Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti
  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti

Verso un “nuovo” anti-militarismo?

23 Dicembre 2022
Federica Frazzetta

Da quando esiste la guerra, come attività umana e politica, esiste anche chi vi si oppone, collettivamente e singolarmente. Negli anni, l’opposizione alla guerra ha trovato nei movimenti pacifista e antimilitarista due attori costantemente presenti, in ogni angolo del mondo; movimenti questi che hanno una natura internazionalista, reti larghe e transnazionali. Mentre tanto si è scritto, studiato e riflettuto sul movimento pacifista, meno attenzione si è data normalmente all’antimilitarismo (inteso come movimento che si oppone al militarismo, quindi a tutta la filiera bellica e alle istituzioni militari), nello specifico all’opposizione alle basi militari. Adottando uno sguardo lungo nel tempo, e tentando di generalizzare il fenomeno (non per appiattire le specificità di ogni lotta, ma per avere un quadro di insieme), l’opposizione alle basi militari è stata caratterizzata da certi tipi di attori, spinti da specifiche motivazioni (almeno in Italia). In primo luogo, attori e motivazioni tipicamente ideologiche: pensiamo ai collettivi e partiti comunisti (soprattutto per quanto riguarda le basi militari americane e NATO, a cui ci si oppone in chiave antimperialista e, in passato, talvolta anche in chiave filo-sovietica); i collettivi e gruppi afferenti all’area anarchica-libertaria che, tra le altre cose, vi si oppongono in chiave antiautoritaria; infine, il movimento pacifista/no war che, con le sue complessità e ricca composizione, ha spesso intrecciato queste mobilitazioni opponendosi alla guerra e rivendicando politiche e un sistema di relazioni internazionali pacifiche e pacifiste. Attori e motivazioni che potremmo definire militanti, che attivano ed hanno attivato nel tempo un bacino di attivisti/e e militanti già socializzati/e alla protesta, per certi versi già politicizzati. In secondo luogo, l’opposizione alle basi militari spesso si è accompagnata a motivazioni economiche, rivendica quindi un uso alternativo delle risorse dello stato: invece di investire nella costruzione, apertura e mantenimento di nuove basi militari (come di altre infrastrutture, mezzi, e istituzioni militari), quelle stesse risorse potrebbero essere investite, ad esempio, per migliorare il sistema di welfare statale, garantire più diritti e assottigliare le differenze sociali (ad esempio investire nella sanità, nell’istruzione pubblica, nei trasporti pubblici, nell’edilizia popolare…). Tutti temi che, in qualche modo, si accompagnano a rivendicazioni che riguardano la lotta alle diseguaglianze, per una giustizia sociale. In terzo luogo, anche se più raramente, la lotta alle basi e alla filiera militarista si è accompagnata a qualche rivendicazione ambientale, intrecciando pezzi del movimento ambientalista e antinucleare, anche in questo caso caratterizzato dalle sue complessità interne.

Partendo da questa generale e non del tutto esaustiva panoramica, ritengo che negli ultimi anni l’opposizione alle basi militari in Italia abbia subito dei cambiamenti, facendo diventare le campagne di protesta anitmilitarista contro le basi militari dei veri e propri movimenti territoriali. I movimenti territoriali sono generalmente promossi da gruppi di cittadini/e o comitati locali che si oppongono a delle trasformazioni territoriali non volute, come la costruzione di grandi opere ritenute nocive e inutili (in Italia, il più noto e duraturo nel tempo tra questi è il movimento no TAV in Val di Susa, ma ne esistono molti altri: no TAP, no TRIV, no Grandi Navi, no Ponte sullo Stretto di Messina, etc.). Sono tipi di movimenti che alcuni/e studiose/i definiscono LULU (Locally Unwanted Land Use), cioè che si oppongono a un utilizzo non voluto del territorio. Nello specifico, il territorio diventa espressione e campo di conflitto sociale, in quanto il punto è proprio il diverso “valore” che si dà ad esso; da un lato, le elite politiche ed economiche che considerano il territorio come un mezzo per creare profitti economici e politici (valore di scambio); dall’altro lato, gli/le oppositori/trici che lo considerano per il tipo di utilizzo comune che si può fare, fuori dalle dinamiche di profitto economico e politico, per perseguire obiettivi e usi sociali comuni (valore di uso). È giusto precisare che, generalmente, questo tipo di mobilitazioni vengono etichettate dalla controparte, dalla stampa e spesso anche da un pezzo di comunità accademica come mobilitazioni NIMBY (Not In My Back Yard), dipingendo le comunità che si oppongono a queste opere come troppo egoiste e male informate per sostenere i costi di un’opera che avrebbe conseguenze positive più estese; a questa accusa, i movimenti territoriali rispondono con rivendicazioni NOPE (Not On Planet Earth), cioè specificando che l’opposizione a quel tipo di opera (e utilizzo del territorio) va oltre i confini territoriali specifici.


La dimensione oppositiva di questi movimenti si accompagna a una dimensione propositiva, per cui nel corso della mobilitazione scaturiscono nuovi immaginari e visioni su come abitare e gestire, dal basso, i territori. In Italia, negli ultimi anni, questo tipo di movimenti sono effettivamente aumentati, diventando uno spazio di conflittualità sociale, spesso anche aspra, riuscendo a ricomporre attorno a questioni locali diversi pezzi della società, creando un senso di identità collettiva attorno alla difesa del territorio e a una visione alternativa dello stesso, sviluppando delle rivendicazioni neoambientaliste e diventando dei veri propri laboratori di forme di democrazia diretta. Credo che il proliferare di questo tipo di movimenti abbia contaminato le battaglie antimilitariste, nello specifico quelle contro le basi militari, che nel corso degli anni ha reso queste mobilitazioni più articolate, partecipate e meno “di nicchia”.
Questo cambiamento è decisamente evidente nel caso della Sicilia, regione che ha una lunga storia di opposizione alle basi militari americane e una storica rete antimilitarista che, attraversando anche delle lunghe fasi di latenza, poi si ricompone sempre. Volendo comparare, brevemente e superficialmente, le mobilitazioni contro i missili Cruise a Comiso (all’inizio degli anni ’80) e la lotta contro il MUOS di Niscemi (in corso da più di dieci anni), sono parecchi gli elementi di discontinuità tra l’una e l’altra esperienza. Da un lato, l’opposizione antimilitarista e pacifista a Comiso, che ha avuto una scala europea, ha raggiunto livelli di conflittualità molto alta, ha coinvolto giovani attivisti/e da da tutta Europa (non solo pacifisti/e e antimilitaristi/e, ma anche un grosso pezzo del movimento femminista), ma non è stata in grado (probabilmente anche perché poco interessata a farlo) di coinvolgere la popolazione locale. Esauritasi la vicenda, la rete creatasi a Comiso si è presto dissolta e di quell’esperienza sono poi rimasti la memoria storica e il capitale sociale e politico che ne è scaturito. Dall’altro lato, la lotta contro il MUOS di Niscemi che, nell’arco di poco tempo, ha coinvolto buona parte della cittadinanza niscemese, poco o per niente abituata a protestare, spesso non politicizzata, che è arrivata a usare anche forme radicali di lotta. Grazie a questa presenza molto trasversale degli/delle abitanti di Niscemi, e anche all’esperienza fatta da alcuni/e militanti già attivi/e contro il MUOS all’interno di alcune lotte territoriali, alle rivendicazioni prettamente antimilitariste, pacifiste e no war, si sono accompagnate rivendicazioni e visioni che parlano e reclamano una nuova gestione del territorio: il punto non è solo non volere la base, ma credere che quella parte di sughereta debba essere liberata dallo sfruttamento militarista e imperialista dell’esercito (quello americano quanto quello italiano), per restituirla agli/alle abitanti della zona. Il risultato è che, nonostante la partita principale del movimento si sia chiusa ormai da qualche anno, il movimento continua ad esistere e resistere: non si è perso o dissolto, ma lotta ancora per smilitarizzare e liberare pezzi di territorio. Inoltre, dall’esperienza della lotta no MUOS, sono scaturite altre campagne di protesta a Niscemi, ad esempio contro la chiusura dell’ospedale.


A questo cambiamento, però, si potrebbe aggiungere quella che ritengo essere una nuova opportunità politica da cogliere per l’antimilitarismo contemporaneo. L’opposizione alle basi militari costruite dentro riserve naturali (si vedano i casi di Coltano, frazione di Pisa in cui il governo Draghi ha previsto nel 2022 di costruire una nuova base militare, o ancora del MUOS), oppure perché altamente inquinanti (si pensi all’esperienza di Salto di Quirra in Sardegna), hanno pienamente integrato la tutela dell’ambiente nelle rivendicazioni anti-base, spesso motore vero e proprio della mobilitazione. In questi tempi di crisi climatica, energetica e con tensioni guerrafondaie sempre più estese a livello globale, una nuova prospettiva per il movimento antimilitarista, come per quello ambientalista, sarebbe proprio quello di unire le proprie analisi, prospettive e reti. Se da un lato anche nel più recente movimento di Fridays For Future non pare siano diffuse istanze no war e antimilitariste, è vero anche che il movimento anti-militarista dovrebbe forse sforzarsi di sviluppare il filone ambientale dell’opposizione, in maniera radicale e completa (quindi non solo legata al caso singolo). Credo che l’esperienza in corso a Coltano vada in questa in direzione. Legare l’antimilitarismo e la lotta per la giustizia climatica significa dare ancora più profondità alla lotta anti-militarista (e anche a quella ecologica), ma soprattutto rafforzare due movimenti che oggi, in piena crisi climatica, energetica e con un generale intensificarsi delle tensioni guerrafondaie, hanno la necessità di essere quanto più incisivi possibile.

info@gliasini.it

Centro di Documentazione di Pistoia

p.iva 01271720474 | codice destinatario KRRH6B9

Privacy Policy – Cookie Policy - Powered by botiq.it