Sul fronte occidentale

Silvia Massara. Incontro con Luigi Monti
Vivo con la mia famiglia a Bardonecchia, in alta Val Susa. Insegno francese al liceo “Des Ambrois” di Oulx. Ho una formazione scout, non da attivista politica. Sono le circostanze ad avermi reso un’attivista politica (senza smettere di essere scout: le due cose, amici scout, non sono incompatibili!). Dal 2017 il territorio in cui vivo è diventato uno dei passaggi più battuti dagli immigrati, africani prima e mediorientali poi, che tentano di raggiungere i paesi del nord Europa. Nel 2021 e nel 2022, stando ai soli dati raccolti al Rifugio Massi, di cui dirò tra poco, più di 10mila persone all’anno hanno attraversato la frontiera con la Francia lungo i sentieri in alta quota delle valli in cui vivo e lavoro.
La Val Susa si sviluppa per novanta chilometri da Torino verso il confine occidentale con la Francia. Appena prima di andarci a sbattere contro, la valle si biforca: da un lato sale verso Bardonecchia, fino al valico del Colle della Scala che apre in direzione Parigi; dall’altro sale verso Claviere, l’ultimo comune italiano, e di lì, attraverso il passo del Monginevro, la strada apre in direzione Marsiglia. Una doppia uscita dall’Italia per chi voglia raggiungere la Francia a piedi attraverso i passi alpini.
Nel 2015, a seguito di una scia di attentati terroristici (iniziati a gennaio con la strage alla redazione di “Charlie Hebdo” e conclusisi a novembre con quella del “Bataclan”), il governo francese dichiara lo stato d’emergenza e decide di chiudere le frontiere. Questa decisione provoca un tappo a Ventimiglia, la via fino ad allora più battuta dai migranti che tentavano di arrivare in Nord Europa: qualcuno ricorderà gli sgomberi degli accampamenti nelle pinete e gli inseguimenti lungo le scogliere della città balneare. Dalla disperazione di chi si trova nell’impossibilità di proseguire il cammino, nasce la ricerca di un passaggio alternativo attraverso la Val Roia, pochi chilometri a nord di Ventimiglia. E poi, nel 2017, la scoperta della Val Susa e dei due passi di Bardonecchia e Claviere.
Del tutto inaspettatamente, nei primi mesi di quell’anno a Bardonecchia si iniziano a vedere per le strade giovanissimi ragazzi francofoni, per lo più provenienti dalla Guinea Conakry, che arrivano direttamente dal sud Italia, dai barconi o da centri prima accoglienza, e che risalgono la valle per provare a scavalcare le montagne e andare in Francia. Da questi primi sporadici passaggi, l’alta valle viene investita in modo sempre più massiccio.
L’autunno dello stesso anno preannuncia un inverno rigidissimo. Ma i ragazzi che arrivano hanno ancora indosso i pantaloncini, le scarpe da ginnastica, le infradito e le magliette che indossavano in Sicilia. A causa delle condizioni metereologiche, nel giro di poche settimane la situazione si fa gravissima e questo fa sì che a Bardonecchia inizi a costituirsi una rete spontanea di volontari che alla stazione dei treni offrono vestiario adeguato alla stagione e bevande calde. Da qui nasce il nucleo un po’ più organizzato che porterà alla costituzione del Rifugio Fraternità Massi.
Guardie e ladri
La Val Susa si divide in due grandi aree, l’alta Valle, intensamente turistica, e la media e bassa valle, con un passato industriale, settore terziario, pendolari su Torino. Anche dal punto di vista della percezione del fenomeno, l’opinione pubblica ha posizioni diverse sul passaggio e la gestione dei migranti.
In media e bassa valle, la lotta No Tav di questi anni ha creato un tessuto sociale molto attivo sui temi dei diritti, della partecipazione, dell’ambiente. Parliamo pur sempre di minoranze, ma l’influenza positiva di quella lotta si è indubbiamente avvertita anche in alta valle, dove al contrario, con un’economia che vive quasi esclusivamente di turismo sportivo e del divertimento, di certe storie tristi e perturbanti si preferisce non parlare spesso.
Per i turisti la frontiera non esiste. D’inverno, mentre sciano, senza rendersene conto passano continuamente, lungo le piste del Monginevro da un paese all’altro. In estate i golfisti si divertono su un campo internazionale con 18 buche che passano da una parte all’altra della frontiera (buca numero 7 all’andata e buca numero 16 al ritorno). Se il campo di golf di Claviere di notte viene attraversato da famiglie con neonati in braccio che magari sporcano e rovinano l’erba delle buche non è decoroso.
A onor del vero va detto però che, forse in ragione delle dinamiche peculiari con cui si è aperta questa rotta migratoria, in questi cinque anni non ci sono mai state reazioni di tipo ostativo, aggressivo o violento, come invece si è verificato in altre aree del paese nei confronti delle persone in transito e di quelle che con loro solidarizzano.
Da Oulx, arrivare al confine è semplice. Le persone prendono una navetta per Claviere, ancora in suolo italiano, e da lì, percorrendo a piedi boschi, piste da sci, sentieri di montagna, dopo circa quindici chilometri raggiungono Briançon, il primo comune francese oltre confine. Sempre che non vengano intercettati e respinti in Italia dalla polizia francese. In questo caso le persone ritentano anche due, tre o più volte fino a quando il tentativo non riesce. La frontiera, che era scomparsa con Schengen, ricompare brutalmente dopo gli attentati del 2015. Superarla è un rischio: da un lato la neve, il freddo, le insidie della montagna, dall’altro le forze di polizia francesi. Ad essere intercettati sul suolo francese sono soprattutto i più vulnerabili e la caccia al migrante si concentra prima di tutto sulle famiglie e su coloro che hanno più problemi motori.
La stazione di polizia si trova a 1800 metri, a metà tra Claviere e il Monginevro. Lì opera un piccolo nucleo di poliziotti di frontiera. Ma da quando quel confine è diventato uno dei tragitti più battuti dai migranti provenienti dalla rotta balcanica, la mobilitazione da parte del ministero dell’interno francese nella regione di Briançon è stata enorme. Non so dire un numero preciso, ma parliamo di centinaia di persone. Non solo forze della polizia ma anche della Gendarmerie nationale e dell’esercito. Quando di notte pattugliano sentieri, boschi e piste da sci sono vestiti in tuta mimetica e anfibi, a volte si spostano con i quad, altre con i cani, hanno in dotazione telecamere a raggi infrarossi o strumenti che registrano il calore dei corpi vivi acquattati nel buio. Si nascondono, fanno appostamenti e quando trovano qualcuno escono allo scoperto e cercano di acciuffare le persone e di portarle al posto di polizia o di respingerle direttamente oltre il confine.
Sono queste le situazioni più insidiose, per sfuggire dalle quali le persone, uomini, donne, bambini e anziani, lasciano i sentieri e si nascondono nel bosco rischiando di perdersi, di cadere in un dirupo, di rimanere al gelo un’intera notte. In questi anni diverse persone sono morte tra quelle montagne, hanno subito amputazioni o altri danni permanenti nel tentativo di sfuggire ai controlli.
Il Rifugio
Oggi il Rifugio Fraternità Massi di Oulx è una struttura che offre accoglienza a bassissima soglia a chi si appresta a tentare il passaggio della frontiera, persone che arrivano e hanno urgenza di ripartire immediatamente. Chi arriva dai Balcani di solito mira a raggiungere Germania, Belgio, Gran Bretagna e in generale il nord Europa. Ad attenderli, solitamente, famigliari, amici, persone che provengono dalle stesse città e quartieri. Chi arriva dall’Africa molto spesso punta alla Francia o alla Spagna. Quasi nessuno ha intenzione di fermarsi in Italia.
Una settantina i posti letto. Chi sosta, al massimo due o tre notti, trova scarpe e indumenti adeguati all’ambiente di montagna, consulenze mediche e legali, contatti da un lato all’altro del confine in caso si trovi in pericolo durante il viaggio. Il Rifugio è gestito da una fondazione cattolica (“Talità Kum”) e da alcune onlus (“Rainbow for Africa”, “Medici per i diritti umani” e “Diaconia Valdese”). Si sostiene con donazioni private e in parte con finanziamenti pubblici, ma soprattutto – e questo è uno degli aspetti che trovo più interessanti – grazie alla cooperazione con realtà provenienti da ambienti politici e religiosi dei più diversi: gruppi scout, attivisti del movimento No Tav e collettivi anarchici.
Inizialmente ad arrivare erano soprattutto ragazzi dell’Africa occidentale. Sono loro che hanno aperto la via. Ma dal 2020 la netta maggioranza proviene dai Balcani: soprattutto afghani, ma anche iraniani, pakistani, iracheni, kurdi. Da quella rotta hanno cominciato ad arrivare molte famiglie. Famiglie vuol dire padre, madre e numerosi bambini piccoli. E vuol dire anche genitori anziani, zoppicanti, costretti a percorrere decine di chilometri nei boschi. Donne che vivono la gravidanza durante il cammino e che ripartono il giorno seguente. Potete immaginare cosa voglia dire per una famiglia abbandonare tutto e mettersi in viaggio in quelle condizioni.
In estrema sintesi, sono tre i fronti principali su cui lavora il Rifugio. Il primo è l’accoglienza. Chi arriva trova riparo in un luogo che è termicamente e umanamente caldo. Un luogo che non è più la strada, dove finalmente puoi riposare la testa e le gambe, dove trovi pasti caldi, dove puoi cambiarti, ricaricare il telefono, parlare con qualcuno che si sforza di capirti anche se non parla la tua lingua. Dopo mesi, in alcuni casi anni, di viaggi fatti in condizioni estreme, è un fattore di grande importanza trovare persone che ti trasmettano l’idea che tu sei qualcuno, che la tua vita vale, che la tua dignità è importante.
Il secondo fronte è quello della salute e della sicurezza. Data la complessità di quei passi, soprattutto d’inverno, non ci si può permettere di affrontarli con i piedi piagati, la febbre alta o con una bronchite. Dalle nostre parti il “game” consiste nel partire a piedi attraverso i boschi e scendere al buio – perché di giorno è molto probabile essere intercettati dalle forze dell’ordine – magari con dei bambini in braccio e dei vecchi al seguito, affondando nella neve. Per questo, quando le persone, nonostante tutto, sono determinate a partire oltre a consigliare di evitare i colli più alti o di rimandare la partenza se le condizioni metereologiche sono proibitive, forniamo a tutti un equipaggiamento di base: pantaloni imbottiti da sci, calzettoni pesanti, stivali da neve, pile, giacca a vento, guanti, sciarpa, berretto e metallina, la coperta di alluminio che siamo abituati a vedere indosso ai migranti sbarcati a Lampedusa e che da noi serve in caso si sia colti da ipotermia durante il cammino.
Lungo quei confini i morti non sono certo numerosi come quelli in mare. Ma ci sono stati e probabilmente ci saranno: ragazzi tra i 20 e i 25 anni morti di freddo, caduti in un dirupo, scivolati nei torrenti, travolti dal treno lungo i binari, a volte ritrovati la primavera dopo, con il disgelo. La nostra è una zona turistica, dove la gente va a sciare, a fare passeggiate, picnic e grigliate. L’idea che un ventenne muoia di stenti e di freddo lungo quei sentieri è qualcosa di insopportabile.
Il terzo fronte è quello dei diritti. Viviamo lungo una frontiera dove la legge dice che è possibile chiedere asilo. Non è detto che lo si ottenga, ma la richiesta è un diritto e deve essere fatta mettendo la persona in sicurezza, dandole un tempo congruo, offrendole un interprete ben formato. E invece quello che vediamo sempre più spesso lungo questo confine sono i push back oltre frontiera delle forze dell’ordine francese, a volte più violenti a volte meno, ma comunque di impedimento alla richiesta d’asilo. Respingimenti che spesso vengono compiuti con una serie di pratiche vergognose come contraffare la data di nascita sul foglio di respingimento, dichiarare maggiorenni minorenni in possesso del documento, inserire dati anagrafici sbagliati in database che saranno difficilissimi da correggere in futuro.
Legalità e giustizia
Chi arriva a Oulx dalla rotta balcanica solitamente è passato prima da Trieste dove i ragazzi di “Linea d’Ombra” sono i primi a prendersi cura di loro, dei loro piedi e delle loro gambe. Perché dopo un lungo viaggio attraverso i boschi e i sentieri dei Balcani, le persone hanno i piedi piagati, hanno perso le unghie, a volte non sono in condizione di infilare le scarpe. A Trieste le prime cure avvengono sui marciapiedi o nei giardini della stazione. Da lì “ci si aggancia” a una rete informale che arriva fino a noi e oltre. “Linea d’Ombra” a Trieste mette in contatto con “Rete Milano”, la quale si aggancia a “Torino per Moria” o “Carovana Migranti”, da Torino al “Rifugio Massi” di Oulx e da noi al “Rifugio solidale” di Briançon, in territorio francese.
Il rapporto con Briançon è fortissimo. Insieme si cercano le persone smarrite nei boschi, insieme si tenta di riunire famiglie divise nell’ultimo tratto di viaggio. E poi le scarpe: fin dall’inizio ci siamo detti che era insensato che gli stivali da montagna arrivati a Briançon venissero buttati o dispersi lungo i sentieri. E così da Oulx organizziamo macchinate per andarli a recuperare al Rifugio solidale o escursioni per andare a raccattarli lungo i sentieri e offrirli così ad altre persone in transito.
A fronte della complessità del fenomeno delle migrazioni contemporanee, uno dei problemi capitali del nostro tempo, stride in maniera ormai insopportabile l’assenza di politiche comuni europee nella gestione dei flussi, politiche improntate alla ragionevolezza e all’umanità. Sono da imputare a questa assenza molte delle mostruosità etico-giuridiche che si manifestano in questi anni lungo gran parte dei confini esterni e interni dell’Europa. Tra queste mostruosità, il drammatico gioco a “guardie e ladri” a cui sono costretti forzatamente a giocare migranti, forze di polizia e abitanti delle valli alpine lungo il confine italo-francese.
Sia l’esperienza della migrazione che le attività di chi con i migranti solidarizza si svolgono spesso in un equilibrio sottile tra legalità e illegalità. La legalità senza giustizia a lungo andare corrompe idee e persone. In questi anni il Rifugio ha cercato un dialogo il più possibile costruttivo con le istituzioni (a partire dalla prefettura e dalla questura) chiedendo, e finora ottenendo, una libertà d’azione molto alta. Una delle prassi consolidate su cui abbiamo trovato subito un accordo con le forze dell’ordine è che non entrassero al Rifugio. Se si spargesse l’idea che la polizia entra regolarmente, moltissimi ragazzi non ci verrebbero più. Ma non passare dal rifugio significa dormire all’addiaccio, significa mettersi in cammino senza indumenti idonei, significa in sostanza aumentare il rischio di farsi male o di perdere la vita durante l’attraversamento del confine.
In relazione al tema della legalità, l’altro altro aspetto delicato è quello della collaborazione tra il Rifugio Massi e le esperienze di occupazione e autogestione del territorio. L’inverno del 2018 è stato particolarmente rigido e a Claviere era chiaro che da un giorno all’altro ci sarebbe stato un morto (come in effetti ci sono stati nelle settimane e negli anni successivi). Un piccolo gruppo composto da attivisti transfrontalieri della rete “Briser les Frontières” e di altre organizzazioni locali dopo aver cercato, invano, la collaborazione del sindaco e del parroco, hanno deciso di occupare il sottoscala della chiesetta di Claviere, ribattezzando ironicamente questa improvvisata locanda per moderni pellegrini “Chez Jesus”, “Da Gesù”. Un’occupazione nata in una situazione di estrema emergenza, senza una connotazione politica. La connotazione politica l’ha assunta in corso d’opera, di marca anarchica, opponendosi all’idea di frontiera in sé. Dopo lo sgombero dal rifugio di Claviere, si sono spostati nella casa cantoniera di Oulx; sgomberati anche da lì, si trovano ora in una casa occupata a Cesana, a metà strada tra Oulx e il confine, in una posizione strategica. Il modello del Rifugio Massi, istituzionale, e quello delle occupazioni, autogestito, sono indubbiamente diversi, ma questo finora non ha impedito la collaborazione. L’autogestione tra l’altro ha costitutivamente un aspetto estremamente interessante che consiste nel ridurre l’approccio assistenzialistico a vantaggio della cooperazione tra ospiti e ospitati. Gli educatori e gli operatori dell’accoglienza che in questi anni hanno lavorato nei Cas e nelle grandi cooperative, sanno perfettamente a cosa mi riferisco. Considerata la delicatezza delle scelte che le persone devono compiere lungo queste frontiere, scelte che mettono in gioco la propria stessa vita, il rischio, da parte di noi “buoni”, di rapportarci in modo paternalistico, infantilizzante, vittimizzante con i migranti, risulta ancora più stridente che altrove. Ben venga quindi il correttivo antiistituzionale dei giovani anarchici.
Per il resto la possibilità di collaborare dipende molto dalle singole persone: laddove c’è la voglia e la curiosità di andare oltre la propria formazione, le proprie convinzioni ideologiche, il proprio approccio, cercando di tenere la centratura sull’obiettivo comune – che è quello di aiutare persone in difficoltà e, attraverso questo impegno, mostrare le assurdità delle politiche che governano i flussi migratori – la collaborazione non solo è possibile ma molto formativa per tutti.
P. S. Se qualcuno si trovasse a passare da quelle parti e volesse conoscere il Rifugio Fraternità Massi di Oulx o se qualche gruppo scout volesse organizzare una route e fare un’esperienza di volontariato può scrivere una mail a pontinonmurivalsusa@piemonte.agesci.it o un messaggio whatsapp a Franca, responsabile dei turni dei volontari: 3351291683.