Oscuro più di mille abissi
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Gli apprendisti stregoni è il titolo italiano del libro (Brighter than a thousand suns) che l’austriaco Robert Jungk pubblicò nel 1958 ricostruendo le vicende che portarono un gruppo di scienziati guidati da Julius Robert Oppenheimer, leader del progetto Manhattan, a realizzare a Los Alamos nel Nuovo Messico nel 1945 la bomba atomica, l’arma di sterminio per eccellenza. Quel volume frutto di anni d’indagine mise per la prima volta in luce le responsabilità degli scienziati dell’atomica sollevando questioni etiche che la scienza non può ignorare, svelando anche la militarizzazione della conoscenza consolidata nel corso delle guerre mondiali e divenuta pervasiva in tutti gli establishment scientifici moderni. Da allora sullo stesso tema si è pubblicato molto.
Il film di Christopher Nolan si basa su Robert Oppenheimer. Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica (American Prometheus, 2005, Garzanti, Milano 2009), che valse il Pulitzer al giornalista Kai Bird e allo storico Martin J. Sherwin. Per quanto di successo e capaci di focalizzare l’attenzione sul singolo evento più traumatico della storia, né il film, né il libro colgono la profondità dell’abisso in cui il progetto Manhattan seppellì ogni speranza di riabilitazione della scienza. E con essa ogni possibile riscatto umano con la tecnologia. Né colgono il peso insostenibile dell’apparato nucleare che da allora grava sulla modernità auto-asservitasi al suo sostentamento a fini di deterrenza e distruzione. Il loro modesto obiettivo era fornire, insieme alla biografia del padre della bomba atomica, riflessioni centrate sulle sole questioni strategiche e morali che afflissero il protagonista di quell’impresa. Tuttavia, il dibattito si è aperto ed è necessario allargare il campo visivo oltre Oppenheimer e Los Alamos per comprendere appieno la perdurante tragicità di quell’evento.
L’impossibilità di evocare con canoni convenzionali l’orrore dei bombardamenti aerei, non solo nucleari, era già stata chiarita da Pablo Picasso (Guernica), Kurt Vonnegut (Mattatoio n.5), Winfried Georg Sebald (Storia naturale della distruzione), Heinrich Boll (L’angelo tacque), Hans Erich Nossack (La fine. Amburgo 1943), Alain Resnais (Hiroshima mon amour), Akira Kurosawa (Sogni e Rapsodia d’agosto), Kon Ichikawa (L’Arpa birmana), Stanley Kubrick (Il dottor Stranamore). Christopher Nolan e la cinematografia hollywoodiana non sono in grado di accettare sfide su questo piano. Anche se si spacciano come d’arte, le loro opere non possono permettersi altro che spazi di espressione convenzionali e tesi a glorificare l’ineluttabilità del presente.
Nonostante l’atmosfera di complessità e gli effetti speciali dei suoi film, Nolan non ha mai offerto incantamento, né una visione del futuro alternativa a una supereroica soluzione tecnica di tutto. La trilogia di Batman, Tenet, Inception, Interstellar, The Prestige, si ispirano a una fantascienza ambigua prigioniera di una tecnologia salvifica, ma con riferimenti scientifici confusi che travisano le poche potenzialità del reale. Oppenheimer, anche se biografico, segue lo stesso solco. Il film racconta la vita del fisico statunitense, dagli studi del giovane e fragile Robert, erede di immigrati tedeschi di origini ebraiche, ad Harvard, Cambridge e Göttingen – in Germania, con Max Born fondatore della meccanica quantistica – fino all’ascesa del gotha scientifico, alla direzione del progetto Manhattan e alla caduta dopo l’udienza della Commissione per l’energia atomica, che nel 1954 lo accusò di comunismo estromettendolo da ogni incarico.
Nolan tesse il racconto con sbalzi temporali, frammenti onirici e riflessioni del protagonista. Anche quando si sofferma a lungo sulla grottesca udienza del 1954, il focus torna sempre su quanto accadde negli anni ’40 e sul programma segreto per la realizzazione di armi nucleari che il generale Leslie Groves affidò a Oppenheimer e a un gruppo imponente, per numero e competenze, di scienziati.
Dalla fine dell’800, quando a Parigi Antoine Henri Becquerel scoprì la radioattività dell’uranio e i coniugi Marie Skłodowska e Pierre Curie quella del polonio e del radio, fino al 1938, quando a Göttingen in Germania fu realizzata la prima reazione di fissione (trasformazione) dell’uranio da Otto Hahn, Fritz Strassmann e Lise Meitner, la ricerca sulle proprietà nucleari degli elementi era rimasta nelle mani degli scienziati. Fu così ancora per poco. Nel 1939 il presidente USA Franklin Delano Roosevelt formò un primo gruppo di esperti per esaminare la possibilità di un’arma atomica. Ne fecero parte numerosi scienziati dell’est Europa di origini ebraiche ostili sia al nazismo, sia al comunismo, come Leo Szilard, Eugene Wigner, Edward Teller, John Von Neumann e Józef Rotblat. Da quel momento, passò tutto sotto il controllo del Dipartimento della Guerra.
Gli scienziati del Progetto Manhattan si trasferirono a Los Alamos con le loro famiglie dalla primavera del 1943 fino al test Trinity, la prima esplosione nucleare condotta nel deserto di Alamagordo il 16 luglio 1945. Hitler si era suicidato il 30 aprile dello stesso anno. Il Giappone, non si era arreso ma era palesemente sconfitto. La Russia preannunciava un intervento per chiudere la guerra anche nel Pacifico. Passarono meno di tre settimane e altre due bombe nucleari furono sganciate su Hiroshima, il 6 agosto, e Nagasaki, il 9 agosto, causando centinaia di migliaia di morti immediatamente per l’esplosione e nei mesi e anni successivi per gli effetti della radioattività. Non pochi suggeriscono che quei due ordigni, più che al Giappone, fossero indirizzati alla Russia come monito e per ribadire la suddivisione geopolitica del mondo nel dopoguerra.
Successivamente, mentre veniva irrigidito il sistema a compartimenti stagni per impedire lo scambio di informazioni, il ruolo degli scienziati cambiò radicalmente. Coloro che avevano svolto compiti di primo piano divennero poco più di un ingranaggio della ricerca nucleare. L’esperienza di Oppenheimer non fu diversa. Tuttavia tra la fine della guerra e il 1954, quando fu privato del ruolo pubblico, ebbe un’influenza maggiore degli altri scienziati. Nei cinegiornali e sulla stampa veniva lodato come un eroe, era a capo di più di 35 organizzazioni, comitati e progetti di ricerca governativi. Era famoso, invitato in TV, alla radio, alle conferenze. Consapevole di questa popolarità cercò di partecipare alle decisioni di politica nucleare, puntando sulla presunta duplice natura dell’energia atomica che definiva un pericolo ma anche una speranza.
L’incoerenza del suo pensiero stava nell’illudersi che fosse possibile ovviare a un danno usando gli stessi strumenti che lo avevano prodotto. Nel caso delle bombe atomiche, accettandone il rischio e puntando a controllarlo. Questo modo di pensare comporta sempre un’escalation: 13mila testate nucleari sarebbero oggi la garanzia di pace nel mondo. Occorre piuttosto denunciare i limiti del sistema razionale che ha creato la bomba e questa situazione e che, perso fra livelli di complessità diversi, si illude perfezionando i particolari di rimediare all’assurdità del tutto. Quando diventa autoreferenziale e miope, questa razionalità, non più scientifica, si riduce a stregoneria e anche i particolari da perfezionare sono solo quelli che quel sistema vuole rendere visibili.
Nel film di Nolan, assieme alla passione per la fisica si esalta quella del protagonista per il Nuovo Messico. A detta di tutti, Oppenheimer amava quella terra e i suoi abitanti. Questo amore sembra il motivo per cui il progetto Manhattan fu realizzato a Los Alamos, oltre al fatto che era un luogo sicuro. Quando fu il momento di testare la bomba, il team di Trinity scelse un luogo nella parte meridionale del deserto ritenendo che il terreno pianeggiante e i venti deboli avrebbero limitato la diffusione delle radiazioni. Nel film non se ne accenna e nel libro si parla appena di coloro che lo abitavano. Si legge: “qui l’Esercito isolò un’area di trenta per quaranta chilometri circa, allontanò alcuni allevatori dalle loro grandi proprietà e cominciò a costruire sui prati un laboratorio e solidi bunker dai quali fosse possibile osservare la prima esplosione di una bomba atomica”. Ma nel raggio di 200 km su quel territorio viveva circa mezzo milione di persone. Non furono avvisati né fu mai detto loro di allontanarsi. I dati sull’esposizione di quei civili non furono mai raccolti. Questa disattenzione verso le comunità coinvolte sarebbe diventata una caratteristica dei più di 200 test nucleari statunitensi in atmosfera il cui fall-out (la ricaduta radioattiva) coinvolse milioni di persone.
Mentre racconta i rapporti di Oppenhemeir con scienziati come Niels Bohr (il primo a formulare la struttura atomica moderna), Ernest Lawrence (inventore degli acceleratori di particelle) ed Edward Teller (padre delle bombe a idrogeno), Nolan ne esplora anche la vita privata: il difficile rapporto con la moglie Katherine Vissering, quello con la psichiatra Jean Tatlock e le crisi esistenziali per ciò che accadde dopo la bomba. Ma l’obiettivo non si allarga mai oltre. Non compare nessuna delle 85 donne del progetto. Lo stesso vale per Von Neumann, il più discusso di quegli scienziati. Né si racconta delle defezioni, di Rotblat per esempio, soprattutto dopo la sconfitta della Germania. Perfino la devastazione di Hiroshima e Nagasaki è presentata solo in modo riflesso attraverso la rimozione emotiva di Oppenheimer.
È un’imperdonabile debolezza del film, di cui non è ancora prevista la distribuzione in Giappone, dare così poco spazio a un’umanità diversa, come quella del movimento antinucleare di cui gli scienziati di Los Alamos furono fautori, e a chi soffrì per le decisioni di quei grandi uomini. I dati del National Cancer Institute mostrano che le ricadute dei test nucleari colpirono pesantemente anche gli statunitensi. Il Nobel per la medicina 1995, Edward Bok Lewis fu fra i primi a occuparsi degli effetti delle esplosioni atomiche. Nel 1957 evidenziò correlazioni fra l’esposizione alle radiazioni dei sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki e l’insorgenza di leucemie. Approfondendo l’analisi, stimò che il fall-out avesse causato un aumento del 5-10 % delle leucemie indotte da radionuclidi (circa il 20 % del totale) su scala mondiale. L’intera popolazione USA ha registrato un aumento del tasso di leucemia durante i test nucleari in atmosfera e poi una sua diminuzione con la loro messa al bando.
Per riprendere il controllo di ciò che era stato avviato, ci sarebbero volute consapevolezza e abilità politiche diverse da quelle di Oppenheimer. Aveva appreso degli sforzi di Bohr e degli scienziati di Chicago schierati contro l’uso delle armi nucleari mesi prima del bombardamento del Giappone. James Franck e Leo Szilard si spendevano per evitare quell’atrocità, avevano raccolto una petizione, erano riusciti a coinvolgere Albert Einstein e grazie alla moglie Eleanor avevano ottenuto a maggio un appuntamento con Roosevelt, che non si tenne per la sua morte nell’aprile del 1945. Il successore, Henry Truman non prese in considerazione la loro richiesta. Nel film, la scena in cui viene discussa l’avvenuta distruzione di Hiroshima e Nagasaki mostra Oppeheimer con i propri rimorsi messo alle strette da Truman, ma aveva accettato egli stesso di sedere assieme a pochi altri colleghi con i militari per scegliere se e dove sganciare le bombe.
Oppenheimer non era l’uomo adatto per dare voce al dissenso. La sua ambizione rimase fino all’ultimo di operare dentro, non contro le stanze del potere. Alla fine del film lo si vede nel 1963 ricevere un nuovo premio scientifico (dedicato a Enrico Fermi, fra i pochi italiani nel progetto Manhattan assieme a Bruno Rossi. L’amico Franco Rasetti non lo aveva seguito) forse perché, come gli anticipò Einstein, il suo ruolo era ormai irrilevante. Non firmò il Manifesto Einstein-Russell del 1955 contro la guerra nucleare, né si unì alle Conferenze internazionali del gruppo Pugwash fondato da Rotblat, ancora oggi un riferimento della lotta per il disarmo.
Claude Eatherly, pilota dell’equipaggio di Enola Gay, la superfortezza volante che sganciò la bomba su Hiroshima, riuscì mentre era ricoverato per depressione post traumatica ad avviare un carteggio memorabile con il filosofo Gunther Anders sulle responsabilità singole e collettive delle esplosioni nucleari. Anche Oppenheimer, come si legge nel libro di Bird e Sherwin, “era consumato dai profondi dilemmi etici e filosofici posti dalle armi nucleari, tuttavia a volte sembrava che, come disse [Charles] Thorpe, ‘si offrisse per piangere per il mondo, ma non per contribuire a cambiarlo’”.