Non è una guerra fra russi e ucraini

Mentre la guerra in Ucraina continua a causare morte e distruzione, in questi giorni ricorrono due anniversari importanti per il movimento pacifista e nonviolento italiano. Cinquant’anni fa, il 15 dicembre 1972, il parlamento italiano riconobbe per la prima volta la legittimità dell’obiezione di coscienza e istituì il servizio civile obbligatorio per chi rifiutava di prestare il servizio militare. Sessant’anni fa, il 17 dicembre 1962, Giuseppe Gozzini, uno dei primi obiettori di coscienza cattolici, scriveva una lettera aperta dal carcere militare giudiziario di Firenze, in cui spiegava le ragioni del proprio rifiuto di indossare la divisa.
In occasione di queste ricorrenze, e per contribuire al difficile dibattito rispetto a come il movimento pacifista possa provare a contrastare il conflitto in corso – un dibattito su cui, tuttavia, sarà necessario tornare con maggiore profondità e attenzione –, pubblichiamo due testi: la lettera di Giuseppe Gozzini e, qui sotto, un contributo che riceviamo da Enrico Papa (Gli Asini).
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L’ideologia nazionalista offusca lo sguardo e condiziona la lettura delle dinamiche belliche, ma la crescita esponenziale dei disertori e degli obiettori di coscienza rivela la corresponsabilità di tutti i militaristi nella carneficina in atto. È indispensabile fornire asilo e protezione a chi si sottrae all’organizzazione e alla perpetrazione dell’omicidio di massa
Fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte delle Federazione Russa, la narrazione mainstream degli eventi bellici è stata condizionata da un pernicioso implicito culturale che pervade ogni discorso, perfino ciò che avete appena letto: la guerra in corso viene interpretata e raccontata come un conflitto fra due Stati-nazione. Lungi dall’essere figlia di un tetro sciovinismo o di un patriottismo irritabile, questa lettura della realtà è semplicemente ovvia, scontata e in un certo qual modo inevitabile all’interno di un contesto societario come il nostro, dove l’ideologia del nazionalismo – che lo si voglia o meno – informa la vita politica condizionando il modo in cui rappresentiamo a noi stessi ciò che accade nel mondo.
Così, nonostante si tratti di comunità immaginate – il riferimento è qui all’omonimo testo di Benedict Anderson Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi – quella Ucraina e quella Russa finiscono per essere viste e pensate, a partire dallo storytelling massmediatico fino ai discorsi quotidiani all’angolo della strada, come delle totalità umane omogenee e compatte: due popoli in guerra – l’uno aggredito e l’altro aggressore – incarnazione dell’eterna lotta del bene contro il male, guidati da due condottieri – Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin – personificazione dell’infallibilità divina il primo e della perversione demoniaca il secondo. Questo almeno finché non si osservano le cose da una prospettiva filorussa, dove si scopre che lo Yin e lo Yang della scacchiera geopolitica sono invertiti, senza però che a mutare siano le premesse sociologiche e psicosociali della contesa: un “noi” e un “loro” totalitari, che intrappolano due intere popolazioni in una dinamica ingroup e outgroup senza soluzione di continuità.
Cambiare prospettiva, cambiare le premesse
Per uscire da questa gabbia e osservare i fatti con uno sguardo lucido e il più possibile bonificato dalle istanze nazionalistiche, dobbiamo cambiare prospettiva e quindi le premesse del discorso. Un aiuto alla riflessione in questo senso ci viene fornito, per paradossale che sia, dalla scelta di Putin di ricorrere alla mobilitazione parziale, richiamando in servizio i riservisti. Che ci fossero forme di dissenso interne alla Federazione Russa nei confronti della cosiddetta “operazione militare speciale” era noto, così come noti erano i malumori dei soldati al fronte. Ma queste, fino ad ora, potevano essere lette come fisiologiche disaffezioni nei confronti di una causa che, tuttavia, vedeva il popolo russo schierato compatto a fianco della volontà dello Zar. Invece, la decisione di molti riservisti di disertare fuggendo all’estero per evitare le dure sanzioni inflitte ai renitenti, ha scardinato per un attimo l’idea che abita il nostro immaginario collettivo: l’idea di una Russia guerriera, militarmente coesa e belligerante nella sua essenza etnica.
Ora, se dilatiamo questa breccia psichica, prendiamo consapevolezza che la guerra in corso non è mai stata fra russi e ucraini, ovvero fra due categorie artificiose e poetiche tanto quanto è artificioso e poetico il costrutto nazionalista che rappresentano. La guerra, in realtà, è ed è sempre stata una questione molto più empirica e prosaica. A combatterla sono solo alcune persone – cittadini della Federazione Russa e affiliati – le cui menti sono militarizzate, e che credono nella violenza come mezzo necessario per ottenere i fini che desiderano; sul fronte opposto, a combattere troviamo sempre solo alcune persone – cittadini dell’Ucraina e affiliati – le cui menti sono ugualmente militarizzate, e che credono ugualmente nella violenza come mezzo necessario per ottenere i fini che desiderano. E il fatto che i fini degli aggrediti siano giusti (mentre lo stesso non si può dire dei fini degli aggressori) non giustifica i loro mezzi, poiché l’uso della violenza – come già sostenuto da Mohandas K. Gandhi in un articolo apparso su Young India il 4 novembre 1926 – può essere contemplato «soltanto quando è inevitabile, dopo una completa e matura riflessione e dopo aver esaurito tutti i mezzi per evitarlo». Insomma, non esattamente il comportamento adottato da Zelensky e dal suo entourage all’indomani dell’invasione e nei mesi successivi; né tantomeno quello dei governanti ucraini negli ultimi otto anni, calcolando quanto accaduto nelle regioni orientali del Paese a partire dal 2014.
Trasversalità militarista e antimilitarista
Tutte queste persone di orientamento militarista, insieme, costituiscono in realtà un unico schieramento trasversale alle due nazioni. Uno schieramento che collabora fattivamente alla costruzione dell’evento bellico, effettuando omicidi di massa preventivamente organizzati, sconvolgendo gli equilibri ecologici dei territori su cui operano e depauperando le risorse necessarie ai loro connazionali per vivere – oltre a minacciarne direttamente l’incolumità.
A questo schieramento di reciproci nemici che producono la guerra se ne oppone un secondo, ugualmente trasversale alle due nazioni (e storicamente minoritario, in ogni tempo e luogo), di orientamento antimilitarista e che resiste alla guerra. Questo è composto da persone le cui menti sono smilitarizzate, le quali rifiutano di collaborare fattivamente alla costruzione dell’evento bellico – e quindi alle già citate conseguenze che esso comporta – cooperando invece per la decostruzione di tale evento e in favore della costruzione di un sistema di difesa civile non armata e nonviolenta (a cui si sta lavorando da circa un decennio anche in Italia). A titolo d’esempio, possiamo citare il Movimento Pacifista Ucraino e il Movimento degli Obiettori di Coscienza Russi.
In mezzo fra questi due schieramenti, e sempre trasversalmente ai due Stati-nazione, stanno tutte quelle persone che per i più svariati motivi oscillano tra un polo e l’altro, o più semplicemente non si schierano – opzione, quest’ultima, che inevitabilmente finisce con l’avvantaggiare i fautori del militarismo e della violenza, i quali dispongono di ingenti risorse per campagne propagandistiche finalizzate alla legittimazione del loro modus operandi come il solo possibile per garantire la sicurezza nazionale.
Mentre i membri dello schieramento militarista rimangono assoggettati alla Weltanschauung nazionalista, provocando distruzione, assassinandosi a vicenda e assassinando chiunque venga classificato come nemico (civili compresi), i membri dello schieramento antimilitarista aprono il loro sguardo verso un orizzonte cosmopolita, operando per il superamento della violenza e delle sue cause.
Obiezione di coscienza al servizio militare e diserzione
Dunque, se la guerra in corso non è fra la Federazione Russa e l’Ucraina, se non è fra russi e ucraini, se non è fra due interi popoli, bensì solo fra i militaristi (e i loro sostenitori) dell’una e dell’altra nazione, che si combattono a vicenda mettendo a repentaglio la loro vita e quella di tutti i propri connazionali, ne consegue che il metodo più diretto ed efficace per la cessazione delle ostilità – almeno finché la guerra rimane di tipo convenzionale e non assume risvolti nucleari – consiste nello svuotare lo schieramento militarista dalle risorse umane che lo compongono. Infatti, nonostante i numerosi progressi tecnologici nel campo della robotica e dell’automazione, ancora per il momento, se non ci sono mani disposte a sparare (o ad azionare i comandi), le armi da sole non sparano e non uccidono.
L’obiezione di coscienza al servizio militare e la diserzione si attestano quindi come le pratiche più funzionali per arrestare la macchina bellica, ed è pertanto indispensabile che chiunque sia seriamente interessato alla fine della guerra in Ucraina si adoperi per proteggere e fornire asilo a obiettori di coscienza e disertori, indipendentemente dalla loro nazionalità.
A tal proposito l’International Fellowship of Reconciliation, la War Resisters’ International, l’European Bureau for Conscientious Objection e Connection e.V. hanno lanciato la #Object War Campaign per chiedere alla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel e alla Presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola di: concedere protezione e asilo ai disertori e agli obiettori di coscienza della Federazione Russa e della Bielorussia; esortare il governo ucraino a smettere di perseguitare i propri cittadini obiettori di coscienza garantendo il pieno diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare; aprire le frontiere a chi si oppone alla guerra nel proprio Paese mettendo a rischio la propria persona.
In Italia la campagna è supportata da Movimento Nonviolento (che promuove anche un’altra campagna di obiezione di coscienza alla guerra), Un Ponte Per, Movimento Internazionale della Riconciliazione e Giuristi Democratici. E sempre in Italia il Movimento Nonviolento ha co-organizzato, assieme alla Conferenza Nazionale Enti Servizio Civile, il convegno dal titolo 50 anni di obiezione per la pace. Analisi, riflessioni e prospettive sul Servizio Civile, ospitando gli interventi di Alexander Belik e Yuri Sheliazhenko, rispettivamente Coordinatore e Segretario dei già citati Movimento degli Obiettori di Coscienza Russi e Movimento Pacifista Ucraino.
Dalla comprensione della violenza a un pacifismo pragmatista
Ad ogni modo, se è vero che la responsabilità della guerra in corso (così come di qualsiasi guerra in realtà) è primariamente di quelle persone che sostengono direttamente o indirettamente il campo militarista, è al contempo vero che queste persone non devono essere demonizzate e stigmatizzate. È invece indispensabile comprendere il loro punto di vista (il che non vuole dire affatto giustificarlo), prendere sul serio le loro ragioni (il che non vuol dire affatto legittimarle) e infine allargare anche a loro l’abbraccio cooperativo antimilitarista e nonviolento, per facilitare la ricerca di strategie alternative alla violenza. Quest’ultima, infatti, come ci ricorda Marshall B. Rosenberg in Le parole sono finestre [oppure muri]. Introduzione alla Comunicazione Nonviolenta, è sempre l’espressione tragica di bisogni non soddisfatti, e occorre quindi dare una risposta di senso per la soddisfazione di quei bisogni, una risposta che sia sufficientemente credibile e in grado di demistificare la cultura della violenza su cui poggiano le irrazionali credenze militariste.
Per concludere, sono ben consapevole che le riflessioni qui esposte sono frutto di una semplificazione dei fatti che ad alcuni potrebbe sembrare eccessiva. La realtà è sempre molto più complessa di come la si descrive, fatta di sofisticate sfumature, opache ambiguità e incoerenti paradossi. Eppure, credo non si possa negare il valore euristico di quest’analisi per ragionare su un pacifismo che non sia solo simbolico sventolio di bandiere e retoriche invocazioni alla diplomazia – comunque necessaria per la risoluzione delle controversie internazionali. Un pacifismo concreto, realistico e razionale mira al disempowerment delle forze armate e della loro immagine eroica e salvifica, in ogni parte del globo, Italia compresa. E per certo non invia armi ad altre nazioni.
Come sottolinea Jean-Marie Muller ne Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, testo tanto sconosciuto quanto imprescindibile: «Il fatto che, nel passato, il più delle volte, l’uomo ragionevole abbia combattuto le violenze dell’oppressione e dell’aggressione mediante l’azione violenta, dimostra la necessità dell’azione, ma non prova la fatalità della violenza. Certo, nella misura in cui il mezzo tecnico della violenza è stato l’unico utilizzato per tentare di vincere le violenze irrazionali, esso era l’unico a poter dare la prova di una certa efficacia. E noi dobbiamo riconoscere che, talvolta, il suo effetto benefico nella storia è stato più forte del suo aspetto malefico. Era meglio, allora, agire con questo mezzo che non agire per nulla. È vero che il nonviolento è anche lui erede delle lotte violente condotte nel passato, e che anche lui beneficia delle loro conquiste. Egli custodisce la memoria di queste lotte, ma ciò non lo obbliga affatto a pensare che la violenza resti oggi una necessità. Al contrario, se è davvero il fine della nonviolenza che ha giustificato in passato il mezzo della violenza, allora non soltanto egli ha il diritto, ma oggi ha il dovere di interrogarsi per sapere se non esistono altri mezzi che non siano in contraddizione con il fine ricercato. La questione che si pone oggi all’uomo ragionevole è di sapere se non è possibile inventare un’altra storia sperimentando un’altra tecnica d’azione, diversa dalla violenza».