Israele: strumenti di sorveglianza e industria militare
Uno degli autori meno noti in Italia, i cui lavori sono incentrati soprattutto sugli aspetti della colonizzazione e la politica della sorveglianza in Israele, è Elia Zureik, uno dei più importanti sociologi palestinesi. Zureik, nelle sue ricerche, ha analizzato le strategie, i metodi e le pratiche di gestione della popolazione che Israele ha perseguito per assicurarsi il controllo dei palestinesi e i sistemi di sorveglianza della popolazione utilizzati sia all’interno di Israele sia nei Territori occupati. La sua ultima fatica, che copre una ricerca durata tutta una vita, Israel’s Colonial Project in Palestine: Brutal Pursuit (2016), ritorna su questi temi ma allarga lo sguardo sulla storia e sulla demografia ed esplora il dibattito teorico che, sulle orme di Foucault, ha analizzato l’intreccio tra sicurezza territorio e popolazione come terreno della biopolitica. Il libro è uno studio della condizione palestinese che fa propria la nozione di punto di vista, del posizionamento (standpoint theory), elaborato dalla filosofa ed epistemologa femminista Sandra Harding, quello di intellettuale organico di Gramsci e quello di liminality, liminalità e ibridità di Homi K. Bhabha cruciale per l’intellettuale palestinese in esilio in posizione di confine e marginalità. Secondo Zureik il colonialismo fa perno su tre interessi fondativi – violenza, territorio e controllo della popolazione – che poggiano su pratiche e discorsi razzisti. Il colonialismo di insediamento, “inerentemente eliminatorio” della popolazione indigena, secondo la lettura di Patrick Wolfe, anche se non invariabilmente genocidario, è intrinsecamente associato allo spossessamento della popolazione indigena con la violenza, attraverso pratiche e leggi di stato repressive, pratiche informali e tecnologie di controllo.
Il concetto di biopolitica elaborato da Foucault, seppure non pensato in un ambito coloniale, risulta molto utile a capire la relazione tra razzismo e colonialismo, soprattutto la sua analisi sulle tecniche del potere e l’apparato di sorveglianza. La biopolitica, che è una forma di razzismo, tratta la popolazione, ritenuta inferiore, come un problema al contempo politico e scientifico, biologico e di potere. Biopolitica e politica territoriale si intersecano a vari livelli per facilitare la confisca del territorio, la privatizzazione di terre comuni, lo spossessamento degli indigeni e il trasferimento della popolazione. Per perseguire questi obiettivi, i regimi coloniali fanno affidamento su sistemi di identificazione corporea (racial profiling), di rafforzamento dei controlli ai confini e posti di blocco nel territorio (check-points) in cui l’ispezione corporale, l’umiliazione psicologica e la violazione della privacy sono esperienze routinarie a detrimento della libertà di movimento e della mobilità della popolazione in nome della sicurezza dello Stato.
Colonialismo e sorveglianza
Zureik osserva che una delle più potenti strategie di dominazione è quella della sorveglianza perché implica un osservatore in posizione di vantaggio. L’identità del colonizzatore, la sua autoaffermazione si costruisce sulla base della stigmatizzazione e denigrazione dell’Altro, il colonizzato, il nativo. Anche Yasmeen Abu-Laban e Abigail Bakan (Israel, Palestine and the Politics of Race, 2019) sostengono che ciò che distingue la sorveglianza in Israele /Palestina è il contesto razzializzato e le relazioni asimmetriche di potere tra il colonizzatore e il colonizzato. Basti solo pensare all’amministrazione di un sistema legale duale: uno per il colonizzatore e uno per il colonizzato. Zureik fa sua la nozione che Martha Kaplan chiama “panopticism”, ovvero l’uso di questionari, di censo, mappe, documenti, registrazioni nei regimi coloniali. La colonia diventa un laboratorio per sviluppare e testare tecnologie di sorveglianza anche per uso nazionale, sicuritario e di mercato. Questo risulta chiaro nel caso di Israele, la cui tecnologia militare si è dimostrata efficace nel silenziare o sopprimere l’opposizione, come è ben dimostrato nel documentario The Lab del 2013, diretto da Yotam Feldman, sull’industria militare israeliana.
Le pratiche sicuritarie e violente si sono moltiplicate e sono diventate più perverse dal 2007, con la vittoria elettorale di Hamas nella Striscia di Gaza, materializzandosi nel taglio del flusso delle risorse finanziarie e nella riduzione delle forniture di cibo e altri beni essenziali in nome della lotta al terrorismo. Oltre a queste misure, Israele non ha mancato a Gaza di attaccare scuole, case, rifugi e nel 2014 l’unica centrale elettrica ancora funzionante e il più grande presidio ospedaliero della città.
Nel contesto della punizione collettiva, c’è da segnalare che, prima della crisi attuale, circa il 50 per cento dei palestinesi adulti dei Territori Palestinesi Occupati aveva subito arresti. Negli ultimi cinque mesi, il numero è salito in maniera esorbitante arrivando a toccare la cifra di circa 8mila detenuti. Picchiati, derubati, aggrediti sessualmente e maltrattati dai soldati durante gli interrogatori, senza il diritto alle cure e agli avvocati, sono morti ben 27 detenuti. Pazienti ammanettati e bendati giorno e notte, prassi oramai di routine, alimentati con cannucce e costretti a defecarsi addosso: una vera e propria tortura, secondo Physicians for Human Rights.
Eyal Weizman nel suo libro Il minore dei mali possibili (Nottetempo, 2013), sostiene che i meccanismi dell’assedio a Gaza operano calibrando il livello della corrente elettrica, delle calorie e altre necessità al minimo livello possibile nel tentativo di governare la popolazione riducendola al limite della nuda esistenza fisica. Sulla scia dell’attacco brutale a Gaza a fine dicembre 2008, lo storico Avi Shlaim esperto analista del conflitto Israele/Palestinese concludeva già allora: “da un breve esame dei documenti delle ultime quattro decadi è difficile resistere alla conclusione che Israele sia diventato uno stato canaglia con leader completamente privi di scrupoli. Uno Stato è definito canaglia (“rogue”) se viola la legge internazionale, possiede mezzi di distruzione di massa, pratica il terrorismo e usa la violenza contro i civili per scopi politici. Israele presenta ancora oggi tutti e tre questi caratteri; il vero obiettivo di Israele non è una coesistenza pacifica con i vicini palestinesi ma una dominazione militare”. La mole di distruzione e ferocia riferita da Avi Shlaim venne superata nell’attacco israeliano del 2014, quando le forze aeree israeliane lanciarono più di 6mila attacchi aerei e più di 21mila tonnellate di potenti esplosivi accompagnati da violenti attacchi dal mare e da terra che colpirono case, scuole, ospedali, infrastrutture civili.
L’ultima dirompente offensiva a cui stiamo assistendo, denominata Operazione Spade di Ferro, in risposta all’eccidio di Hamas del 7 ottobre, ha allargato gli attacchi ad obiettivi non militari avvalendosi dell’intelligenza artificiale e innalzando esponenzialmente la probabilità di morte tra i civili con l’obiettivo di catturare e uccidere i miliziani di Hamas e fare pressione sulla società civile. Il grande numero di obiettivi umani generato automaticamente mette in moto quella che Yuval Abraham ha definito, in un articolo su +974 Magazine del novembre scorso, “una fabbrica di assassinio di massa”. Lo stesso giornalista, in un’altra inchiesta pubblicata il 3 aprile scorso nella stessa rivista rivela come l’esercito israeliano abbia sviluppato un altro programma, sempre basato sull’intelligenza artificiale, Lavender, in grado di processare enormi quantità di dati utilizzando le informazioni raccolte sulla popolazione attraverso un sistema di sorveglianza di massa che, incrociando i dati, consentirebbe di individuare decine di migliaia di presunti miliziani di Hamas o di Jihad Islamica (37mila palestinesi sospetti in lista) come obiettivi militari.
Secondo le testimonianze che Yuval Abraham ha raccolto da gole profonde militari e dei servizi di informazione, l’esercito avrebbe dato ex ante l’approvazione a colpire usando una kill list (l’elenco dei bersagli umani da eliminare) generato artificialmente e sottoposto a una rapidissima verifica di pochi secondi, nonostante un margine di errore accertato di almeno il 10 per cento. Tali errori vengono, infatti, trattati statisticamente, senza supervisione umana). Mentre scriviamo la conta delle vittime palestinesi dal 7 ottobre è di più di 34 mila morti, di cui 14. 000 tra bambini\e e ragazzi\e, 17mila non accompagnati o separati dai genitori (secondo l’Unicef) mentre circa 1000 bambini\e hanno perso una o due gambe (Croce Rossa palestinese). Le donne uccise sono 9mila e più di 74mila i residenti feriti. Risulta internamente sfollata l’80 per cento della popolazione, un milione di persone non avrà una casa cui ritornare. La situazione degli ostaggi israeliani sequestrati da Hamas a 6 mesi di distanza dal grande massacro è terrificante. Al 7 aprile, secondo un editoriale di Haaretz, risultano in mano ai terroristi ancora 133 persone (dei 253 rapiti tra civili e soldati). Alcuni sarebbero già morti. Vittime di ostilità ma anche di abbandono, sostiene la sorella di un ostaggio ucciso dopo 183 giorni di prigionia il cui corpo è stato restituito a Israele durante un’operazione militare. Gli ostaggi sono, secondo la sorella, ”vittime sacrificali per raggiungere gli obiettivi messianici di conquista, insediamenti e il trasferimento forzato dei palestinesi.”
Un altro dato preoccupante riguarda l’uccisione dei giornalisti palestinesi. Secondo CPJ (Committee to Protect Journalists ) almeno 95 giornalisti e operatori sono stati uccisi, nel corso dell’attacco israeliano, testimoni scomodi degli orrori della guerra. Al contempo è in corso una campagna per l’abolizione dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che garantisce servizi essenziali a più di cinque milioni di rifugiati palestinesi sparsi in campi profughi della Striscia, della Cisgiordania, di Gerusalemme est, (oltre che della Giordania, del Libano e Siria) con l’accusa che 12 dei suoi dipendenti siano infiltrati di Hamas, e pertanto subito licenziati, ma le cui prove non sono ancora state fornite. come dichiara il capo dell’UNRWA Lazzarini in una intervista ad Haaretz il 20 febbraio. A ciò, si aggiunge oggi una catastrofica mancanza di cibo e beni di prima necessità che costringe le persone, compresi i bambini, a cibarsi di mangimi per animali e alimenti di scarto. Come scrive Amira Hass su Haaretz il 10 aprile,secondo un rapporto condotto con la partecipazione della Banca Mondiale, i palestinesi della Striscia di Gaza rappresentano al momento l’80% di tutte le persone che nel mondo si trovano ad affrontare carestie e grave denutrizione. Il piano di invadere Rafah, infine, minacciato dal governo Netanyahu, sarebbe, secondo Jewish Voice for Peace, il “penultimo stadio di un genocidio annunciato”.
Economia e politica del sistema di sorveglianza
Le politiche di sorveglianza di massa nei Territori palestinesi occupati, le guerre a Gaza e le incursioni in Libano e Siria diventano un laboratorio di inestimabile valore per l’industria militare israeliana dando legittimazione al ricorso alla guerra, anziché alla politica e alla diplomazia, come mezzo per la risoluzione della questione palestinese. La guerra ad Hamas e ai gazawi è diventata, infatti, anche un test per sperimentare le nuove potenti tecnologie militari di cui Israele dispone essendo uno dei più importanti produttori ed esportatori mondiali di armi. Lo dimostra il successo con cui è stato accolto il padiglione israeliano alla fiera aeronautica di Singapore, il più grande salone di vendita di armi asiatico, il 5 aprile scorso, dove Israele ha messo in mostra la nuova generazione di munizioni e di tecnologie di sorveglianza e anti droni. I clienti asiatici hanno manifestato molto interesse per il genere di armamenti che si sono dimostrati molto efficaci nei campi di battaglia in corso a Gaza, in Libano e in Cisgiordania. Un vero trionfo per il mercato delle armi israeliane che quest’anno si è aggiudicato un terzo delle vendite asiatiche e questo, nonostante le manifestazioni di protesta, peraltro proibite dal governo, che hanno accompagnato l’intera esposizione.
Anthony Loewenstein, giornalista investigativo australiano, nel suo libro The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World (2023), di cui è appena uscita l’edizione italiana, sostiene che per promuovere la sua agenda di sicurezza nazionale il lavoro più lungimirante svolto da Israele non sia solo quello della commercializzazione dei dispositivi cibernetici ma quello diplomatico che l’accompagna. Quando Israele vende apparecchi di cyber sorveglianza ad alcuni Paesi africani lo fa a patto di assicurarsi il loro voto alle Nazioni Unite. Come ha sintetizzato Amitai Ziv, un giornalista di Haaretz esperto in materia, “Siccome c’è una occupazione, abbiamo bisogno di voti”. Per promuovere la sua agenda di sicurezza nazionale, Israele aveva dato l’appoggio, a suo tempo, al Sudafrica dell’apartheid e al Cile di Pinochet, e ora non ha avuto scrupoli ad ottenere il supporto delle dittature arabe come Bahrain, Emirati, e Arabia Saudita un alleato importante, questo e lo si è visto nell’ultima crisi, in funzione anti iraniana. Il ruolo della sorveglianza israeliana sta dando potere a regimi antidemocratici e fascisti a livello globale e prendendo di mira giornalisti e attivisti dei diritti umani.
Psy Group, una compagnia privata di intelligence israeliana, nel 2016, è diventata partner di Cambridge Analytica per mettersi in affari con il governo statunitense. Un report del Senato del 2020 segnala che Psy Group ha cercato di influenzare l’elezione presidenziale del 2016 prestando i suoi servizi alla campagna elettorale di Donald Trump. Una delle sue missioni inoltre è stata quella di scoprire i leader del movimento non violento BDS nelle università. Altre tecnologie di sorveglianza tra cui Cellebrite sono state vendute sia a paesi amici che a paesi senza legami diplomatici con Israele, come Russia, Indonesia, Cina al Sud Sudan tra gli altri. Gli anni di Netanyahu hanno registrato una spinta ad allacciare relazioni vendendo spyware agli autocrati di mezzo mondo: Pegasus venne venduto all’Ungheria di Orban e all’India di Narendra Modi nel 2018, mentre Paul Kagame leader del Rwanda inizia a usare NSO nel 2017.
Oded Yaron, (Haaretz 23 sett. 2023) rivela che l’industria aereospaziale israeliana e il Sistema Elbit vendono armi a Myanmar anche dopo il colpo di stato militare del 2021, in barba a un embargo internazionale. Anche l’Azerbaijan, accusato di crimini di guerra, ha usato i dispositivi elettronici di spionaggio Pegasus del gruppo israeliano NSO contro attivisti dei diritti umani, giornalisti e accademici armeni (Oded Yaron “Armenian Officials Hacked With Israeli Spyware. The Suspect: Azerbaijan” Haaretz, 29 maggio, 2023).
Jeff Halper un accademico e scrittore israelo-americano, nel suo libro War against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification, sostiene che l’occupazione dei Territori palestinesi lungi dall’essere un peso finanziario, offre al contrario un terreno prezioso per testare i nuovi dispositivi dell’ industria militare di cui Israele è un leader mondiale. Si stima che nel 2025 il complesso industriale militare della sorveglianza varrà 68 miliardi di dollari e compagnie come Elbit ne saranno tra i maggiori beneficiari.
L’aumento del numero dei coloni ha alzato il livello dello scontro con i palestinesi della Cisgiordania giustificando metodi di controllo e repressione tanto sofisticati quanto violenti. L’Autorità Palestinese ha denunciato agli USA (USSC) centinaia di incidenti provocati dai coloni dal 7 ottobre in poi. Al 16 novembre 2023 nell’area C controllata da Israele ben sedici comunità, per un totale di circa 1000 palestinesi, erano state evacuate a causa di attacchi, sparatorie con morti, incendi dolosi, atti di vandalismo. Da allora il numero è andato drammaticamente crescendo.
Israele sorveglia la trasmissione da parte dell’ANP agli USA dei dati sugli attacchi dei coloni per prevenire sanzioni, ha denunciato Yuval Abraham su + 972 mag il 14 febbraio. Il movimento dei giovani coloni, eufemismo per insediamenti illegali insieme con il generale fronte dei “Signori della terra” (che include tutti i coloni insieme ai loro rappresentanti nel governo attuale) hanno incrementato la cancellazione della Green Line, anche in tempo di guerra, ottenendo dal governo finanziamenti volti a normalizzare gli insediamenti, rendendo inapplicabile il progetto dei due stati, uno dei quali sarebbe ridotto a piccolissimi bantustan, non collegati tra loro e circondati da estremisti fondamentalisti.
Suprematismo e “mutazione ebraica” in Israele
Nel 2050 un terzo della popolazione israeliana sarà composta da ebrei ultra ortodossi, una delle componenti principali dei coloni. La virata conservatrice, verso la destra estrema è già una realtà così come la spinta etnonazionalistica, l’aumento delle disuguaglianze di genere, (richiesta di spazi segregati, diritto di famiglia in mano alle corti rabbiniche) l’omofobia, il rigorismo religioso e l’avversione per il multiculturalismo e la laicità dello stato. Perfino il Ministro per gli Affari Religiosi, Matan Kahana ha perorato la pulizia etnica. La crescita dell’istigazione razzista e le azioni contro i palestinesi da parte dei coloni hanno indotto l’ex direttore del Jerusalem Post, Yaakov Katz, ad ammettere nel 2022 che “una percentuale significativa di Israeliani ha abbracciato le idee dell’estrema destra prendendo a prestito la terminologia dei suprematisti bianchi degli USA”.Anche Amira Hass ha messo più volte in guardia su Haaretz, sempre nel 2022, che in Israele è in corso una “mutazione ebraica” (Jewish mutation) dovuta all’abbraccio del messianismo giudaico suprematista. “E’ solo una questione di tempo e sarà la maggioranza all’interno del parlamento”.
Nel suo libro, Loewenstein avverte che si potrebbe inverare il peggiore degli scenari: il pretesto della sicurezza nazionale potrebbe comportare la pulizia etnica della Palestina occupata, il trasferimento forzato della popolazione. Un’operazione militare potrebbe favorire un esodo di massa. Nel 2016 un sondaggio condotto dal Pew Research Center, mostrava che quasi la metà degli ebrei israeliani era favorevole al trasferimento o all’espulsione degli arabi. La coalizione di estrema destra che fa parte del governo Netanyahu, eletto a novembre del 22, costituisce il terzo grande blocco politico nella Knesset. Una forza dichiaratamente a favore del suprematismo giudaico e dell’espulsione forzata dei palestinesi.
Associare i palestinesi ai fondamentalisti islamici, come fa la destra al governo, è funzionale all’obiettivo di Israele di affossare la soluzione dei due Stati, come le politiche espansioniste in Cisgiordania e a Gerusalemme est dimostrano. Eppure Israele ha incoraggiato Hamas, dunque quegli stessi fondamentalisti, fin dalla sua nascita in funzione anti Fatah, ci ricorda A. Shlaim (2009). I Palestinesi sono presentati come terroristi inclini a negare il diritto di Israele ad esistere. Secondo Alex Kane (Jewish Currents del 6 febbraio 2024), la proposta recente di creare una “buffer zone” militarizzata potrebbe configurare la realtà del dopo guerra di Gaza, riducendo ulteriormente il territorio palestinese e aprendo le porte a futuri insediamenti ebraici illegali. Un’altra proposta, presentata come soluzione umanitaria, prevede una “ricollocazione” volontaria con l’aiuto della comunità internazionale o l’espulsione nel Sinai come rimedio alla devastazione catastrofica portata avanti dall’esercito (Jonathan Shamir “Israel ‘Humanitarian’ Expulsion”, Jewish Currents Dec.12/23). Una devastazione definita dal Guardian e da altri osservatori un ecocidio. Le immagini satellitari rilevano infatti una grave distruzione dell’ecosistema con aziende agricole e la metà degli alberi rasi al suolo. L’inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua, a causa dei bombardamenti e della distruzione delle infrastrutture, renderebbero molta parte dell’area invivibile.