Una classe senza voto a Cesena

La didattica a distanza non sta funzionando come la raccontano i media, è evidente. Le ragioni sono tante e la soluzione non può essere di certo quella di regalare tablet a più di otto milioni di studenti. Il Miur sembra minimizzare il problema, per cui non sappiamo se in futuro, quando si tornerà a scuola, verranno prese serie iniziative per recuperare quelli che sono rimasti indietro, o se i morti e feriti di queste settimane di chiusura delle scuole verranno dimenticati.
Sui media si fa un gran parlare delle presunte opportunità che ci vengono offerte dalla chiusura delle scuole e dalla didattica a distanza. Proviamo a riflettere su queste opportunità ma facciamolo in modo serio, mettendo da parte il solito mantra dell’innovazione tecnologica. Cerchiamo di essere radicali ragionando sui presupposti della nostra idea di scuola, su abitudini e rituali dati per scontati. Parliamo ad esempio di valutazione. In queste settimane, sta emergendo con forza l’inefficacia del principale strumento disciplinare fino a oggi adottato dalla scuola italiana: il voto. Molti studenti, anche quelli che magari posseggono un Pc, saltano gli appuntamenti online coi loro docenti e non rispettano le scadenze delle consegne dei compiti perché manca quello che, fino al 23 febbraio (almeno qui in Emilia Romagna), era il principale motore della loro motivazione. Sono stati educati così. Ora sanno che gli insegnanti sono disarmati e non possono ricorrere a quella merce di scambio che, fino al 23 febbraio, avevano a disposizione per premiare o punire. L’attuale sospensione della scuola può essere dunque l’occasione per elaborare degli strumenti di valutazione alternativi al voto numerico in grado di far leva sulla motivazione intrinseca degli studenti.
Noi degli Asini è da un po’ che pensiamo a questo tema.
Lo scorso otto febbraio a Bologna, insieme al Movimento di cooperazione educativa, abbiamo organizzato un incontro sul tema della valutazione. L’incontro si collegava alla campagna lanciata dal Mce “Voti a perdere” per chiedere la modifica del Decreto legislativo 62 del 2017 e l’abolizione del voto numerico, e intendeva dunque dare seguito a un percorso di riflessione già avviato col convegno “Non sono un voto”, organizzato dall’Università di Milano Bicocca e dallo stesso Mce lo scorso 28 ottobre.
Il convegno di Milano era stato un momento importante, e abbiamo voluto raccontarlo sulla nostra rivista: l’intervento si trova nel numero doppio di dicembre e gennaio. La straordinaria partecipazione – più di mille iscritti – non aveva però favorito il dibattito o quantomeno un confronto tra le varie posizioni in campo.
L’incontro bolognese ha voluto alzare la posta in gioco estendendo il discorso alla scuola secondaria di secondo grado. I relatori presenti erano Mauro Boarelli, la prof.ssa Sonia Bacchi del liceo Monti di Cesena e il professor Simone Romagnoli dell’Università di Bologna. Bacchi e Romagnoli hanno parlato della sperimentazione condotta presso il liceo Monti di Cesena; una sperimentazione che rientrava nell’ambito del progetto “Ben-essere a scuola”, nato nel 2014 dalla collaborazione tra il liceo Monti e la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. I promotori del progetto sono partiti da una domanda: cos’è che mina lo stato di benessere di studentesse e studenti nel contesto scolastico? Dopo una lunga fase di ricerca e incontri di gruppi, uno dei principali problemi riscontrati è stato quello legato al voto. A quel punto è stata scelta una classe campione alla quale proporre una forma di valutazione alternativa a quella basata sui voti numerici: una valutazione per competenze. Cosa voleva dire in termini concreti? Per un intero anno scolastico le verifiche degli studenti sono state valutate in base ai livelli di competenza raggiunti. Il livello più alto corrispondeva alla competenza acquisita (A), quello intermedio alla competenza parzialmente acquisita (Pa), quello più basso alla competenza non ancora acquisita (Na).
Cosa c’è di diverso rispetto alla valutazione tradizionale? Molto o poco, a seconda dei punti di vista. Il voto numerico stabilisce una gerarchia tra i più bravi e i meno bravi, una gerarchia che incute un senso di minaccia, provoca ansia da prestazione, induce al confronto con i pari e, infine, nuoce al rapporto con i docenti. Al Monti il range tra i vari livelli è stato accorciato, diminuendo così drasticamente la possibilità del confronto reciproco. Inoltre, far fuori i numeri vuol dire far fuori la media, un’assurdità dal punto di vista docimologico che tuttavia sappiamo quanto conti per gli studenti. Da questo punto di vista, la valutazione per competenze, per com’è stata concepita dagli insegnanti del liceo Monti, ha qualcosa in comune con il “semaforo” del maestro Davide Tamagnini; anche se il confronto più opportuno è probabilmente quello con la valutazione per competenze che è stata introdotta negli Istituti professionali con l’ultima riforma, nella quale però sono previsti non tre ma quattro livelli di acquisizione: parziale, basilare, intermedio ed elevato.
Questa soluzione ha avuto un effetto positivo sul benessere degli studenti. Lo confermano le loro stesse lettere che sono riportate nel Quaderno della Ricerca, La classe senza voto (Loescher 2019), dedicato appunto al progetto “Ben-essere”. Gli studenti affermano di essersi sentiti più motivati e, scomparso lo spettro del confronto, si sono concentrati maggiormente sui loro progressi. La valutazione è diventata così stimolo per l’autovalutazione, un’occasione per riflettere su quel che si è appreso e su quel che si deve ancora apprendere.
Veniamo però alle criticità di questa sperimentazione.
La prima e più evidente sta nel fatto che la valutazione per competenze è stata utilizzata solo come valutazione formativa, non sommativa (o certificativa). Detto altrimenti, il documento di valutazione (la classica ’pagella’) che viene consegnata agli studenti e alle loro famiglie al termine del primo e del secondo quadrimestre, conteneva i voti numerici. La ragione è molto semplice: lo chiede il Ministero.
Era uno ostacolo insormontabile? Forse no. Con un po’ di coraggio, sarebbe stato possibile aggirarlo appellandosi al principio dell’autonomia scolastica che attribuisce alle singole scuole ampie libertà in materia di sperimentazione didattica. Certo è che gli stessi studenti non hanno mancato di notare la contraddizione tra la valutazione per competenze nelle prove in itinere e il ritorno dei numeri per gli scrutini.
Un’altra criticità, ben più profonda, riguarda l’uso stesso della valutazione per competenze. Mauro Boarelli ha espresso forti perplessità rispetto al concetto di competenza, che, com’è noto, proviene dal mondo dell’impresa e solo in un secondo momento è stato nobilitato dai pedagogisti, i quali ne hanno formulato cento definizioni diverse generando non poca confusione. Il problema dunque esiste e non è solo di carattere terminologico.
Stando ai documenti europei – a partire dalla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 e dal Quadro europeo dei titoli e delle qualifiche (European Qualifications Framework, Eqf) del 2008 – e alle loro declinazioni negli ordinamenti scolastici dei diversi paesi – in Italia, il termine competenza compare per la prima volta nel DM n. 9 del 2010 – possiamo osservare come la competenza sia spesso appiattita sulla performance, sulla prestazione da valutare. La competenza è infatti figlia di quella cultura del risultato – identifichiamola pure con il New Public Management, tanto per essere chiari – che in tutti gli ambiti della vita sociale (scuola, università, sanità, eccetera) ha contribuito al diffondersi di tecniche di valutazione basate su test standardizzati, i cui effetti perniciosi sono stati denunciati da molti (una per tutti: Valeria Pinto, Valutare e punire [2012], Cronopio 2019).
Quali sono le ricadute di tutto questo nel mondo della scuola? Almeno due. Quella più evidente è certamente la crescente importanza attribuita ai test (Invalsi, Pisa eccetera) che condizionano la didattica e favoriscono una competizione tra scuole; mentre quella meno visibile è la legittimazione e il rafforzamento di pratiche didattiche tradizionali, fondate appunto sul compito: la regressione verso un’idea di educazione intesa come addestramento. I sostenitori della didattica per competenze spesso riproducono nei fatti una didattica trasmissiva fatta di “lezione frontale-esercitazione a casa-compito in classe=valutazione”. Bel paradosso! Gli innovatori tecnocratici si sono rivelati complici dei difensori della vecchia scuola alla Galli della Loggia.
Ora, se le cose stanno così, qualcuno potrebbe chiedersi se sia opportuno fare a meno della parola competenza. Certamente no. Moltissimi insegnanti fanno una didattica per competenze, anche in modo efficace. Pensiamo agli insegnanti del Movimento di cooperazione educativa, eredi della pedagogia attiva di Freinet; ma pensiamo anche a quegli insegnanti che cercano di introdurre una didattica laboratoriale nelle scuole medie e superiori. Esiste infatti un’accezione diversa di questo termine che Philippe Meirieu ha illuminato bene in un suo breve saggio dal titolo eloquente, Se la competenza non esistesse, bisognerebbe inventarla (in Les compétences, a cura di Jean-Luc Ubaldi, Edition Revue Eps 2005). Lavorare per competenze significa per Meirieu “costruire delle situazioni di apprendimento centrate su obiettivi che diano un contributo allo sviluppo del soggetto e non solo su compiti, necessari ma insufficienti al lavoro scolastico”. Il concetto di competenza così inteso è un invito a calare le nostre azioni educative dentro contesti di senso che siano significativi per gli studenti, a ricercare quel nesso che lega il sapere e l’esperienza, a colmare lo iato che separa la scuola dalla vita. La didattica per competenze, nell’accezione suggerita da Meirieu, è il contrario della didattica dei compiti: è una didattica laboratoriale, che rispetta i tempi di apprendimento degli studenti senza farsi soffocare dall’imperativo della valutazione.
Comprendere la profonda differenza tra queste due concezioni della competenza è un dovere fondamentale per noi insegnanti. A quale di queste due concezioni fanno riferimento i docenti del liceo Monti? Rispondere non è facile. Alcuni elementi fanno propendere per una visione tecnocratica della competenza; come ad esempio il ripetuto richiamo, nel già citato Quaderno della Ricerca, La classe senza voto, al Quadro europeo dei titoli e delle qualifiche; oppure l’uso esclusivo di strumenti freddi come i “prospetti di valutazione” e le “griglie” che pretendono di dettagliare la complessità del processo di apprendimento – a questo proposito, non sarebbe stato opportuno affiancare strumenti più “empatici” come la correzione reciproca rifacendosi così ai principi della condivisione e della cooperazione?
In realtà, non abbiamo elementi sufficienti per capire quale modello di competenza abbia ispirato la concreta pratica didattica degli insegnanti del Monti; e non è una questione di poco conto. Le competenze sono, infatti, il pilastro su cui si regge l’intero sistema della cosiddetta valutazione esterna (i già citati Invalsi, Pisa…). A seconda di come le si intenda, praticare la valutazione formativa per competenze può quindi dare a medio e lungo termine due esiti opposti: favorire il progressivo adeguamento della vita scolastica ai modelli pedagogici pseudoscientifici calati dall’alto; oppure essere un’occasione per le singole scuole per costruire dei loro archivi con cui condividere esperienze e strumenti didattici e valutativi.
La “classe senza voto” è sopravvissuta solo un anno, per la stanchezza di un piccolo gruppo di docenti che consideravano troppo gravoso il carico burocratico che comportava. Questa circostanza dovrebbe spingere i suoi promotori verso una riflessione autocritica. Del resto, come abbiamo messo in luce in questo nostro breve resoconto, l’esperienza del Monti contiene alcune esitazioni, compromessi e non poche ambiguità. E tuttavia merita grande attenzione, anche perché è un unicum nel panorama delle scuole superiori laddove alle medie e soprattutto alle elementari sono già attive tante sperimentazioni, più o meno radicali, sulla valutazione. La “classe senza voto” del Monti può dunque essere una proposta utile e servire da incoraggiamento per quelle scuole e quegli insegnanti che intendano emanciparsi dal voto numerico e da una pedagogia del ricatto e della punizione.