SEI GIOVANE, QUINDI TACI!
Nella Enfield Tennis Academy (ETA) di Boston, le giornate hanno delle cadenze regolate: “allenamenti, doccia, mangiare, lezioni, laboratorio, lezioni, lezioni, mangiare, esame di grammatica prescrittiva, laboratorio/lezioni, corsa di riscaldamento, allenamenti, partita, partita, macchine braccia/spalle/addome in palestra, sauna, doccia, svaccamento negli spogliatoi con gli altri giocatori”. La maggior parte degli allievi è fortissima – se comparata a un giocatore medio – ma per entrare nel giro che conta, per far parte dello Show, spesso non basta, bisogna stare veramente in alto. Ogni studente Under 18 che tiene duro e riesce a mantenere il livello atteso ha sotto la sua ala una serie di Under 14, che segnala all’Amministrazione se li dovesse trovare “pericolanti in termini di determinazione, tolleranza alla sofferenza e allo stress, nostalgia, affaticamento”. Per sostenere e anestetizzare lo stress, gli studenti-atleti fanno un ampio, ossessivo e variegato uso di sostanze psicotrope sintetiche e di prodotti audio-video. Per chi non dovesse eccellere – sempre che arrivi psicologicamente ed emotivamente integro al diploma – le competenze tennistiche acquisite garantiranno comunque una borsa di studio in qualche college, costantemente protetti dal proprio privilegio di classe. Per tutti gli altri, privi di patrimoni di famiglia, di istruzione e di corpi atletici, ma carichi di dipendenze e reati, una possibile soluzione è la casa di recupero dalle tossicodipendenze Ennet House.
Alla Ennet House, attraverso una disciplina degna di un Muccioli con la luna particolarmente storta, sarai trasformato nel prossimo angelo predicatore della sobrietà e della forza di volontà. Altrimenti la storia è più che prevedibile e segnata: ricaduta, overdose, rigor mortis.
Questa gioventù distopica appartiene alle pagine del romanzo-mondo Infinite Jest di David Foster Wallace, eppure non facciamo fatica a riconoscere come familiare il fitto reticolo di solitudini, competizione, dipendenze, intrattenimento, medicalizzazione, repressione e aggressività che viene tracciato.
Alle nostre tristi latitudini il discorso sui giovani è ormai una litania sull’emergenza: ci sarebbero solo comportamenti patologici, indipendenti dai contesti in cui nascono, solo colpe (o disturbi) e interventi di giustizia punitiva: ognun* si carichi sulle spalle il fardello della propria biografia. Una società sempre più senescente sembra guardare all’infanzia e all’adolescenza come ad un qualche tipo di alluvione. Abbiamo già descritto (Asini 112, Mali minori) l’intervento pubblico sulle generazioni più giovani come indirizzato alla “repressione dell’adolescenza pericolosa” e alla “salvezza dell’infanzia a rischio”: un coro dissonante di istituti penitenziari e detentivi, forze di polizia, cooperative sociali, comunità di recupero, centri educativi o di accoglienza, progetti e bandi. All’interno di questa rete, non necessariamente al suo centro, vorremmo riprendere a guardare come opera la scuola.
Cerchiamo allora di mettere insieme quanto accade a livello di politiche di governo con quanto avviene all’interno degli istituti e delle classi. Parliamo di tecniche, pratiche e pedagogie, ma con la consapevolezza che queste operano in un contesto di leggi, decreti e circolari ministeriali. Allo stesso tempo proviamo a guardare come gli orientamenti politico-culturali egemoni trovino adesioni e resistenze nelle azioni e nelle decisioni di insegnanti, studenti/esse, dirigenti.
Cosa succede quando un comportamento esplosivo, aggressivo, distruttivo di gruppo avviene all’interno di una scuola, viene filmato e fatto rimbalzare sui social media e diventa oggetto di discussione di giornali e ministri?
Martina Zadra ci porta in questa distopia reale: ci racconta cosa ha determinato all’interno dell’istituzione scolastica e, soprattutto, cosa provoca nella testa di un’insegnante, in termini di ragionamenti, reazioni, applicazioni di stereotipi e rimozioni dell’evento.
Questa la fiamma, ma altrove il carburante: Anna D’Auria ci racconta due anni di interventi del Governo Meloni sulla scuola e ci aiuta a leggere il disegno reazionario che li ispira e sostiene, le sue finalità politiche e le possibili forme di organizzazione e azione politica per contrastarlo.
La scuola popolare Alice mette a fuoco tutta l’ambiguità e la possibile dirompenza del processo diagnostico riferito alle disabilità a scuola. Comportamenti devianti, conflittuali, oppositivi, attraverso saperi medici e psichiatrici, rischiano di finire in una sorta di area grigia che li trascolora in patologia e disabilità.
Riprendiamo poi il discorso sulle prassi: Marco Pollano, a partire dall’esperienza di un gruppo di insegnanti interni al Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) che sperimentano nelle loro classi le tecniche della Pedagogia Istituzionale, ci invita a riflettere sul significato di democrazia a scuola come insieme di pratiche e non come retorica, sul tentativo di fare la democrazia in classe e di costruire le sue istituzioni.
Chiudiamo con un ricordo di Paola Falteri, anche lei ricercatrice e militante del MCE, e con le sue parole sull’educazione interculturale come forma di pedagogia popolare e contemporaneamente di lotta politica. In un’epoca di profonda penetrazione delle retoriche razziste anche nelle culture e negli immaginari delle classi popolari, una torcia da passare e non far spegnere.