Oltre la catastrofe. Poesie inedite di Francesco Giusti
Francesco Giusti (Venezia, 1952) appartiene a una generazione virtuosa di poeti e poete dal Veneto, insieme a Luciano Cecchinel e Paolo Lanaro in cui forse potremmo inserire anche Patrizia Valduga: una generazione successiva a Zanzotto che di questi raccoglie in eredità il dovere di cercare le ragioni del linguaggio nel rapporto con le proprie radici.
I versi di Giusti sono emanazione di Venezia e i suoi indissolubili mutamenti, che il poeta osserva dalla stanza di lavoro nell’alternanza tra luce e buio. Graziano Graziani lo descrive così in A Venezia (Giulio Perrone, 2021): “Porta un cappello di lana anche in casa, come fossimo sulla prua di una nave, mentre siamo nella sua stanza, che è un misto tra un alloggio monacale – mobili semplici, un letto singolo, una poltrona, una piccola scrivania, una radio perennemente sintonizzata su Radio 3 – e il rifugio di un bibliomane, tanti sono i volumi stipati in quello spazio ridotto.” Eremita tra le calli, Giusti ci offre una poesia fervida e spirituale, che mescola le cose del presente e le invola verso personali forme di misticismo, frutto di esperienze esistenziali intense e diverse. Militante antifascista durante il 68 e per questo brevemente incarcerato, scrive i suoi primi versi durante la leva militare influenzato dalla lettura di Ungaretti. La politica attiva è un motivo importante della sua poetica, così come la religiosità e i tormenti dell’io-mondo. Tra i suoi maestri c’è Ezra Pound, che negli anni veneziani vedeva passeggiare alle Zattere; una volta lo fermò e fecero un tratto di strada insieme senza dirsi nulla.
Giusti scrive in veneziano e italiano. Recentemente sono apparse due importanti raccolte di poesia, Quando le ombre si staccano dal muro (Quodlibet, 2019) e Vivere di patate 2019-21 (Nottetempo, 2021): in entrambe c’è modo di osservare questo viaggio nell’interlingua, attraverso quello che il poeta chiama “l’idioma del parente estinto”. Un andirivieni tra il dialetto e l’italiano, come ha osservato Giorgio Agamben, in un movimento continuo tra l’una e l’altra lingua, in cui una vive nell’altra e viceversa. In questa corrispondenza imperfetta e non puntuale tra i due idiomi, che non è una traduzione ma un unico gesto poetico – così come nel friulano di Pasolini – c’è un intento programmatico: è superamento di un limite formale, sconfinamento da una pagina all’altra, ricerca di armonia di lingua in lingua.
Questo un rapido esempio da Quando le ombre si staccano dal muro.
Inocenza
Zaleto celestin.
‘Taser scriver parlar. S’ciarar
del giel che ondisa sora el vodo
de un fogeto in svolo: ‘na piera co i so spigoli
traversa guere ponti, longhe sere caminae,
s’ciopetada fin a la ridada de un novo carneval.
tirada da la man de un putin
che xe ancora massa picinin
per saver cossa vogia dir sconderla.
Innocenza
Gialletto celestino.
Tacere scrivere parlare. Rischiarare
del cielo che ondeggia sopra il vuoto
di un foglietto in volo: una pietra con i suoi spigoli
attraversa guerre ponti, lunghe sere camminate,
sparata fino alla risata di un novo carnevale,
gettata dalla mano di un bambino
che è ancora troppo piccolino
per sapere cosa voglia dire nasconderla.
Programmatica è anche la ricerca di una grammatica anomala, nel tentativo di trovare nuove dimore semantiche per il proprio linguaggio. È stato notato che la scrittura di Giusti tende a sfaldare i nessi sintattici, attraverso l’inciso, l’esclamazione e la sovversione dell’ordine della frase. Si slegano anche i vincoli tra i vocaboli e i significati, avviluppati come sono in una spirale ipotattica che quasi disorienta. Scrive Elenio Cicchini che quella di Giusti è lingua della catastrofe, notando la corrispondenza etimologica tra katestrammenē (lo stile aristotelico della concatenazione tra subordinate) e il più comune katastrophē, il capovolgimento che subiscono le città e i popoli in rovina: “il linguaggio capovolto è come una città in balia della catastrofe, dove l’ordinamento giuridico è sospeso e i costumi sono stravolti.”
A questa brillante analisi si può ricondurre il tema della spiritualità, che sempre dialoga con l’apocalisse e lo sfibrarsi della storia nell’esperienza del quotidiano. Nei versi si avvertono il buio e il freddo di questo inverno dell’umanità, la perdita della memoria, il conflitto ineluttabile. “Esistiamo avanti / che le nostre forme esistano. / Ogni mattina di buonora / secoli incolonnati / come camion alla frontiera, / sono le sagome che ci alitano addosso.” scrive Giusti in Discesa dello spirito santo.
Lambita dalla catastrofe è soprattutto Venezia, assediata dal fragoroso turismo dei trolley. La città si manifesta attraverso impressioni sonore, che il poeta raccoglie ed elabora in un’intima forma di comunicazione con la propria città e le proprie strade. Anche il silenzio diventa fragoroso mentre si osserva l’inesorabilità dei cambiamenti.
Questo un esempio da Vivere di patate.
Ciaciaro co le piere
Come fregola de tempo
che te ga fato cresser el sal sule piere
mi stago dentro de ti, Venessia,
ma no so dove, parchè no sento che ti ti me senti,
che ti ti sa de mi
e se ti me disi de sì no so se sia vero
cussì zirada che ti xe a vardar sti qua che vien
a farte e bele beline,
a portarte schei come a n’a dona de strada
che se mostra e se colora,
e ti ti te bei de sto far,
e xe sta qua, me incorzo,
la roba che de più me fa malar.
Chiacchiero con le pietre
Alla maniera di una briciola di tempo
che ti ha fatto crescere il sale sulla pietra
io sto dentro di te, Venezia,
ma non so dove, per il fatto che non sento che tu mi senti,
che sai di me
e se mi dici di sì non so se sia vero
così voltata che sei a guardare questi che vengono
a farti le moine,
a portarti soldi come a una donna di strada
che si mostra e si colora,
e tu ti bei di questo fare,
ed è ciò, mi accorgo,
la cosa che più mi fa ammalare.
Eppure, dalla poesia di Giusti emerge la speranza di un orizzonte più armonioso, che è fatto di ritrovamenti e resistenza, di immagini e voci antiche: l’idea di una vita che sopravvive alla morte. I testi inediti che qui vi proponiamo riverberano la luce di questa prospettiva salvifica. Si parla di cambi di stato, passaggi e mutamenti del corpo per meglio superare gli ostacoli dell’esistenza: la morte è parte di un viaggio da preparare come forma di trasloco. In questo anche risiede la funzione della poesia, che è sostegno quando la ragione ci abbandona nei momenti di maggiore affanno. Ma c’è ancora disponibilità ad ascoltare il canto dei poeti e delle poete?
Viene da chiedersi per chi siano stati scritti questi versi. Alla domanda su chi sia il suo destinatario, Giusti risponde “Per me, per me stesso. Da un lato perché penso che la vita che faccio io sia un po’ la vita che fanno anche gli altri; quindi, scrivendo per me, immagino di scrivere anche per gli altri. Lo so che dovrei dire che scrivo per gli altri, ma non è così. Per me funziona in questo modo, devo partire da me, scrivere per me, e così spero di incontrare gli altri”.
E sembra davvero di incontrare lo sguardo della posterità, leggendo questi versi. Occhi di persone oltre la catastrofe ecologica e culturale, una nuova fase dell’umanità che forse potrà imbattersi in queste parole e orientarsi attraverso di esse.
Partenza
Non ha più luce
segno divino frase
per prendere congedo
e piange, piange, piange. Una
partenza, un abbandono, il dolce talamo nel vento
e pietre sulle quali mettere i piedi,
Niente gli chiedono, niente risponde.
Solo foglie, fragili foglie,
fragilità di cose con dignità
quante volte davanti al cancello
andate in frantumi.
Trasloco
Osso? alluminio? legno?
Allaccio i bottoni della vecchia giacca.
La sedia rimane nuda, anima acida:
lo troverò il tempo
di gustarmi altre due ova in cucina?
Per adesso, come ombra che rotola
giù per le vecchie scale, mi seguono
il frigo, l’asciugamano, il bicchiere sbeccato,
il canarino che non ho mai avuto.
Religione
Sai… un alce
può arrivare fino a seicento chili
da portare tra le erte braccia del padre,
dice accentuando il timbro della voce
il conduttore. Un piccolo camion rimorchio insomma,
motore tirato a lucido, un universo, setole
e neve ghiacciata che ci viaggia negli occhi
se affacciandoci a essi ancora vediamo
sotto il disco rutilante di un sole
che non vorrebbe andarsene
l’anima dal cuore del bosco salire
e infilarci in questa
che non è un’altra.
Salita o discesa?
Dell’adorazione in curva
non ci rimane che stillicidio di lacrimanti spazi,
antenne sopra i pini. Marmoreo
riverbero dei secoli in pendenza
su nidi vuoti. Per risalire
ci siamo fatti ricrescere le branchie,
dice uno, per poter riconoscerci adesso,
finalmente.
Stambecco e aquila, aquila e stambecco.
Petrose convergenze, al fondo ghiaccia il cuore,
ghiaccia il piede perduto. Piccolo lago, occhio di lu
da questa parte la traccia,
da quella il racconto.
Senza titolo
Come vedete
siamo arrivati al punto.
Non ci sopportano
nemmeno più nei loculi
che per noi avevano pensato
con barre di estrema
luce eterna
mattina e sera.
Ero lì quando siete passati?
È stato ieri che vi ho rivisto tirare fuori la scatola del tesoro.
Due soli soffi di vento e la vela.
Il traghetto partiva.
Cuori suonarono trombe di benedizione sulla larghezza del mare.
Ed esso, sospeso era corda di bucato.
Serotino arco di trionfo.
I visi contati facevano quanto mai viva la sera figlia ultima del travertino,
chi restava era bandiera, chi partiva ala di marmo e c’era chi sapeva,
udirne la parola, la virata, il tormento.
E c’era chi aveva portato fiori da gettare sul pianto che restava.
Viva. Città di muri sfiorati come icona di una santità che passava
alle carni l’emozione di aver percorso le piccole calli di un transito che
sapeva di salgemma e avanzi di mangiare per gatti.
Mancava solo il bollo perché la lettera partisse
a tutti voi addio.