Quelli che bruciano. Tunisini d’Italia
Salah è arrivato in Italia nel più classico dei modi, con un barcone, dopo una pericolosa traversata, fino a Lampedusa. Il mare era agitato quel giorno e nessuno aveva avuto notizie del loro arrivo. In Tunisia sua madre lo pensò morto fino a quando non riuscì a chiamarla, dopo due mesi, dal centro di detenzione di Brindisi dove era stato trasferito. Furono pianti, benedizioni e ringraziamenti ad Allah.
Aveva appena 18 anni quando è partito, doveva fare l’esame finale per prendere un diploma di perito elettricista, suo padre era morto, i fratelli già grandi e lui impaziente di andare a cercare la sua strada ma soprattutto una libertà impossibile in Tunisia. Anche se avesse preso il diploma infatti il lavoro non c’era; se c’era, era pagato poco e non gli avrebbe permesso una indipendenza reale, e per trovarlo comunque bisognava avere conoscenze, chiedere favori, strisciare: e questo a Salah non era mai piaciuto.
E allora? Meglio l’avventura e il rischio alle lunghe giornate passate in riva al mare a bere tè, fumare sigarette e interrogarsi sul futuro con i suoi amici, tutti disoccupati, tutti già disillusi.
Salah aveva la scintilla invece del cambiamento, gli diede fuoco bruciando i suoi documenti e diventando harraga,uscendo un giorno di casa senza salutare sua madre per non farla insospettire e prendendo il mare.
Ma è qui in Italia che Salah sperimenta più decisamente la violenza delle frontiere, lo sfruttamento sul lavoro, i mondi clandestini in cui senza documenti è costretto a vivere, la solitudine, il razzismo, quella che lui chiama l’estrema ignoranza culturale degli italiani che continuano sempre a vedere un tunisino come un diseredato senza istruzione e proveniente dal ventre della terra.
Sperimenta la detenzione dentro un centro per stranieri – allora chiamati Cpt (Centri di permanenza temporanea) e oggi meno vagamente, Cie (Centri di identificazione ed espulsione) – il lavoro nero e sfruttato nelle campagne siciliane, le case abbandonate da abitare con gli altri appena arrivati, e poi la salita al Nord, la freddezza e la diffidenza dei milanesi, i suoi fratelli tunisini che spacciano ma che gli danno una mano, ancora il lavoro sfruttato e in nero stavolta in edilizia, i problemi di affitto di una casa normale senza documenti, le ragazze con cui non può nemmeno parlare perché è clandestino, arabo e senza un soldo.
Quando scoppiano a dicembre le rivolte in Tunisia chiedo a Salah cosa ne pensa.
“Mi sento lontano dal mio paese, sono cambiate molte cose da quando sono partito, molte cose che io non ho visto e a cui non ho partecipato. Sono partito ragazzo, non capivo niente della Tunisia, capivo solo che mi sentivo oppresso e che desideravo la libertà che speravo di trovare in Europa. Ho visto per televisione le immagini della rivolta in alcuni villaggi intorno a Gafsa, Kasserine, Redeyef, mi sono sconvolto nel vedere la povertà che c’è nel mio paese. Sono contento che le cose forse potranno cambiare, ma ci vorrà tempo. Molto tempo.”
Gli chiedo se ha pensato di tornare a casa, dopo tanti anni e dopo troppe delusioni in Italia, se non è stanco di vivere da clandestino o da immigrato ai margini di una società a cui non si sente di appartenere, isolato anche dalla sua famiglia e dalla lontananza che sente dal suo mare.
“Cosa torno a fare? Cosa faccio in Tunisia? In più come sono ora, senza soldi, senza aver combinato niente in tanti anni in Europa, non posso tornare così, non appartengo più a nessun posto”.
Tarek ha una storia completamente differente: è da 20 anni in Italia, ha un lavoro, una carta di soggiorno, è sposato con una europea, anche lui mi parla del tempo che inevitabilmente ci vorrà per cambiare veramente le cose.
Non si fa illusioni, si dovranno impiegare anni per smantellare un sistema di potere e una cultura politica radicata negli interessi concreti di tutti coloro che finora hanno appoggiato Ben Alì.
È stato un sindacalista in Italia Tarek, quindi del potere economico dei padroni e della sua lunga durata ha una visione chiara e mi dice:
“L’esercito ha abbandonato Ben Alì, ma in fondo non gli è mai stato particolarmente fedele. Il problema sono le truppe speciali lealiste: un apparato di polizia politica capillare, quello su cui si è costruito il sistema di controllo sociale, di spionaggio, di abuso quotidiano sulla popolazione civile.
Poi ci sono gli interessi economici del giro di Ben Alì, una oligarchia costruita sulla base di legami di parentela e di fedeltà personali: sua moglie, il suo clan e chi è riuscito a ottenere il favore dei piccoli capi locali di questo potere mafioso legato al partito. Loro non controllano solo la politica e la burocrazia, ma anche l’economia: per aprire una qualsiasi attività economica in Tunisia, anche se avevi i soldi necessari, questo non ti metteva al riparo dalle tangenti, dalle mazzette che dovevi pagare, e tutto ciò se la tua attività non faceva gola a qualcuno, perché in quel caso dovevi prendere proprio come socio qualcuno legato al governo altrimenti non aprivi nemmeno. È questo che ha bloccato tutto in Tunisia, anche chi come me avrebbe potuto tornare dopo anni di lavoro in Italia e mettere in piedi qualche attività lì. Io me ne voglio andare anche dall’Italia, oramai neanche qui c’è più niente, solo lavoro sfruttato e dopo anni ancora non sei rispettato. Non ho chiesto la cittadinanza per questo motivo, anche se potrei averla, perché non credo in questo paese. Penso di andare in Polonia in futuro, il paese di mia moglie, lì credo che le cose stiano iniziando bene e ci sono molte possibilità di crescere.”
Quando gli chiedo perché secondo lui tanti ragazzi tunisini – proprio ora che le cose sembrano poter cambiare – continuano ad abbandonare il paese, mi risponde:
“La rivolta l’hanno iniziata i più poveri, quelli delle regioni più rurali, Sidi Bouzid, Gafsa, in questi posti non si vive di turismo, manca tutto, questi sono ancora uomini veri, coraggiosi. Poi ci sono i ragazzi, quelli come me che da giovane sognavo di uscire: sognano l’Europa, la libertà occidentale e hanno immagini di successo e di ricchezza nella testa. Loro non aspettano, non si fidano, per alcuni partire significa l’avventura e non sanno cosa li aspetta ora qui. In Tunisia i giovani sono eroi, qui diventano clandestini. Io ora sono però orgoglioso del mio paese, abbiamo fatto vedere al mondo chi sono i tunisini, che noi non abbassiamo la testa, che abbiamo coraggio, anche qui io mi sento più forte”.
Badar ha 18 anni e viene proprio da Sidi Bouzid, o meglio i suoi genitori sono nati lì, perché lui è in Italia da quando aveva 4 anni. Badar non sapeva quello che succedeva nel suo paese, anche i suoi cugini sono quasi tutti in Italia e fino a qualche anno fa considerava il kebab un cibo “etnico”: non gli piaceva, non voleva mangiarlo, odiava essere tunisino e se avesse potuto si sarebbe strappato questa identità dalla sua pelle, perché troppe volte a scuola, con gli amici, l’aveva sentita come una cosa da nascondere, quasi una invalidità. Si sforzava così tanto di essere come gli altri che era un replicante perfetto dell’ultima moda giovanile: le scarpe della marca giusta, un certo taglio di capelli, una discoteca da frequentare assiduamente e la musica adatta al suo stile di consumi.
Perfetto nello stile e mimetico, si disperava nonostante tutto delle sue vacanze forzate in Tunisia con i genitori, di un arabo che quasi rifiutava di imparare e viveva l’estate come una deportazione.
Oggi che è sulla soglia della maggiore età, alle prese per la prima volta con il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, proiettato nelle file alla Prefettura per chiedere la cittadinanza, ha fatto pace con la sua origine: ascoltiamo musica rai insieme, a volte cerca anche di tradurmela, mangiamo anche il kebab ed il cous cous ma continua a dire “loro” quando si riferisce agli altri tunisini. Degli avvenimenti del suo paese conosce poco, ma forse c’è quel rapper tunisino, El General, che è stato incarcerato per aver cantato contro Ben Alì che potremmo ascoltare insieme, anche se il suo problema attuale sono più Bossi, Berlusconi e le loro leggi sull’immigrazione che Ben Alì.
Presidente, oggi parlo con te / nel nome mio e nel nome di tutto il popolo, / un popolo che vive nel dolore ancora nel 2011! / C’è ancora gente che muore di fame! / Vogliono lavorare, vogliono sopravvivere, / ma nessuno ascolta la loro voce! / Scendi in strada e guarda! / La gente sta impazzendo e i poliziotti diventano mostri, / ormai sanno usare solo i manganelli, / tac tac, / non gliene importa, / tanto non c’è nessuno pronto a dire no! / La legge e la costituzione / sono solo sulla carta. / Presidente hai detto che era il tempo di parlare senza paura. / Ok, io ho parlato / anche se so che adesso mi aspettano guai! / Vedo l’ingiustizia ovunque, / ecco perché ho deciso di raccontare tutto! / Per quanti tempo ancora i tunisini / dovranno vivere sotto la paura?! / Dov’è la libertà di espressione? / Solo sulla carta! / Presidente guarda! / Oggi il paese è diventato un deserto diviso in due. / Ci sono ladri dappertutto, / tutti li vedono ma nessuno può dire niente! / Rubano i soldi delle infrastrutture, / e tu sai bene di chi parlo! / Figli di un cane! / Si sono mangiati i soldi del povero popolo / e adesso non vogliono lasciare la poltrona!
( El General, Rais LeBled, 2011)
Mohamed ha 27 anni e ora è in carcere. Quando gli chiedo di parlare della rivolta in Tunisia e di dirmi la sua opinione ne è sorpreso. Il solo fatto di essere finito in carcere, secondo lui, gli ha tolto la parola, sul suo paese e su tutto il resto. Mohamed è arrivato in Italia quattro anni fa. La traversata in mare l’ha fatta su una piccola barca insieme a poche persone. Poi la “solita” trafila: Lampedusa, il Cpt di Crotone e poi “un giorno ti aprono la porta del Cpt e ti salutano, ti mettono in mano un foglio che dice che devi lasciare l’Italia entro cinque giorni. Che in Italia sarà dura lo scopri dai chilometri che devi farti a piedi per arrivare alla stazione di Crotone”. Poi direttamente a Bologna che è la “capitale degli Sfaxiani d’Italia”.
Sfax, dove Mohamed abitava con la famiglia prima di arrivare in Italia, è una città del sud della Tunisia. “La mia città era il più importante centro di trasformazione del fosfato della Tunisia con tante fabbriche e un grande porto industriale, ma le attività sono tutte ferme da un po’. Io facevo il pescatore ma non avevo una barca mia, lavoravo a giornata. La vita del pescatore è durissima e guadagni giusto per vivere. Uscivo tutti i giorni in mare, solo quando c’era troppo vento non lavoravo e, ovviamente, non mi pagavano. Il poco tempo libero lo passavo con gli amici ma dovevamo stare attenti pure a comprarci qualche birra ché se ci beccava la polizia o ce le portava via o dovevamo darle soldi per stare tranquilli”.
La corruzione, a tutti i livelli, non è un argomento centrale nei racconti dei giovani tunisini ma lo scenario costante a ogni episodio.
“Ho provato a mettermi in proprio: ho fatto un mutuo e ho comprato una barca. Ma le cose non sono andate bene, due mesi dopo me l’hanno rubata: sarà stata gente disperata come me o pure peggio. Se non pagavo il mio debito finivo in galera e allora ho messo la faccia contro il vento e sono venuto qui”.
“Sono contento della rivolta. Penso che sia arrivata tardi. Il mio popolo subisce da tantissimi anni e doveva ribellarsi prima. Quando vivi là però è difficile: vorresti ribellarti ma non sai come fare, al massimo ti trovi a litigare con le guardie, ma resta un fatto tuo, privato. Pensi a costruirti un po’ di tranquillità. Un lavoro, un po’ di soldi, vorresti avere una famiglia. Insomma cose semplici ma non ci riesci. Ora non riesco a immaginare cosa cambierà ma la cosa che più manca, che più mancava a me, non è il pane ma l’uguaglianza”.
Fadil invece è arrivato a 16 anni e la sua adolescenza l’ha passata in Tunisia.
È stato portato dal padre in Italia, che vive qui da tempo e che ha lavorato duramente per anni, fino a spezzarsi la schiena in un incidente sul lavoro cadendo da un cantiere edile senza protezioni.
In seguito a questo incidente ha ottenuto un risarcimento dall’assicurazione che gli ha permesso di costruire una casa in Tunisia e di elevare la sua situazione economica, continua a lavorare in una fabbrica come operaio e ha portato Fadil in Italia per farlo studiare un po’, una qualifica di formazione professionale, e poi farlo lavorare con lui in fabbrica.
Ma Fadil non condivide il progetto di suo padre, si è sottomesso per rispetto alle sue decisioni, ma a scuola girava senza meta, senza interesse, curioso, ma con la testa a una fidanzata lasciata in Tunisia. In più forse era anche spaventato dal sacrificio di suo padre: un immolato a partire dal suo stesso corpo per la prosperità della famiglia. Non proprio una prospettiva affascinate per un giovane che immagina il suo futuro.
Anche lui ha compiuto 18 anni. Finalmente maggiorenne ha deciso di ribellarsi a suo padre e appena ha sentito delle rivolte nel suo paese, ha lasciato la scuola ed è tornato a casa, perché vuole partecipare insieme a tutti i suoi amici lì al cambiamento, che stavolta sembra molto più avventuroso dall’altra parte del Mediterraneo.
Le rivolte in Tunisia sono scoppiate nel cuore del paese, nelle zone di Sidi Bouzid, Gafsa, Kasserine, Redeyef: territori impoveriti da siccità, dismissione industriale, inquinamento ambientale provocato dalle attività minerarie di estrazione e lavorazione dei fosfati, altissima disoccupazione giovanile. È soprattutto da queste zone che si emigra in cerca di una soluzione individuale e solitaria verso una vita più degna.
Sono città e villaggi nati intorno alle attività industriali della compagnia nazionale dei fosfati e al suo indotto, dove il lavoro garantiva inclusione sociale e servizi, dismessi dalla metà degli anni ottanta insieme alle fabbriche a causa degli aggiustamenti strutturali all’economia in senso “modernizzatore” imposti alla Tunisia dalla Banca Mondiale.
In questi territori l’economia dell’abbandono è divenuta uno strumento di repressione politica di popolazioni considerate inutili perché non più al centro di attività produttive rilevanti per l’economia nazionale. Popolazioni potenzialmente rivoltose perché storicamente sindacalizzate sin dai tempi di Habib Bourguiba, primo presidente della Repubblica Tunisina, quando i lavoratori nei bacini minerari di Redeyef e Gafsa furono protagonisti di uno sciopero che si estese poi a tutto il paese e che culminò con una repressione durissima che causò centinaia di morti.
Nel 2008 a Redeyef scoppiarono rivolte contro il sistema nepotista e clientelare con il quale venivano assegnati i pochi posti di lavoro che erano ancora disponibili dentro l’impresa nazionale dei fosfati. Anche in questo caso lo sciopero – che raccolse l’appoggio di vasti strati sociali e non solo degli operai e dei disoccupati – si concluse con l’incarcerazione e l’accusa di tentativo di colpo di stato per molti esponenti sindacali e semplici attivisti della protesta.
È vero che alle rivolte di queste settimane hanno partecipato moltissimi giovani disoccupati senza appartenenze politiche tradizionali, che internet è stato uno straordinario mezzo di diffusione e di informazione, che le rivendicazioni economiche e quelle politiche – nella direzione di una maggiore democratizzazione e giustizia sociale – non vanno scisse per comprendere la combattività di queste sollevazioni, ma c’è una storia a cui vanno riconnesse. Non scoppiano dal nulla ma da 23 anni di regime, violenze, abusi e da un processo di decolonizzazione che aveva aperto speranze poi tradite.
Nella migrazione c’è una parte di questa generazione che ha perso il contatto con la propria storia: a volte ne ha iniziata un’altra tutta nuova in Europa – le seconde generazioni – altre volte si è smarrita ed è caduta, nel limbo del carcere e della devianza.
In Tunisia c’è l’altra parte di questa generazione, quella che ha rifiutato sia di morire di inedia nel paese che di morire su un barcone o in esilio, scegliendo di vivere in dignità e pienezza.