Sulla povertà: i morsi dell’anima
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Incontro con Pietro Savastio e Michele Conti
Un panorama
Negli ultimi decenni si è verificato un aumento senza precedenti delle diseguaglianze sociali. Gli stati europei hanno provato a difendersi con dei processi di ricalibratura dello stato sociale, ma anche attraverso chiusure sciovinistiche, chiudendosi alle migrazioni anche nei sistemi più avanzati come quello scandinavo. Da dove viene questo aumento delle disuguaglianze? Esso si lega a una fase nuova del capitalismo patrimoniale: oggi si è affermata una classe di super-ricchi che assomma il massimo della ricchezza dei patrimoni al massimo della ricchezza acquisita sul mercato del lavoro. È quello che Branko Milanović ha definito homoploutia, ossia quella particolare configurazione del capitalismo contemporaneo – del tutto nuova rispetto al passato – nella quale i più ricchi in base alla ricchezza di proprietà risultano anche i più ricchi in base all’attività commerciale.
Ebbene, l’avvento di questa classe di super ricchi ha coinciso con uno scollamento totale rispetto al resto della popolazione. Come in una corsa ciclistica, i corridori di testa (lo 0,1 % dei più ricchi) prendono il volo e non sono più interessati a sapere cosa succede a tutti gli altri rimasti indietro. Il gruppo centrale, il vecchio ceto medio, cerca di mantenere l’andatura ma perde posizione e scivola indietro verso i penultimi ed ultimi della corsa, divenendo meno disponibile alla solidarietà. Infine c’è la coda degli ultimi di cui non importa più a nessuno. Non c’è più interesse a soccorrere chi è rimasto indietro perché dal loro destino non dipende la ricchezza di quel 0,1 %. E si è rotto anche il vincolo “morale” che in passato obbligava ad occuparsene.
Manca quindi l’attenzione alla questione sociale e questo avviene anche perché i circuiti delle grosse aziende non hanno un radicamento territoriale. Questi sono fenomeni mondiali ed europei, che hanno ripercussioni anche sull’Italia.
Cos’è la povertà
La disuguaglianza contemporanea ha ormai perso la sua chiara natura relazionale: non si ragiona più molto sull’essere più o meno ricchi di qualcuno. E infatti oggi ci si concentra di più sulla povertà, laddove povertà significa mettere una persona in una scatola, senza vedere tutto quello che c’è intorno: povero rispetto a cosa? Povero rispetto a chi? Cosa significa povertà? Sono queste le domande che dobbiamo porci. Nel concetto di disuguaglianza l’elemento relazionale era più visibile. Con la povertà invece si tira una linea all’interno della distribuzione dei redditi e si definisce tutta la parte sinistra “area della povertà”. Il povero viene presentato come una categoria a sé, separata dal corpo sociale. E infatti troppo spesso il senso comune finisce per associare la povertà solo ai senza dimora, quindi ad una figura iperbolica della marginalità. Ma la povertà è ben altro, la povertà riguarda la gente comune. Il paniere di beni e servizi essenziali che definisce la povertà assoluta contiene anche la compera di un vestito grazioso, dolciumi ai figli, consumi assolutamente ordinari e che diamo per scontati. Ma la povertà è anche questo, non solo non avere l’essenziale per mangiare e dormire. Certo, le condizioni dei senza dimora sono estreme e particolarmente visibili. Ma in Italia i numeri assoluti sono bassissimi se comparati al resto dei poveri (meno di 200.000 in tutto il paese su un totale di poveri di 5.6 milioni). Potremmo quindi dire che rappresentano le condizioni più dure ma non il vero problema della povertà in termini quantitativi.
Fin qui ho centrato il ragionamento sulla dimensione economica che certamente è fondamentale. Nel tempo però mi sono resa conto sempre di più di quanto sia importante non perdere di vista altri piani. Credo infatti che un’analisi che abbia lo scopo di mettere davvero mano alla povertà e contrastarla abbia la necessità di incorporare aspetti culturali e capire cosa la povertà fa alle persone, in termini di aspirazione, capacità di azione, potremmo dire “spirito”. C’è un’espressione molto efficace di Giovanni Laino: “i morsi dell’anima”. Chi vive per lunghi periodi in condizioni di povertà entra in qualche maniera in una dinamica di “cronicizzazione”. Quando una persona si trova in povertà da molto tempo è investita da processi di deprofessionalizzazione, di scarsa autostima fino a diventare progressivamente sempre più incapace di “cogliere le occasioni”. È un malessere che si radicalizza: ecco i morsi dell’anima. E dobbiamo imparare a vederli, senza cadere in interpretazioni colpevolizzanti, perché questo aspetto diciamo “culturale” legato agli effetti di medio e lungo termine della povertà è di fondamentale importanza nel momento dell’analisi che prelude all’azione. Se vogliamo essere d’aiuto, da un canto bisogna evitare lo stigma di “scansafatiche” o simili, dall’altro, al momento della creazione di programmi o progetti di intervento, vanno considerati gli ostacoli pratici, psicologici e culturali che bloccano le persone povere. Perché altrimenti si rischiano interventi con un’aspettativa di successo che è di troppo superiore a quella che può veramente verificarsi nella realtà.
Reddito di cittadinanza
A questo punto risulta tanto più chiara la necessità di un sostegno al reddito incondizionato. Non per nulla mi sono sempre schierata in difesa del Reddito di Cittadinanza come protezione per quelle fasce di popolazione per le quali è più difficile uscire dalla povertà attraverso il lavoro. Ci sono segmenti della popolazione alle quali va dato sostegno economico e servizi senza se e senza ma. Alcune persone e alcuni nuclei famigliari hanno bisogno di assistenza che, ricordiamolo, non è per nulla una brutta parola, anzi. Ci sono persone che non riescono a muoversi in un mondo di burocrazia digitalizzata: mancano le condizioni minime per l’inserimento nel mondo del lavoro attuale. Certo, questo problema esiste e va affrontato, ma in Italia si enfatizzano questi deficit personali trascurando le cause sistemiche. Solitamente, imputiamo la povertà alla disoccupazione e la disoccupazione, a sua volta, all’incapacità personale di trovare un lavoro (per mancanza di capacità e competenze). Eppure, a ben vedere, ci troviamo in un’economia sempre più fragile e globalizzata nella quale mancano i posti di lavoro e nella quale, anche quando il lavoro c’è, i salari sono bassi e non proteggono dalla povertà. Non solo dunque il lavoro manca, ma non è neanche più una tutela contro la povertà. In queste condizioni, pensare di risolvere la povertà attraverso un inserimento professionale è molto difficile, ai limiti dell’ideologico. E qui allora viene la questione chiave: mentre aiutiamo chi è in condizioni di necessità e non può farcela da solo, dobbiamo rintracciare anche i mezzi per prevenire tutto questo.
Per farlo serve mettere bene a fuoco i profili di povertà dell’Italia contemporanea. Come ho già detto nel mio ultimo libro (La povertà in Italia, il Mulino, 2022), la povertà è fortemente concentrata a Sud e tra le famiglie con tre o più figli e, sempre più, tra le famiglie monoparentali (per lo più madri single), e quindi tra i minorenni. I giovani e le famiglie straniere legalmente residenti sono rimasti più colpiti dagli effetti della crisi finanziaria, mentre gli anziani italiani sono rimasti relativamente più protetti.
Dunque le fasce più colpite dal fenomeno della povertà risultano essere tre: lavoratori poveri, minorenni e migranti. Il tema dei lavoratori poveri è relativamente recente ed è emerso in ragione della flessibilizzazione del mercato del lavoro iniziata negli anni ‘90. Oggi la povertà dei lavoratori è strettamente collegata alla forma contrattuale. Per quanto riguarda i migranti, invece, la ragione per cui sono maggiormente a rischio di povertà è perché appartengono ai gradini più bassi della stratificazione occupazionale: percepiscono salari più bassi e rimangono più a lungo nell’economia informale. Da ultimo, i minorenni che appartengono a famiglie spesso monoparentali o con molti figli si trovano in una condizione che è legata a doppio filo all’inoccupazione femminile.
Che fare?
Bisogna dunque ripensare un programma straordinario per l’occupazione giovanile e un programma per l’inclusione delle donne con bassi titoli di studio nel mercato del lavoro. Basti pensare che dal decreto legge 285 del 1977, importantissimo programma per l’occupazione giovanile, non è stato più fatto niente in questo campo. All’epoca fu un intervento fondamentale: per la prima volta al Sud si veniva assunti nella pubblica amministrazione senza passare per reti clientelari. I “giovani della 285” furono uno svecchiamento importante e un miglioramento notevole per la qualità dei servizi.
È necessario inoltre un programma straordinario per innalzare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Abbiamo tassi di attività femminili bassissimi. Le donne non trovano spazio sul mercato del lavoro, e costituiscono una quota importante dei NEET (persone che non studiano e non lavorano). È importante anche agire sul piano culturale per rimotivare quelle donne la cui prospettiva sembra essere solo quella di fare lavori dequalificati nel campo della pulizia e della cura. Nel 1999 ci fu il progetto “Nidi di Mamme” nei Quartieri Spagnoli a Napoli, nato a seguito della sperimentazione del RMI (Reddito minore di inserimento). Questa sperimentazione presto finì e subito le donne coinvolte si chiesero “che fare?”. Decisero allora di organizzarsi e proposero di essere formate come puericultrici, data la loro esperienza consolidata. La richiesta fu accettata e il corso venne promosso dal settore pubblico, creando così un servizio che aiutava la conciliazione familiare e aumentava l’ingresso nel mercato del lavoro.
Terza ed ultima questione da non trascurare, come già detto, è la questione dei minori: la povertà famigliare e quindi la povertà minorile è oggi un’autentica piaga. Investe un numero altissimo di bambini, 1,2 milioni circa secondo gli ultimi dati Istat. E’ un fenomeno che riguarda più gli immigrati e ha forti ricadute anche sulla dispersione scolastica. Va considerato che in molti casi la scuola viene abbandonata anche per le necessità familiari legate al bisogno di nuovi redditi. Il minore, allora, va visto nel contesto familiare, ed è quel sistema-famiglia più ampio che va considerato, altrimenti non si capiscono le dinamiche in gioco. Se veramente vogliamo spezzare la trasmissione intergenerazionale della povertà dobbiamo partire dalla consapevolezza che la povertà di una famiglia pone già le condizioni per la povertà di domani di quelli che oggi sono i figli.
Tornando ad allargare lo sguardo, credo che oggi sia collassato un sistema di convivenza sociale. Non si mette mano alle politiche contro la povertà anche perché manca un patto sociale in grado di affrontare il problema come un problema di tutti, che ci riguarda moralmente ancora prima che economicamente. Oltre alla lotta di classe, manca anche la solidarietà di classe. In generale, io credo, bisognerebbe agire sul piano della distribuzione: condizioni di salario migliori, forti vincoli alle imprese sulla partecipazione agli appalti pubblici, retribuzioni a norma e poi in parallelo lavorare anche ad una redistribuzione, a valle, della ricchezza. E da ultimo mettere mano al piano culturale, far comprendere che la povertà è un rischio che riguarda tutti.
Oggi le classi stanno sfumando e questo rende più difficile tutto. Servono nuove forme di rappresentanza, forme organizzative ibride in cui convogliare una lotta di tutti e tutte. Troppo spesso le persone cercano la propria strada, le proprie soluzioni, a mancare invece è sempre una lotta collettiva per il cambiamento.
Quando Carlo Levi scrisse Cristo si è fermato a Eboli, l’Italia scoprì la povertà e la questione meridionale.. Al momento abitiamo in mondi talmente separati che non abbiamo cognizione del mondo di sotto, del mondo della povertà, che è lontano e invisibile. E spesso gli intellettuali e i politici sembrano ignorare completamente le condizioni di vita dei subalterni. Bisogna tornare a sensibilizzare, riprodurre lo “shock” che fu di Carlo Levi: anche il mondo della cultura e gli intellettuali impegnati possono giocare un ruolo in questa lotta.