Lo stato delle cose
Per pensare o, quanto meno, percepire la drammaticità della situazione attuale del mondo non serve né far ricorso ad immaginazioni catastrofiche né, più dottamente, alla crisi dell’Occidente; basta nell’immediato mettere insieme la sequenza delle fratture che negli ultimi venti anni hanno scandito le esistenze a livello planetario. Non è più solo questione di tramonto culturale e morale dell’Europa; è successo e seguita a succedere qualcosa di più fondamentale ed universale. Ciò di cui ci avevano edotto Husserl, Huizinga, De Martino, in qualità di filosofi o storici o antropologi, era una situazione di indebolimento grave dei valori fondanti di una civiltà (stanchezza, incredulità, perdita di fede nella propria missione storica) di cui occorreva prendere coscienza per rinascere, per ritrovare il compito storico. Non è andata così, evidentemente.
Tra la fine della guerra mondiale e il momento emblematico che, nel 1991, ha congiunto la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la cosiddetta guerra del Golfo, c’è stata per l’Europa democratica l’illusione di un mutamento storico tale da consentirle di sentirsi altra cosa da ciò che era stata fino a ieri; ha ritenuto di potersi lasciare alle spalle una crisi irreversibile senza affrontarla davvero. Ci si è limitati a cercare di esorcizzare il passato imbrigliando i belligeranti di ieri in una Europa unita più da interessi economici che da volontà politica. Così quell’orrendo passato prossimo è rimasto opaco, inerte, un peso morto che ha
seguitato a immettere veleni nei corpi vivi delle nazioni occidentali e da queste propagati per il resto del mondo. È bastata la rottura dell’equilibrio del terrore atomico per svelare che la volontà di potenza non era stata affatto addomesticata.
L’occasione davvero storica di dar corso a relazioni internazionali ispirate a volontà di collaborazione e convivenza pacifica tra potenze già avverse fu bruciata sul nascere negli anni Novanta (immolando l’uomo che in quella possibilità aveva creduto), e subito se ne approfittò per restituire cittadinanza alla guerra (nel Vicino Oriente, poi in Europa).
Dopodiché, eventi bellici presentati come circoscritti sono risultati un anticipo sulla sequenza impressionante dell’ultimo ventennio, fino all’esito attuale che ci riporta al punto di partenza. Non senza stupore e spavento, certo, ma più per le conseguenze economiche immediate che per il repentino cambiamento dello stato del mondo, che combina in una oscura spirale il moltiplicarsi delle guerre, i milioni di profughi costretti a migrare, una crisi inestricabilmente economica ed ambientale, il rischio pandemico incombente e quello atomico annoverato tra gli esiti possibili. Una coltura questa in cui stanno crescendo come funghi velenosi sovranismi, nazionalisti, populismi, pulsioni razziste, violenza
e rabbia. Ce ne è quanto basta perché tornino attuali le immagini bibliche da fine del mondo (con profitto, è vero, di facili operazioni qualunquistiche).
Ci sono diversi modi per definire apocalittico uno stato del mondo (religiosi, filosofici, storici, sociologici, antropologici), ma direi che a tutti è comune la nozione di discontinuità: una frattura non subito evidente nel continuum storico o esistenziale, e perciò più o meno a lungo ignorabile, spesso anche quando è sotto gli occhi, secondo il rimprovero di Gesù ai contemporanei circa l’incapacità di riconoscere «i segni dei tempi». Perciò una coscienza apocalittica – che in quanto tale si esprime propriamente in termini escatologici – è un modo estremamente consapevole di stare al mondo, di prestare attenzione all’esistenza personale, sociale, storica; è una capacità di starvi ad un tempo dentro e fuori, di giudicarla soffrendone (da meditare ancora sono le Tesi sulla storia di Walter Benjamin, come pure le riflessioni di Elsa Morante in Pro o contro la bomba atomica).
Diventa a questo punto indispensabile tornare a riflettere sulla lezione, mai davvero appresa, della prima metà del Novecento e su cosa abbia impedito che questo compito fosse assunto adeguatamente subito dopo la guerra (quanto vi ha contribuito il lungo permanere nella logica da guerra fredda?) Sta di fatto che a interrogarsi furono assai più gli intellettuali che tra le due guerre quegli eventi li stavano vivendo e spesso in condizioni assai precarie e dolorose, consapevoli del crollo apparentemente improvviso dei fondamenti stessi di una civiltà, che non quelli venuti dopo (a parte qualche voce alta, presto marginalizzata, per quel che riguarda la volontà di comprendere il permanere e aggravarsi della crisi). Crisi che oramai non è più solo dell’Occidente, nella misura in cui sembra venuta meno ovunque e in tutti i campi la capacità di mediazione, di confronto costruttivo, di rispetto reciproco.
Di qui il moltiplicarsi delle fratture e la loro crescente ingovernabilità, il cui prezzo maggiore è pagato quotidianamente dalla grande maggioranza dell’umanità ridotta a scarto (non certo per accidente, ma per necessità inerenti alle attuali strategie economico-finanziarie e alla lotta tra potenze per il predominio geopolitico, come non si stanca di ripetere, vanamente, Bergoglio). Il deterioramento dei quadri di riferimento disegna l’orizzonte di una criticità i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, ma raramente vengono letti nei loro nessi; si preferisce, e non soltanto da parte dei politici, considerarli separatamente e strumentalmente con l’effetto, poco importa se involontario, di creare quel massimo d’instabilità e confusione che favorisce l’emersione di assetti socio-politici non ancora definiti ma certo altri rispetto a quelli per i quali la parola democrazia ha senso.
Dato questo stato delle cose, il compito intellettuale, oggi, dovrebbe essere di provarsi a volgere lo sguardo sugli strati sottostanti (storici, etici, psicologici, religiosi, politici), nonché sui legami tra questi. A partire, direi, dalla domanda che si poneva Hannah Arendt a proposito della Germania nazista: come è potuto accadere tutto questo?
Che nell’attualità andrebbe posto a proposito di Russia e Ucraina e più ampiamente a proposito del deterioramento delle relazioni internazionali, nonché a proposito della crisi climatica spinta fino al punto di non ritorno, dell’incapacità di affrontare l’imponenza dei flussi migratori, nonché dei processi di indebolimento delle capacità riflessive e volitive operate attraverso le pratiche dispersive, ossessive dei social, e così via. L’elenco è lungo e intricato, ma l’effetto comune è, per dirla con Morante, di «strangolare ogni viva espressione della realtà». Occorrerebbe un’analisi a tutto campo, di modo che si scoprano altresì le strategie sommerse di resistenza, i movimenti controcorrente, le attestazioni, che ci sono e non poche, di assunzione di responsabilità nel lavoro, nelle professioni, nelle arti. In definitiva ciò che resta della capacità di pensiero critico e della volontà di cambiamento.
Ecco, dunque, una situazione storica in cui sarebbe necessaria una forza di carattere e di pensiero, una
capacità di lettura complessiva dello stato reale delle cose in grado di suscitare energie e di creare luoghi di resistenza attiva, come successo in altri passaggi storici drammatici. A questo, mi sembra, ha corrisposto il lungo impegno culturale di Goffredo attraverso le riviste che ha diretto.
Ciò che ora ne resta sono soprattutto quanti in questo impegno si sono riconosciuti e se ne sono in qualche misura assunta in prima persona la responsabilità. Cosicché si tratta ora di verificare se «gli asini» possono costituire ancora un siffatto luogo e se ci sono le condizioni operative per continuare in un impegno che è altresì da rinnovare all’altezza dei mutamenti in atto.