Perché rileggere “Dalla parte delle bambine”
Sono passati esattamente cinquant’anni dall’uscita di Dalla parte delle bambine, il libro più conosciuto di Elena Gianini Belotti, morta il 24 dicembre scorso a 93 anni. Una doppia occasione che ci ha spinto a rileggerlo e a discuterne, cercando di capire che cosa significhi essere dalla parte delle bambine oggi, ovvero che ruolo abbia, o debba avere, una pedagogia femminista nelle pratiche educative, nel dibattito pedagogico, nella riflessione culturale sulla genitorialità.
Pubblicato da Feltrinelli nel 1973 (le citazioni si inferiscono tutte alla prima edizione), Dalla parte delle bambine fu un enorme successo editoriale. Le riedizioni si susseguirono velocissime così come le traduzioni (15 lingue). Non c’è quasi quotidiano, settimanale o rivista specializzata dell’epoca che non ne parli. Da l’Avanti a Paese Sera, da L’Espresso a Linus, da Noi donne a Confidenze, da Scuola e Didattica a Il Giornale dei Genitori, da Le Monde a Charlie Hebdo, l’invito a “prendere coscienza” degli aspetti culturali dell’educazione scuote: si parla di fabbricazione delle donne, o di donne prefabbricate, e si passano al setaccio i condizionamenti, che oggi definiremmo di genere, fino a quel momento dati per scontati, a casa come a scuola. Per la prima volta natura e cultura vengono messe a confronto e ogni asserzione riguardo a ciò che è femminile o maschile viene posta al vaglio.
Severo, accurato, Dalla parte delle bambine è stato anche un testo salvifico per molte giovani che, nel corso degli anni Settanta, vissero sulla propria pelle un cambiamento radicale rispetto alle condizioni di vita e ideologiche delle proprie madri, un testo che ha dato parole, idee, abbrivio al femminismo italiano – per tutto basti pensare che fra il ’75 e l’82 ebbe vita una casa editrice femminile che prese il nome del libro stesso. Tuttavia, è anche un testo che a partire dalla fine degli anni ’80 sembra scivolare nell’ombra, al punto che oggi è lecito chiedersi quanto, pur essendo fondativo, venga letto e discusso, anche nelle aule universitarie dove si formano le tante maestre e i pochi maestri della scuola italiana.
Le sovversioni
La rilettura che ne proponiamo qui si intreccia al tema delle sovversioni che una relazione educativa improntata al radicale rispetto del soggetto infantile può portare nei nostri assunti culturali e ordini sociali. Pur essendo stato scritto come atto di rivolta contro l’oppressione e lo sfruttamento delle donne – non a caso si apre agganciandosi al primo testo femminista della storia, a firma di John Stuart Mill – denuncia in modo duro e amaro lo spreco terribile di creatività, talento, benessere a cui il sessismo ci condanna tutte e tutti fin dai primissimi giorni di vita. Al centro del discorso di Belotti c’è quindi l’educare: che cosa è e che cosa potrebbe essere partendo non da filosofemi o da retoriche ma da un’osservazione protratta, metodica, rigorosa, quale quella a cui lei si era formata e che condusse per più di vent’anni nei luoghi in cui la primissima infanzia vive.
Esito di una ricerca sul campo condotta con strumenti che vengono dalla pedagogia ma anche dall’antropologia e dalla sociologia, il libro porta alla luce una strutturazione del rapporto educativo bambini/adulto di tipo autoritario, oppressivo, a volte sadico, e smaschera uno degli aspetti cruciali di quella che con Montessori potremmo chiamare la madre di tutte le guerre: la guerra tra adulti e bambini per l’imposizione di un ordine sociale conservatore e oppressivo che limita le possibilità di ciascun individuo di scoprire le proprie inclinazioni, talenti, risorse in nome di un conformismo sociale che continua a produrre violenza e frustrazione, ma a cui non ci ribella anche per via dei condizionamenti profondissimi di cui si è oggetto nei primi anni. Figura fondativa, emblematica e radicale di queste relazioni di diseguaglianza e violenza, è quella della partizione tra maschile e femminile, con attribuzioni di valore e di pertinenza specifiche e discriminanti.
La zona oscura
Elena Gianini Belotti ha soli ventun’anni quando inizia a frequentare la Scuola Assistenti Infanzia Montessori fondata a Roma da Adele Costa Gnocchi, entrando così a far parte del gruppo di giovanissime pioniere che si avventurarono in quel terreno ancora sconosciuto che era, negli anni ’50, il neonato. Metodo di lavoro: osservare, osservare e ancora osservare; e a partire dai dati raccolti, discutere: con la stessa Costa Gnocchi, durissima nell’evidenziare il pensiero facile e scontato, ma anche con altri e altre che entravano nella scuola in veste di esperti. Come ha scritto Grazia Honegger Fresco, a sua volta parte di quel gruppo di ricerca e che molti anni dopo ricostruirà la vita e il lavoro di Costa Gnocchi nel libro Radici nel futuro (La Meridiana, 2022), Adele predicava “una realtà dell’infanzia costituita non di idee astratte da applicare, di principi metafisici da imporre, bensì di comportamenti concreti e ripetutamente osservati. La sua pedagogia, coerentemente con queste premesse, fu alimentata dalle riflessioni che ne scaturiscono, da prassi sperimentali, da verifiche empiriche e da deduzioni. Essa fu, cioè, il risultato di un approccio rigorosamente scientifico al bambino e ai suoi bisogni che si muove solo sulla scorta di dati accertati” (ivi, p.153).
Divenuta, nel 1960, presidente del nuovo Centro Nascita Montessori – carica che manterrà per vent’anni – Elena Gianini Belotti utilizza in modo inusitato e tutt’oggi rivoluzionaria l’attitudine osservativa appresa alla dura scuola di Costa Gnocchi: se è vero, come sostiene Montessori, che primo vero educatore è l’ambiente dal quale il bambino e la bambina assorbono – e tanto più lo fanno quanto sono piccoli – allora l’ambiente va analizzato in ogni aspetto. Anche dal punto di vista del sessismo. Così, mentre rivolge un’attenzione vigile al parto, alla nascita e al neonato, chiamando alla sua cura, in anni decisamente non sospetti, anche i padri, osserva e registra i modi di pensare, fantasticare, stare, rispondere, sgridare, pretendere, guardare, proporre ai bambini – anche piccolissimi – in ragione del loro sesso, mettendo in evidenza quella che nell’introduzione chiama la zona oscura, ovvero il grande rimosso di ogni essere umano e della cultura che ci forma: i primi anni di vita: «Ogni donna che si propone di parlare di sé e della sua collocazione nella propria cultura, può raccontare la sua storia di bambina, di adolescente, di ragazza, e la storia di ciò che ritiene di aver subito a causa del suo sesso, ma per quanto indieto spinga il suo ricordo, scoprirà che c’è sempre una zona oscura, la primissima infanzia, sulla quale non sa dire niente e che è la matrice delle sue successive difficoltà. A tre, quattro anni, quanto lontano cioè può spingersi il ricordo di un individuo, tutto è già compiuto nel suo destino o legato al sesso cui appartiene, perché in quel periodo non c’è lotta cosciente contro l’oppressione» (p.6). Ben prima che la parola genere iniziasse ad occupare le pagine dei giornali, Belotti si è quindi occupata anche degli aspetti culturali del venire al mondo, dando un significato più articolato alla tanto citata frase montessoriana Educazione dalla nascita come aiuto alla vita.
La donna, la madre, il neonato
L’analisi del complesso di supposizioni e di pregiudizi che si costruiscono sull’identità sessuale del nuovo individuo prima ancora della sua nascita è purtroppo attualissima. La descrizione dei modi di dire, delle attribuzioni di valore e delle pratiche di consumo improntati alla costruzione del genere è lucida e penetrante; scomodo l’esame del rapporto tra il neonato, la madre e l’azione educativa materna. Esiste un altro libro, ci siamo chieste, che tratti di questa implicazione da un punto di vista femminista e, insieme, del neonato? Che vi sia una responsabilità determinate nei primi scambi per Belotti è incontrovertibile: a seconda di come rispondiamo ai bisogni, alle richieste indilazionabili del neonato, si costruisce un senso di sé e del proprio valore già determinante. Quanti problemi e tensioni ci crea questa verità in quanto donne per le quali, storicamente, la maternità è stata un destino, un obbligo, una maledizione?
Siamo di fronte a questioni politiche incandescenti. Da una parte il “nessuno può dirmi come devo essere e fare la madre”; dall’altra l’impossibilità di ignorare ciò che siamo arrivate a sapere sul bambino: bisogni, necessità, conoscenze che tutt’oggi stentano a diventare condizioni sociali dell’esperienza della nascita e della maternità.
Belotti scrive di allattamento con libertà e profondità, nominandone perfino gli aspetti erotici e sensuali, il valore formativo, creativo, comunicativo, e tuttavia mai dimentica il punto di vista della liberazione femminile. I tempi di ozio del lattante, il tempo che passa nudo tra le mani della madre, gli scambi emotivi e fisici che avvengono tra loro sono elementi di un’azione formativa ed educativa che, opportunamente pensati e riflettuti, possono costruire una cultura condivisa del mettere al mondo. Non inchiodando le donne a doveri, servizi, aspettative ma riconoscendo il lavoro della cura come tale, ossia produzione di valore e mezzo di trasformazione del mondo su cui investire pensiero e risorse.
Madri, padri: maternità e società
Dalla parte delle bambine pone quindi il problema politico di come si impari ad essere madri e padri per una società che si vuole intelligente, non violenta, non sessista – un tema che occuperà la mente della Belotti almeno fino agli anni ’80, quando pubblicherà per Rizzoli Non di sola madre, il testo dove con ancor più radicalità metterà sotto accusa la tradizione, la solita vecchia cultura scambiata per natura.
Ai giornalisti e alle giornaliste che, negli anni ’70, cercavano di far cortocircuitare il suo libro con la scelta di non avere figli, Belotti rispondeva che sapeva più lei di bambini di tutte le madri che aveva incontrato messe assieme. Presuntuosa? Lavorava da venti anni per trasformare lo sguardo sul parto e sul neonato, spostando l’attenzione sugli aspetti sociali della nascita, su come l’istituzione ospedaliera potesse farsi carico del buon ingresso nel mondo di ogni bambino, soprattutto se la madre incontra difficoltà. Invece, ieri come oggi, è sulla madre, sul suo essere all’altezza del compito sempre più eccezionale di allevare un figlio che si indirizza l’attenzione. Una prassi che, secondo Belotti, ha trovato un buon alleato nella scienza contemporanea. Scrive in un articolo per Paese Sera (19 febbraio 1977): “Il concetto di carenza materna nacque subito dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale, quando l’OMS diede incarico a un gruppo di esperti, tra cui Bowlby, di esaminare lo stato fisico e mentale dei bambini rimasti senza genitori a causa della guerra e ricoverati in istituzioni delle quali è facile immaginare il livello… Il risultato di tale indagine fu che questi bambini soffrivano di una particolare sindrome da abbandono che fu denominata, appunto, carenza materna e fatta risalire all’assenza della madre naturale. Punto e basta”. Un errore – o una scelta – di valutazione ma anche di prospettiva storica che produce effetti a catena: dall’insignificanza paterna all’applicazione della supposta “carenza materna” ad ogni minima separazione madre figlio, fino al ritenere inutili, se non dannosi in quanto istituzioni, gli asili nido: “Finché avremo davanti agli occhi il fantasma idealizzato di una donna che, solo perché ha partorito un figlio, viene messa su uno scomodo piedistallo dove non amerebbe stare e sul quale la si adora e la si incensa come unica e sola artefice dell’equilibrato sviluppo del suo bambino, impedendole in questo modo di vivere serenamente la sua propria vita di individuo, non potremo capire fino in fondo quale autentica rivoluzione stiamo programmando quando sostituiamo al valore privato della maternità il suo valore sociale, quando invece di dichiarare… il mio bambino è solo mio, arriveremo a dire, invece, che i bambini sono di tutti”.
I motivi fondamentali che il libro tiene assieme sono questi: il lavoro educativo, che è sempre anche lavoro di cura, va assunto anche dagli uomini riconoscendogli valore culturale, sociale, creativo, di responsabilità e intelligenza; ciò implica risignificare il rapporto tra corpo e psiche e di conseguenza trasformare la relazione educativa col soggetto infantile arrivando a comprendere i bisogni emotivi, culturali e sociali dei bambini e delle bambine nella nostra organizzazione sociale, economica, istituzionale; è quindi indispensabile liberare la maternità dal doppio movimento di sovrainvestimento e di svalutazione, pensandola finalmente come fatto anche sociale e culturale, non solo evento individuale e istintivo, non insostituibile e unico campo di azione femminile confuso con i lavori domestici e di cura. «I padri dovrebbero occuparsi molto di più e da vicino e fin dai primi giorni dei loro figliolini di ambo i sessi per dare a questi la visione reale e per niente scandalosa di una effettiva intercambiabilità dei ruoli padre-madre e offrire loro modello di tenerezza maschile. Non è disciplinando e riducendo l’affettività femminile così come si è sempre ridotta e mutilata quella maschile impedendole di esprimersi liberamente […] che si può sperare di arricchire gli individui. Non è spingendo le bambine alla competizione e all’imitazione del maschio che si offrirà loro qualcosa in più, ma rispettando e favorendo le scelte di ognuno, indipendentemente dal suo sesso e offrendo ai bambini modelli più ricchi, più espressi, più liberi dagli stereotipi imperanti: potranno così realizzarsi in maniera più completa senza essere costretti a sacrificare parti di se stessi valide e preziose» (p. 62).
Un’educazione non autoritaria e non repressiva, che rispetti le individualità e le differenze, supera la cristallizzazione dei ruoli di genere in primo luogo cambiando la tradizionale divisione dei lavori e le gerarchie di lavoro che sottende. I figli e le figlie non sono solo delle madri ma anche dei padri e nelle scuole la presenza paritaria di insegnanti e maestri è indispensabile.
Maestre, maestri: educazione e lavoro
Nel 1973, quando Feltrinelli pubblica Dalla parte delle bambine, Jacabook manda in libreria I vagabondi efficaci di Fernand Deligny, un testo di culto destinato a restare ai margini del dibattito pedagogico per moltissimo tempo (lo si ritrova oggi per le Edizioni dell’Asino, a cura di Luigi Monti e Chiara Scorzoni). La contemporaneità delle due opere, rimbalzata agli occhi nel dare una scorsa alle recensioni dell’epoca, seppur casuale acquista per noi senso. Vagabondi, infatti, non è solo il termine che Deligny ha scelto per parlare degli adolescenti autistici e mutacici che percorsero con lui i monti delle Cévennes. E’ anche la parola che, in contesti differenti, utilizzano Elena Gianini Belotti e Grazia Honegger Fresco per descrivere l’agire tipico delle bambine e dei bambini fino a 3-4 anni, identificando nell’ “istinto del vagabondo” la tendenza all’esplorazione, alla sfida, al rischio, alla conquista di continue nuove abilità. E’ a questa bambina e, di riflesso, a questo bambino, che cerca disperatamente di vagabondare mentre tutto e tutti premono per calargli addosso la gabbia di genere, che Belotti volge il suo sguardo, scientifico e insieme affettivo, individuandone la voglia di sovversione – vagabondare è infatti parola che presuppone l’assenza di una meta chiara: e ci sembra che stia in questo la sua forza dirompente, sia che si parli di bambini piccoli, sia che si parli di neonati sociali, ovvero di quegli adolescenti che di nuovo, in ambiti e modi diversi, riscoprano l’istinto del vagabondo anche nel cercare di capire la propria sessualità.
La preadolescenza e la fase dai tre ai sei anni sono nella ricerca pedagogica di impronta montessoriana due “periodi sensibili”, momenti nella parabola vitale in cui si danno grandi possibilità di ridefinizione di sé, in campo identitario, cognitivo, affettivo. Sono allora indispensabili luoghi di vita e di educazione distinti dalla famiglia, nella quale i processi di identificazione e rispecchiamento, le dinamiche affettive e imitative sono a volte troppo vincolanti per permettere di accedere a percorsi di autonomia. «Il bambino a tre anni e anche prima ha bisogno di cultura e non di appiccicosi legami affettivi» scrive Belotti. Non di una “scuola materna” quindi, ma di un’istituzione educativa dove investire il meglio e il massimo delle nostre conoscenze per rispondere alle straordinarie potenzialità creative, esplorative, inventive delle persone piccole. Luoghi dove incontrare figure educative pedagogicamente ed umanamente capaci di scambi culturali e relazionali raffinati, consapevoli « del privilegio di occuparsi di bambini e del potere che avrebbero di permettergli di diventare individui pensanti e creativi» (pagina 144).
La visione pedagogica del lavoro educativo in istituzione in Dalla parte delle bambine è minoritaria ieri come oggi: che si tratti della libertà di movimento, dell’uso del gabinetto (nelle nostre scuole ancora un permesso accordato a discrezione o regolato sulla base di esigenze organizzative autoritarie), del non reprimere l’esplorazione di funzioni corporee e le curiosità sulle differenze sessuali. E noi ci domandiamo se oggi come allora proprio la svalutazione della cura, della parte di accudimento anche fisico che comporta, e la negazione dell’interdipendenza tra piano affettivo corporeo e intellettuale che si rivela nella relazione con la prima infanzia facciano sì che la professione di maestra d’infanzia sia lasciata quasi esclusivamente alle donne.
Una formazione da ripensare
Nel 1973 ci si preparava la professione di maestra d’infanzia con un corso magistrale di tre anni dopo la scuola media oppure da privatiste con un solo trimestre di studio e la licenza elementare. Era un lavoro per cui non si riteneva importante studiare perché contavano pazienza, dolcezza, comprensione e spirito di sacrificio. Un lavoro umile e faticoso, da fare per comodità o per ripiego. Oggi molto sembra essere cambiato nella formazione e nella considerazione del mestiere. Tuttavia, in Italia rimane quello meno retribuito, con orario di servizio più esteso nella categoria docente, e dove la presenza maschile si aggira attorno all’uno percento sul totale del personale. Ancora attuali sono quindi le pagine che il libro dedica ai primi esperimenti di coinvolgimento di maschi nella professione di maestro: per dimostrarne gli effetti benefici sul benessere psicologico dei bambini, in rispondenza a bisogni affettivi ed evolutivi profondi, ma soprattutto in vista di una educazione che abbatta i pregiudizi e smascheri la divisione del lavoro che inchioda le donne alla subalternità e allo sfruttamento. Finché agli occhi di bambini e bambine il lavoro educativo sarà riservato alle donne esso si confonderà con «una prestazione più o meno autoritaria, più o meno benevola, ma del tutto gratuita» (p.142), assimilata alle cure materne. Le bambine saranno spinte a identificarsi con l’insegnante e, assieme ai bambini, penseranno che i lavori importanti, produttivi, di valore, sono solo quelli che fanno gli uomini fuori di casa, lontani da loro e da ogni impegno di cura, che rimane compito delle donne e delle madri, per le quali quindi ogni altra occupazione è in fondo sentita sempre come una colpa.
Nelle scuole materne raccontate da Elena Giani Belotti si finisce di compiere un’educazione di genere pervasiva, violenta, a suo modo brutale e sicuramente definitiva. Tanto sono precisissime e illuminanti le notazioni sui bambini e sulle bambine – il modo in cui ascoltano, interpretano, giocano, apprendono soprattutto mentre non li guardiamo o li pensiamo distratti – tanto è feroce, esasperata, aggressiva la descrizione delle maestre. In tutto il libro madri, maestre e donne sono descritte con parole urticanti e respingenti, denunciate nella loro incapacità di desiderare altro, di volersi altro, di smettere di essere complici, conniventi interessate dell’ordine che le opprime. In questo il libro porta la traccia della sua generazione: la fatica e la guerra che comportò aprire gli occhi e prendere parola per dire chi eravamo, come eravamo fatte e quanto ci fosse impossibile e assolutamente necessario essere per sempre differenti dalle madri. Da allora il femminismo e la sua elaborazione si è arricchita di politiche, di esperienze e mezzi per ridefinire sessi e generi. Resta tuttavia un testo importantissimo da studiare e discutere assieme, una ricerca pedagogica sull’implicazione tra liberazione femminile e infantile.
Bambine ribelli
Chiudiamo con un’ultima brevissima annotazione – niente più di una coincidenza – che riguarda le questioni del culturale e dell’immaginario. Un altro capitolo del libro, il terzo, si intitola “Gioco, giocattoli e letteratura infantile”. Se da una parte è il più datato – viste le enormi trasformazioni nella produzione e nel consumo culturale – è forse per lo stesso motivo quello che meriterebbe la più attenta ridiscussione. Su questa strada si era già messa del resto Loredana Lipperini nel 2007 con il suo Ancora dalla parte delle bambine.
A partire da un fortunato libro intitolato “Storie della buonanotte per bambine ribelli” (8 milioni di copie dal 2017) ha preso piede la ricchissima vague commercial-culturale che celebra ovunque la figura della bambina, o della ragazza ribelle: su magliette e pantaloni, nelle serie tv, al cinema. Fu proprio questa la figura fondamentale trovata da Giannini Belotti per il destino infelice delle donne: «Tutte le bambine restano in fondo delle ribelli impotenti, costrette a calcolare ogni momento se convenga abbandonarsi alla ribellione o assoggettarsi alla dipendenza. Quelle più vitali combattono più a lungo e più dolorosamente le altre, ma il dilemma non cesserà di presentarsi per tutta la vita, a ogni scelta e di tenerle in uno stato perenne di disimpegno e di attesa» (p.103).
Restiamo quindi vigili, aiutiamoci ad essere lucide sui nostri desideri e sulle nostre rappresentazioni perché più che rivolte celebrate dai media o riscatti individuali ci vorrebbero oggi rivoluzioni e ambizioni collettive: non bambine ribelli ma nuovi bambini, nuovi rapporti con loro, nuove organizzazioni sociali ed economiche.