che hanno dedicato la propria vita al compito di porvi fine. (Penso a Hayim Katsman, ucciso da Hamas, attivista contro l’espulsione della comunità di Masafer Yatta in Cisgiordania, e Vivian Silver, ostaggio a Gaza, conosciuta da molti dei suoi residenti come la persona che si incontra al valico di Erez e sostiene e facilita il loro trasferimento negli ospedali israeliani per essere curati).
La questione di come recuperiamo questa umanità è in definitiva una questione organizzativa. La gente ha ripetuto più e più volte negli ultimi giorni che “non si può dire ai palestinesi come resistere”. A me sembra che ci sia una dimensione molto letterale in questo assioma: loro non chiedono. Parte di ciò che ha reso l’esperienza di questo evento così diversa dallo status quo – e così diversa per palestinesi ed ebrei – deriva dal fatto che i palestinesi sono stati innegabilmente gli attori, per una volta, e non quelli che subivano. I protagonisti della storia. Considero un enorme fallimento dei nostri movimenti il fatto che finora non siamo stati in grado di costruire in nessun altro modo un mezzo per questo tipo di capovolgimento. I nostri movimenti ebraici per la Palestina non hanno avuto forza sufficiente per impedire ad altri ebrei di uccidere palestinesi durante marce pacifiche al confine di Gaza, o per evitare che i palestinesi venissero licenziati, molestati e denunciati per aver detto la verità sulla loro esperienza o – Dio non voglia – sostenendo la tattica nonviolenta del boicottaggio. E ora non abbiamo una lotta condivisa in grado di rispondere in modo credibile a questi massacri di israeliani e palestinesi. Con tutto il lavoro che molti ebrei e palestinesi hanno fatto per avvicinarsi gli uni agli altri nel corso degli anni, credo che in fondo sia questo fallimento quello che ora ci sta separando. Non esiste una formazione politica che io conosca in grado di sostenere la soggettività politica sia degli ebrei che dei palestinesi in questo momento senza semplicemente tentare di assimilare l’uno nell’altro. Non esiste un luogo in cui ebrei e palestinesi che concordano sui fondamenti della liberazione palestinese – diritto al ritorno, uguaglianza e riparazioni – siano pronti a trasformare la sintesi di queste due soggettività in una strategia coerente.
Una delle cose più terribili di questo evento è il senso della sua inevitabilità. La violenza dell’apartheid e del colonialismo genera altra violenza. Molte persone hanno lottato con la camicia di forza di questa inevitabilità, sforzandosi di spiegare che riconoscerla non significa abbracciarla. Sto ricordando a me stessa che è stato dai palestinesi, molti dei quali scrivono e parlano in queste pagine, che ho imparato a pensare alla Palestina come a un luogo di possibilità – un luogo in cui l’idea stessa di stato-nazione, che ha così danneggiato entrambi i popoli, potrebbe essere ricostruita o distrutta completamente. E sono stati i palestinesi ad aprire il mio pensiero a molteplici visioni di condivisione della terra. A sinistra, spero che non confondiamo l’inevitabilità della violenza con un limite ineludibile al nostro lavoro o alla qualità del nostro pensiero. Anche se i nostri sogni di un futuro migliore sono falliti, devono accompagnarci in questo momento per arrivare dall’altra parte. Dobbiamo immaginare un movimento di liberazione migliore anche rispetto all’Esodo, un esodo da cui nessuno dei due debba andarsene. Dove le persone restano per raccogliere i cocci, riorganizzandosi non solo come ebrei o palestinesi ma come antifascisti, lavoratori e artisti. Voglio quello che la poetessa e attivista ebrea portoricana Aurora Levins Morales descrive nella sua poesia “Mar Rosso”:
Non possiamo compiere la traversata se non ci sosteniamo a vicenda,
tutti noi rifugiati, tutti noi profeti.
Non ci avvicenderemo più sulla ruota della storia,
cercando di riscuotere vecchi debiti inesigibili.
Il mare non si aprirà in questo modo.
Questa volta quel paese
è ciò che ci promettiamo l’un l’altro,
la nostra rabbia premuta guancia a guancia
finché le lacrime non inondino lo spazio tra noi,
finché non ci saranno più nemici,
perché questa volta nessuno sarà lasciato ad annegare
e tutti noi dobbiamo essere eletti.
Questa volta tocca a tutti o a nessuno.
[L’edizione originale di questo articolo è stata pubblicata il 12 ottobre 2023 ed è reperibile qui: https://jewishcurrents.org/we-cannot-cross-until-we-carry-each-other; ringraziamo la redazione di Jewish Currents per averci consentito di tradurlo e pubblicarlo]