Tantura,
un villaggio palestinese nel 1948
Il documentario Tantura, di Alon Schwartz (2021) – presentato al Sundance FF a gennaio 2022 e a Tel Aviv, al festival del documentario Docaviv, a giugno (dove ha ottenuto il Research Award) – offre la conferma della congiura del silenzio che da più di 70 anni condiziona la società israeliana e le sue istituzioni – da quella giudiziaria a quella accademica – e, non ultimo, del peculiare fenomeno, iniziato all’indomani della loro catastrofe, del generale ammutolirsi dei reduci e profughi palestinesi. L’opera di Schwartz va a collocarsi accanto ad altri documentari di pari qualità filmica ed efficacia narrativa quali, per citare solo i più recenti, Mission: Hebron di Rona Segal, di cui abbiamo scritto sul n. 97 di questa rivista, Blue Box di Michal Weits, sull’opera di forestazione portata a termine dal bisnonno, Josef Weitz, volta a nascondere le rovine dei villaggi palestinesi svuotati degli abitanti e rasi al suolo, e il documentario di Avi Mograbi, The First 54 Years: An Abbreviated Manual for Military Occupation (trasmesso di recente da ARTE, sul cui sito è ancora visibile), basato sulle testimonianze di ex soldati raccolte dall’organizzazione Breaking the Silence e dedicato all’occupazione militare della Cisgiordania.
Si tratta di opere che sono volte a contrastare il fenomeno del memoricidio, uno dei tratti salienti della Nakba, la catastrofe subita dai Palestinesi nel 1948, processo reso possibile e consolidato da un’efficacissima censura di Stato. Dire che Israele è nato anche dalla distruzione della Palestina sarebbe sconfessare alcuni dei miti fondativi, alimentati dalla leadership sionista, che includono la narrativa della “non espulsione”, “dell’esodo volontario”, “dell’auto difesa” e quello della “battaglia tra Davide e Golia”. La più recente storiografia, in particolare i nuovi storici, da Morris a Pappè, hanno dimostrato che la Nakba fu il culmine dei piani sionisti, spesso segreti, che prevedevano l’espulsione dei nativi e il ribaltamento dei rapporti demografici attraverso tutti i mezzi, compreso il ricorso alla forza delle armi (Nur Mashala, The Palestine Nakba, Zed Books 2012). Piani che si precisarono nei primi anni Quaranta quando Ben Gurion stesso si fece assertore della necessità del trasferimento forzato dei palestinesi.
Tantura si apre, procede e si chiude, con la formulazione delle seguenti domande: quanto vale la memoria dei sopravvissuti – vincitori e vinti – di quella che gli ebrei chiamano guerra di indipendenza e i palestinesi Nakba? E, inoltre: il funzionamento di questa memoria è più effimero o inaffidabile dei grammofoni o delle cineprese che Itzkhak mostra con orgoglio nelle immagini iniziali come “perfettamente funzionanti” a 73 anni di distanza dalla fondazione del kibbutz Nachsholim in cui arrivò da profugo nel giugno del 1948? Quel kibbutz fu fondato a guerra ancora in corso, accanto alle case vuote, che saranno in seguito abbattute, del villaggio palestinese di Tantura, all’indomani della conquista.
Un edificio d’epoca ottomana è quanto rimane dell’abitato, che contava circa 1500 anime quando le truppe della Brigata Alexandroni, la notte del 22 maggio del 1948, lo presero d’assalto vincendo in poche ore la debole resistenza degli abitanti. Quei soldati, appare ora inconfutabile, furono anche responsabili del massacro di più di 200 civili, passati per le armi dopo la resa, oltre che di altri crimini di guerra perpetrati nel corso della conquista. dalle violenze nei confronti dei civili al saccheggio, allo stupro.
Crimini che erano stati cancellati per quasi mezzo secolo dalla storiografia ufficiale. L’opera di occultamento fu così pervasiva e il silenzio dei sopravvissuti così impenetrabile che il caso non figura nemmeno nel seminale lavoro di Walid Khalidi, All that remains, che narra della distruzione di più di 400 villaggi e con essi della toponomastica e della memoria palestinesi (del massacro si trova la descrizione nelle memorie in arabo di un notabile di Haifa, Nimral Khatib, Palestines Nakab pubblicate a Damasco nel 1950 e che non ebbero diffusione).
La vicenda venne alla luce alla fine degli anni Novanta grazie a un ricercatore dell’Università di Haifa, Teddy Katz, impegnato in una tesi di Master sulla sorte subita da alcuni villaggi della costa durante e a seguito della guerra. Katz ricercò i testimoni, non solo tra i palestinesi ma anche fra i veterani, e arrivò alla conclusione che si erano in effetti verificati “eccezionali fatti di sangue”, dopo la conquista del villaggio, e che i cadaveri erano stati seppelliti in una fossa comune situata sotto l’odierno parcheggio della spiaggia.
Le conclusioni della ricerca, rese pubbliche da un articolo di stampa nel 2000, provocarono la reazione non solo dei veterani, quegli stessi che avevano raccontato i fatti al ricercatore, i quali denunciarono Katz per diffamazione, ma anche dell’Università di Haifa che con decisione sconcertante disconobbe il lavoro del suo studente, cui pure, in prima istanza, la commissione esaminatrice aveva assegnato un voto molto alto. Poche voci si levarono in sua difesa e tra queste quella di Ilan Pappé, allora docente proprio in quell’Università, che rese in seguito giustizia al lavoro di Katz citandolo nel suo fondamentale La pulizia etnica della Palestina. Katz, travolto dalla vicenda, in assenza del suo avvocato, fu costretto a ritrattare e il caso si chiuse dando ragione ai veterani, senza che la giudice, che il regista pure intervista, ascoltasse i nastri delle conversazioni – in cui si affermava che eccidio vi era stato. O che ascoltasse i testimoni palestinesi. “Perché non hanno parlato prima?” chiese la giudice a Katz, il quale ebbe buon gioco a ricordarle che fino al 1967 vigeva un’amministrazione militare che non consentiva agli arabi di muoversi liberamente e tanto meno di parlare liberamente. I superstiti avevano taciuto per sopravvivere e/o a causa del trauma patito. La dispersione della comunità aveva poi impedito quella condivisione e quel raffronto delle memorie indispensabili per fissarle e organizzarle in un insieme coerente. Con la sentenza furono salvati l’onore e la memoria fondativi dello Stato di Israele.
Alon Schwartz ha avuto il coraggio di riprendere in mano il dossier Tantura, andando a intervistare i vecchi testimoni ancora in vita, a partire dallo stesso Katz, che gli affida i nastri delle interviste originali. Dopo aver digitalizzato e ascoltato tutto il materiale, Schwartz inizia il suo viaggio partendo dal kibbutz Nachsholim, incontrando quanti rimangono dei 63 fondatori giunti lì nel giugno del ’48, all’indomani della espulsione dei residenti. Proprio in queste prime scene, si ha il senso della forza del meccanismo della negazione che presiede come un basso continuo a tutta la narrazione. Per i quattro kibbutzniki, molto probabilmente sopravvissuti all’Olocausto, si tratta della tendenza non soltanto a cancellare ogni brutto ricordo di quanto li lega all’esperienza della persecuzione nazista ma anche dell’ansia che li condiziona a causa della discutibilità del possesso della terra in cui hanno ricostruito le loro vite. Per alcuni di loro, porre una placca che ricordi le vittime sul luogo della strage significherebbe affermare il diritto delle stesse e dei loro discendenti a quella terra e a quei luoghi.
Ai vecchi veterani della brigata il regista fa riascoltare, filmandoli, le registrazioni dell’epoca, le proprie e quelle dei compagni, ottenendo, di volta in volta, conferme, dinieghi o silenzi. In molti casi sono l’espressione del viso o il linguaggio del corpo i dati più eloquenti. In sostanza, la gran parte conferma il quadro indiziario e spiega anche le ragioni della denuncia: salvare l’onore della brigata e quello della fondazione dello Stato. L’imbarazzo e il disagio che traspaiono dai volti e i corpi di questi ultranovantenni, anche di chi dichiara di essere stato un assassino, di aver sparato a gente che si arrendeva, te li fa apparire anche loro un po’ vittime di eventi e circostanze che a un certo punto nel tempo li hanno travolti e trascesi.
È singolare, invece, che il rappresentante ufficiale dell’Università di Haifa, uno storico, difensore della posizione presa a suo tempo di privare Katz del diploma, dichiari ancora oggi di non ritenere attendibili le testimonianze orali, in un Paese che per tanti versi basa gran parte della sua ragion d’essere proprio sui testimoni e in un tempo in cui la storia orale è ormai accettata dalla comunità accademica. Quella storia orale, che è, secondo Pappè, “una componente significativa e vitale nella ricostruzione storica della Nakba”. Tanto più discutibile il rifiuto della storia orale in Israele, se si considera che le fonti scritte invocate dallo storico, la documentazione ufficiale – quella custodita negli archivi dell’esercito – rimane, come afferma nel documentario lo storico Adam Raz, in gran parte impenetrabile. Le autorità, infatti, hanno adottato un criterio che esclude dalla consultazioni tutti quei documenti che trattino di “espulsioni, evacuazioni di comunità, comportamenti violenti nei confronti di civili in violazione della Convenzione di Ginevra, atti di crudeltà, uccisioni al di fuori dei combattimenti, stupri, saccheggi e furti”, un elenco che conferma così direttamente che di tali fatti vi è effettivamente traccia nelle carte degli archivi e nei documenti dell’epoca. Tutto questo, dice Raz, al fine di preservare il mito fondativo della “israeliut”, la israelitudine, di una società e di un esercito che si definiscono i più morali del mondo”. Eccidi ci furono, purtroppo, durante quella guerra di indipendenza, più di 10 con più di 50 vittime e un centinaio di altri con un numero inferiore di vittime in aggiunta alla distruzione dei villaggi e all’espulsione e al trasferimento forzato dei suoi abitanti (N. Masalha, in The Palestine Nakba, 2012, cita lo storico e ex direttore degli archivi militare Ariel Yitzkhaki, secondo il quale in quasi ogni battaglia e villaggio vi furono massacri).
Merito del regista, oltre al servizio che rende alla consapevolezza nazionale e alla convalida del lavoro di Teddy Katz, è la documentazione di un trasferimento forzato, attraverso le immagini di un cinegiornale Metro Goldwin Mayer dell’epoca, in cui è ripreso proprio l’esodo degli abitanti di Tantura, il 20 giugno del 1948. Vecchi e bambini e donne, con i loro poveri fardelli, utilizzati in un’operazione di propaganda in cui il nascente Stato mostrava al mondo l’umanità dei vincitori, ma in realtà e paradossalmente oggi prova inconfutabile di un “trasferimento di popolazione”, come lo stesso cinegiornale lo definisce.
Di questa operazione, lo storico Hillel Cohen legge la cronaca che ne fece un cronista del quotidiano “Maariv”: “C’erano dei vecchi così indeboliti da sembrare quasi moribondi. Un ragazzo con due arti paralizzati e un altro privo di mani. E poi i malati che avevano in viso i segni della morte. Una donna portava un bimbo in braccio e con l’altro sosteneva la vecchia madre, che non riusciva a tenere il passo e, gridando, implorava la figlia di rallentare. Ma questa non l’ascoltava. Alla fine, la vecchia cadde e non si mosse più. La figlia prese a strapparsi i capelli e le vesti per la rabbia e per la paura di rimanere indietro. Ma la cosa peggiore fu associarle alle madri e alle nonne ebree che procedettero lente sulle strade sotto la frusta degli assassini”. Il giornalista ebreo non può, osserva Cohen, fare a meno di associare quelle immagini a quelle che ha stampate nella mente, soprattutto nel 1948, con le strade ancora piene di rifugiati ebrei, ma allo stesso tempo rimane sconvolto dall’accostamento che gli è venuto naturale fare, per cui si affretta a precisare: “Naturalmente, non c’è spazio per fare questo paragone. Questo destino, i palestinesi se lo sono procurato con le loro mani”. Come dice ancora Cohen: “Nonostante tutti i tentativi di cancellare gli eventi e silenziare i testimoni e gli storici curiosi, la verità ha un potere tutto suo. Quando è scottante, a un certo punto riemerge”.
Ci dovrebbe essere una forma di riconoscimento di quanto avvenuto, dicono un pescatore arabo e un altro degli storici intervistati, come è avvenuto e avviene in altri Paesi. Un riconoscimento dell’ingiustizia inferta. Sarebbe un punto di partenza, come indicano anche gli studiosi che hanno collaborato al libro Shoah and Nakba, di cui si parla in un altro articolo in questo numero. Nel 1948, i Palestinesi patirono massacri e deportazioni, furti e saccheggi, stupri. Ma un evento del genere, un riconoscimento, secondo lo storico, non lo si intravede neppure nel più lontano orizzonte della vita pubblica israeliana oggi.
E tuttavia, un segno di speranza lo si può intravedere, nelle scene finali, nelle parole di due delle testimoni del kibbutz: la prima, che si dice pronta a riconoscere le loro ingiustizie se i palestinesi riconoscono il diritto degli ebrei a vivere in Israele, e l’altra che difende il diritto dei palestinesi ad esigere il rispetto dei propri morti e il riconoscimento di quanto sofferto, prendendo esempio da quanto la città di Varsavia ha fatto per ricordare l’Olocausto, riempiendo la città di placche commemorative. “Se lo hanno fatto loro lì, possiamo farlo anche noi qui”.
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