Sulle Alpi: il migrante nella neve

La realtà, o meglio la surrealtà, è che da qualche tempo le frontiere dove si gioca la vita e la morte dei migranti provenienti dall’Africa e diretti in Francia come nel resto d’Europa si è spostata in luoghi sempre più complessi, e in particolare, con lo sbarramento a Ventimiglia, sui valichi di Bardonecchia e Clavière. Abbiamo chiesto a Silvia Gilardi, torinese, attivista di Rainbow4Africa, di spiegarci come questo avviene e quali reazioni sociali ha messo in moto.
L’inizio
Hanno
cominciato ad arrivare
in numero consistente nei primi mesi del 2017.
La necessità di trovare nuovi accessi alla Francia, a causa delle
maggiori difficoltà di passaggio a Ventimiglia, rimane la
motivazione centrale. Ma perché la Francia? In molti casi per
l’affinità linguistica dei molti che arrivano da paesi francofoni;
spesso non è considerata la destinazione finale, ma un passaggio per
la Spagna, l’Europa del nord e l’Inghilterra. Un’altra
motivazione è il senso di immobilismo provato nelle strutture di
accoglienza italiana, dal momento che molti cercano lavoro per pagare
i debiti contratti nel “viaggio” e per sostenere le famiglie nel
paese d’origine. A tutto questo si somma ultimamente l’insicurezza
causata dai cambiamenti legislativi.
La Val di Susa è da sempre
terra di transito dei flussi migratori, da Annibale in poi, ed è
sensibile a ciò che accade sul proprio territorio. Questa attitudine
si abbina al concetto che chiunque “vada per montagna” e ne sia
impreparato ha diritto a essere aiutato o soccorso in caso di
necessità, indipendentemente dal colore della pelle, dalla lingua
parlata, dal confine segnato sulla carta. Tutto ciò ha fatto
scattare una rete di solidarietà spontanea che con il passare del
tempo si è “strutturata” per far fronte in modo più efficace al
fenomeno migratorio, rispondendo alle necessità umane, primarie e
sanitarie di chi viene accolto.
Le forze in campo
Nel tempo la rete di accoglienza si è evoluta. Inizialmente i volontari – attivisti No Tav, scout, autonomi e persone sensibili – si divideva tutte le notti tra la sala d’aspetto di Bardonecchia e il confine a Claviere, portando vestiario e cibo caldo. L’aumento del numero di “ospiti” e la necessità di un posto caldo anche dopo la chiusura della stazione ha ottenuto una svolta con l’uso dei locali della polizia nella stazione di Bardonecchia. A dicembre 2017, nel pieno di un inverno rigido, l’accoglienza ha iniziato a strutturarsi con la presenza nelle stazioni di Oulx e Bardonecchia di due mediatori, messi a disposizione da Recosol (Rete dei comuni solidali, ndr) per affrontare la sempre più seria questione sanitaria. Noi come associazione Rainbow4Africa abbiamo garantito la presenza di personale sanitario e non, tutte le sere, presso i locali di Bardonecchia. Nel frattempo a Claviere la situazione era critica per mancanza di un luogo riparato, e il 22 marzo 2018 avviene l’occupazione dei locali sotto la chiesa parrocchiale da parte della rete di solidarietà Briser les Frontières. L’occupazione dura un paio di giorni, fino al benestare dell’autorità ecclesiastica sull’uso temporaneo dei locali. L’autogestione del Rifugio Chez Jesus è stata porta avanti da una parte della rete fino al 10 ottobre scorso, quando i locali sono stati sgomberati.
Al momento il supporto ai migranti in alta valle è dislocato in questi punti chiave:
– la struttura Recosol presso i locali della polizia di frontiera a Bardonecchia, presenti due mediatori;
–
il Rifugio Fraternità Massi a Oulx, sostenuto dalle Fondazioni
Magnetto e Talità Kum Budrola Onlus. È aperto alle 20
alle 8
del mattino, con due operatori, due mediatori che si danno il cambio
in stazione ad Oulx, i volontari di Val Susa Oltre Confine e due
volontari di Rainbow4Africa
con il camper come unità mobile.
– la Casa Cantoniera Anas appena
fuori l’abitato di Oulx, occupata il 9
dicembre 2018
da chi era stato sgomberato da Claviere, diventando ora il Rifugio
Autogestito Chez Jesoulx.
Ci stiamo organizzando per ampliare l’accoglienza ad Oulx anche al pomeriggio, nelle strutture che saranno messe a disposizione dalla Croce Rossa.
Da volontaria
Il
fine settimana parto da Torino nel tardo pomeriggio. Arrivo alla
stazione di Oulx e generalmente non vengo a mani vuote. Prima di
scendere indosso il gilet giallo fluo marchiato R4a
per rendermi riconoscibile, zaino in spalla con dentro una bottiglia
di tè caldo, tanta cioccolata e cotognata. A mano ho un borsone con
scarponi, calze, guanti, giacconi da distribuire a chi incontrerò
nei pressi della stazione, ma mi è già capitato di distribuire il
materiale direttamente sul treno ai “ragazzi” che arrivano
vestiti “da città”, eppure intenzionati a prendere il bus delle
19.45
per Claviere, a 1760
metri.
La sala d’attesa è ampia e c’è posto per tutti;
signore in pelliccia, ragazzi in snowboard, migranti. Entro nella
struttura ogni volta con un po’ di emozione. Mi avvolge il caldo
umido del locale affollato, ho tutti gli occhi addosso, allegri,
stupiti, preoccupati o tristi. Rompo il ghiaccio parlando un attimo
con il mediatore, poi li guardo negli occhi uno a uno, cercando un
ponte tra il mio sguardo e il loro. Mentre offro un po’ di thè mi
presento e di solito fanno lo stesso, parlo del tempo e della neve,
chiedo se stanno bene e se hanno intenzione di prendere il bus.
Allora inizio a fare un po’ di scena: “Ma sei sicuro? Guarda che
non hai le scarpe adatte, c’è la neve alta fino a qui!” “Pensaci
bene, stasera vieni al Rifugio, ti porto io, stai al caldo e mangi un
buon riso, poi domani vai”. A volte si convincono a fermarsi per la
notte, altre succede che un ragazzone ti risponde in modo gentile:
“écoute maman, j’ai bien réfléchi, je prends le bus et je vais
essayer!” Dopo un po’ che sono li, qualcuno mi si avvicina e dice
che non sta bene, che ha mal di testa. Sento se ha la febbre, è
frequente per il freddo; gli do la tachipirina che ho sempre in
borsa. E poi arriva l’ora della partenza dell’ultimo bus per la
frontiera; con chi resta invece andiamo al Rifugio. Se alla sera il
camper non si muove per andare in frontiera, a ogni arrivo del treno
da Torino andiamo a vedere se sbarca qualcun altro da invitare al
Rifugio, in modo che non si avventuri di notte per la strada.
Gli
ospiti possono lavarsi, ricevere indumenti e scarpe da montagna,
cenare e riposare in un luogo caldo. Parlando cerchiamo di capire
quali sono stati i loro percorsi di arrivo, la situazione dei
documenti e cosa vanno a cercare fuori dall’Italia. Mi porto a casa
i sorrisi. Mi stupisce quanta forza ci sia in uno sguardo che
nonostante drammi e atrocità non ha perso la capacità di sorridere.
Mi resta poi un senso di incompiuto, la consapevolezza di non aver
fatto nulla di importante se non essere stata umana. Non c’è
vaccino a questo “vuoto nello stomaco”, ma mi conferma che non mi
sono abituata a questa realtà. Quello è il posto “dove bisogna
stare”.
La frontiera oggi
L’esperienza del confine è un’occasione di ricerca e approfondimento in una realtà, la Val di Susa, che è molto particolare: l’attenzione, la sensibilità a cosa succede nel territorio è alta, e ho la fortuna di incontrare persone che mi danno continui nuovi spunti di riflessione. Frontiera è una dicotomia tra la sensazione di libertà che ho e la limitazione di regole e convenzioni. Mi sono spesso arrabbiata con la polizia francese per il comportamento non proprio accogliente, ma in fin dei conti loro obbediscono a ordini che arrivano da chi ha responsabilità e interessi politici. Mi chiedo: se il flusso fosse inverso le nostre forze dell’ordine si comporterebbero diversamente? Percorrere la frontiera qui è l’occasione per vedere da vicino “i migranti”, non per morbosa curiosità ma per impedire a noi stessi di adagiarsi nelle certezze e nelle indifferenze. Ora tocca a loro che arrivano dal cuore dell’Africa o dal Medio Oriente, in passato è toccato a noi e in un certo senso continua ancora, solo in condizioni economiche differenti. È anche colpa nostra se come cittadini non siamo capaci di scandalizzarci e ribellarci.