Santo Moscato. Commediante e martire
Sartre intitolò “Saint Genet. Comédien et martyr” il suo saggio su Jean Genet pubblicato nel 1952, una voluminosa analisi da parte del più grande filosofo esistenzialista dell’opera di un artista che in quegli anni scandalizzava l’opinione pubblica francese. Un saggio in cui viene scandagliata la personalità di uno scrittore omosessuale, orfano e in seguito vagabondo, ladro e infine detenuto, sospetto di antisemitismo e di tradimento della patria, autore acclamato e allo stesso tempo censurato. Per Sartre, la poetica di Genet è quella della solitudine ma di una solitudine che va oltre quella tipica degli autori romantici. “Perché la solitudine – spiega Sartre – è la relazione sociale stessa quando è vissuta nella disperazione; è la relazione negativa di ciascun individuo verso tutti. L’origine di Genet è un errore (non ci sarebbe stato un Genet se qualcuno avesse usato un contraccettivo), poi un rifiuto (qualcuno ha respinto quell’odiato effetto di un errore), quindi un fallimento (il bambino che non è riuscito a integrarsi nell’ambiente che lo ha accolto). Errore, rifiuto, fallimento: tutti questi aspetti si sommano in un No. Dal momento che l’essenza oggettiva del bambino era il No, Genet si è dotato di una personalità dandosi la soggettività del No; egli è l’avversario assoluto, poiché si oppone all’Essere e ad ogni integrazione”. E i motivi del suo essere un caso letterario, ammirato ed esecrato, Sartre li spiega dicendo “Allo stato attuale delle cose, dobbiamo portare alla luce il soggetto, quello colpevole, quello mostruoso e quel miserabile insetto che noi probabilmente possiamo diventare in ogni momento. Genet ci tiene davanti lo specchio: e noi dobbiamo guardarlo e vedere riflesso in lui noi stessi”.
Genet raccontò che dopo aver letto il saggio di Sartre non riuscì a pubblicare più nulla per i successivi 10 anni, perché sentiva che “La mia meccanica cerebrale ne era uscita decorticata”. Ma esagerava, perché in quegli anni pubblicò invece, anche se solo opere teatrali, e del resto lui stesso aveva contribuito al saggio offrendosi a Sartre in numerose interviste di approfondimento. Il gioco della finzione e dello specchio oscuro, della costruzione reiterata del proprio mito negativo, continuava attraverso quella stessa impietosa e arguta analisi esistenziale che diventerà poi la prefazione ai cinque volumi dell’opera omnia di Genet.
Ho conosciuto l’opera di Jean Genet nei primi anni ’90, durante un laboratorio di drammaturgia tenuto da Enzo Moscato, il drammaturgo e attore napoletano scomparso il 13 gennaio scorso, che è stato grande ammiratore e studioso dello scrittore francese. Fu un seminario condotto da Enzo insieme all’amico Francesco Silvestri (anche lui autore e interprete teatrale, prematuramente scomparso nel 2022), in cui ebbi la possibilità di riconoscere le ascendenze di Genet sull’opera di Moscato. Enzo aveva passato da poco i 40 anni e solo in quell’occasione appresi della sua provenienza proletaria, come la mia: era nato nei Quartieri Spagnoli ed era già stato celebrato come il più “erroneo” (nel senso sartriano) degli autori della Nuova Drammaturgia Napoletana. Era questa la definizione con cui divenne famoso quel gruppo di giovani autori teatrali, e si potrebbe chiamarla koinè per l’importanza che ebbe per loro la lingua, sorto nei primi anni ’80, gruppo-koinè che inevitabilmente fu paragonato e contrapposto al teatro di Eduardo. Il loro emblema era diventato l’amico Annibale Ruccello scomparso nel 1986 a soli 30 anni in un incidente automobilistico, lasciando almeno tre piccoli capolavori teatrali e l’ispirazione per quello di Moscato dal titolo “Compleanno”. Enzo ci parlava di Genet, mentre se ne stava seduto tra noi intorno a un tavolo, io ed altri ne sentivamo l’animo seduttivo e brillante, la sua omosessualità mascolina che aveva l’esperienza del vicolo ma anche quella del ritiro interiore, spazio indispensabile per chi vive nel caos proletario. Niente può incoraggiare un giovane autore come la conoscenza con chi ha fatto un percorso che lui ha appena iniziato, e io avvertivo la provenienza dalla povertà di Enzo come un mistero ormai fuso nella complessità della sua persona, abbigliata con quella sua dolce e tagliente lingua napoletana piena di contaminazioni straniere e di teatralità. Enzo come i suoi compagni era stato il frutto della possibilità di ricevere un’istruzione pubblica avanzata, universitaria, che in lui era sfociata nella filosofia e nella psicologia, ma senza abbandonare il proprio discorso nativo. Quando ho letto il saggio di Sartre che parlava del tema della solitudine in Genet, ho pensato subito al teatro di Enzo, ai suoi monologhi, a volte unitari (Scannasurice 1982, Compleanno 1982) altre volte corali (Occhi gettati 1986, Rasoi 1991), come fili di un discorso interiore mosso dal bisogno di conoscenza del sé e del mondo. Moscato non è riuscito quasi mai a scrivere opere che avessero uno sviluppo narrativo lineare, quando pure ci ha provato (Luparella 1997, Bordello di mare con città 2016) ad un grado avanzato della sua carriera, ha finito sempre per ritornare ai suoi monologhi interiori, a quel bisogno di raccontare attraverso il ritiro nel proprio pensiero, momento salvifico per chi deve mettere ordine del caos. La sua visione del sé aveva significato per lui non di parlare dell’omosessualità ma di parlare da omosessuale e, se non ha parlato anche da ladro come ha fatto Genet, è riuscito a raccontarsi come un giovane che sarebbe dovuto diventare un ladro.
Enzo non visse sempre nei vicoli e, come altre famiglie del centro città di quegli anni, la sua si trasferì nelle zone di edilizia moderna nate con il boom, con un accesso più facile ai consumi e alla società. Ne venne da lì la possibilità della sua istruzione avanzata, l’apprendimento di una tecnica del pensiero e di alcune lingue straniere, convogliati in un sapere condiviso con altri simili a lui, in quella koinè che animava un pezzo di mondo-società-visione-cultura e che trovò sbocco nell’arte teatrale.
Non fu mai un radicale, la sua rabbia sociale fu più indignazione, era un moralista, scandalizzato dall’inclemenza di chi stava in alto e di chi stava in basso, con una lingua fluida e vibrante che non a caso poi prese la via del canto, dell’incontro con la musica e anche qui con la tradizione e anche qui in modo personale (Embargos 1994, Cantà 2001 tra gli altri). Le due arti degli analfabeti, musica e teatro, vennero esplorate da questo sé (che per un certo tempo fu un noi) avido di mettere in lingua il mondo intorno, in quella lingua antica e allo stesso tempo contemporanea di una solitudine che aveva saputo apprendere le tecniche e individuare la direzione verso cui rigettarle. Non è stato un artista che si è scontrato col mondo, con le sue ingiustizie, in fondo non ne aveva bisogno perché non fu mai completamente integrato, al massimo della sua affermazione Moscato fu tollerato e vezzeggiato dalla borghesia teatrale italiana. Aveva aperto una nuova pista con il suo carico di dialetto non accomodante come era stato quello di Eduardo, autore e Super Io dei giovani autori che invece aveva saputo portare la lingua ad un livello di integrazione nell’idioma nazionale. Moscato è stato più simile a Raffaele Viviani nel restare comunque un rifiutato, ma dopo di lui altri fino al contemporaneo Mimmo Borriello hanno potuto parlare di nuovo a teatro così come “mangiavano” e vedevano mangiare. Tollerato e rifiutato quindi, sembra strano scriverlo di un autore che già negli ultimi anni di vita era un classico e che è morto mentre una grande attrice, Isa Danieli, ne recitava le parole in scena, ma tollerato e rifiutato lo era. Il suo necrologio non ha avuto risonanza nazionale, se non tra i teatranti, perché la sua lingua non era conciliante sebbene interi vagoni di parole napoletane riempiano e a volte saturino la produzione culturale del nostro Paese. Il rifiuto verso Enzo non ha riguardato il suo dialetto ma la sua propensione verso quel fallimento nell’integrarsi che amaramente Sartre aveva individuato in Genet e che, come in Genet, in Moscato si è mostrato a volte come stanchezza del proprio destino, in una resa temporanea a cui subito seguiva un attacco. Quello che in Genet fu compiuto attraverso la vita, in Moscato è vissuto nella lingua, una lingua che non si è mai piegata a delle convenzioni, uniche concessioni furono quelle verso la tradizione culturale da cui aveva appreso le sue tecniche, verso la filosofia e la ricerca semantica, con delle convergenze mitteleuropee, come nel Viviani che fu vicino all’espressionismo di Brecht, ma con un carattere più individuale, più psicanalitico, più minoritario. La sua lingua è stata la scena su cui si è rappresentato il fallimento verso un’integrazione cercata, voluta, concessa ma impossibile.
Il legame di Enzo con Napoli è stato la sua catena di forza, quel bisogno disperato di osservarne le dinamiche biologiche come uno scienziato ma allo stesso tempo di esserne osservato come uno strano insetto, quel cordone che risaliva lungo la memoria delle sue prime scoperte incantate dell’Essere, tra i vicoli e tra le umanità lacere, fino a restarne imprigionato e infine ucciso come pena per chi, come lui, avesse toccato la fonte comune dell’amore e della morte che andava cercando. Moscato non si rivoltò ma fece un patto con la borghesia: se lo avessero lasciato a studiare quel gorgo inesauribile fino a consumarsi in esso, lui non avrebbe lanciato contro di loro uno degli incantesimi-maledizioni che nuotando in quella lingua aveva imparato. E la borghesia aveva accettato e creduto a quel patto, convinta che fosse lei a concederlo e non il mago che Moscato era diventato recitando i suoi mantra. E nessuno si era accorto, tranne i suoi adepti fraterni, che invece non nuotava ma bruciava nella fiamma di chi aveva preso su di sé le bestialità e le viltà del suo prossimo più segreto e assente, portandoli come un carico di espiazione.
Le sue apparizioni cinematografiche sono state sempre in personaggi monologanti o melodiosi alla stregua di funzioni benefiche o di tricksters, caratteri unici e solitari, e non perché gli veniva richiesto ma perché era il solo modo di integrarlo in una narrazione controllata senza riuscirci completamente. Altre volte, registi come Mario Martone e Giuseppe Bertolucci avevano concesso alla sua opera (Rasoi, Luparella) la funzione del cinema come memoria del pensiero che si fa visione. La ferita di Moscato, quel dolore solitario in cui aveva trovato la propria identità e la propria poetica, sono stati la finzione di un dolore davvero esistente, che lo ha reso commediante e martire in cui ancora una volta ciascuno di noi può rispecchiarsi e rinnegarsi allo stesso tempo. Il mondo della sua lingua, pagato col mondo della sua vita (ad un prezzo che tutti noi rifiutiamo), vaga ancora tra i microcosmi della città da cui si è fatto imprigionare per la vita e che lui stesso ha imprigionato, in un gioco di specchi dove Enzo Moscato si è concesso l’eredità e il potere di riapparire per continuare a contemplare quella fonte di amore e morte, ma stavolta dalla prospettiva opposta.