Medici senza frontiere nell’emergenza migranti
Aiutiamo le persone in tutto il mondo dove ce n’è più bisogno, fornendo assistenza medica alle popolazioni colpite da conflitti, epidemie, catastrofi naturali o escluse dall’assistenza sanitaria. Il lavoro di Msf si basa sui principi dell’etica medica e dell’imparzialità.
Msf fornisce assistenza medica di qualità indipendentemente dall’appartenenza etnica, religiosa o dal credo politico. Msf opera in modo indipendente da qualsiasi agenda politica, militare e religiosa ed è neutrale: non si schiera in caso di conflitti armati e si batte per incrementare l’accesso indipendente alle vittime, come previsto dal diritto umanitario internazionale.
Al momento abbiamo progetti in corso in circa settanta paesi. Le nostre attività mediche spaziano dalla gestione di ospedali, cliniche e centri nutrizionali, alla chirurgia di guerra e routinaria, alla lotta alle epidemie e al supporto psicologico per le vittime di traumi. Dal 1971 ci siamo presi cura di milioni di persone. Msf si riserva il diritto di denunciare all’opinione pubblica le crisi dimenticate, di contrastare inadeguatezze o abusi del sistema degli aiuti e di sostenere pubblicamente una migliore qualità delle cure e dei protocolli medici. Nel 1999 Msf ha ricevuto il premio Nobel per la Pace.
Le donazioni dei privati (individui e aziende) rappresentano oltre il 99% dei fondi raccolti. È grazie all’impegno e alla generosità dei donatori che i nostri operatori umanitari possono rispondere rapidamente alle emergenze in tutto il mondo, salvando centinaia di migliaia di vite ogni giorno. Quando scoppia un’emergenza Msf è pronta a intervenire nelle prime 48 ore: questo grazie soprattutto alle donazioni non legate che ci permettono di destinare i fondi dove ce n’è più bisogno. Nel 2016 l’82% del totale dei fondi raccolti da Msf Italia è stato utilizzato per finanziare quella che noi chiamiamo social mission: i progetti di soccorso medico e assistenza sanitaria; le attività di reclutamento degli operatori umanitari e le attività di sensibilizzazione. Il restante 18% dei fondi raccolti è stato impiegato per far fronte alle spese di gestione e raccolta fondi.
Nel 2016 abbiamo effettuato più di nove milioni e mezzo di visite mediche, curato più di due milioni di casi di malaria, vaccinato più di un milione di persone contro il la febbre gialla. Abbiamo realizzato 92.600 interventi chirurgici, aiutato a nascere più di 250mila bambini, fornito sostegno psicologico a 229mila persone, fornito trattamenti antiretrovirali a 232.400 pazienti e assistito 80.100 bambini gravemente malnutriti nei propri programmi nutrizionali.
L’intervento umanitario
Gli operatori di Msf agiscono nello spirito di neutralità e in completa imparzialità, rivendicando, in nome dell’etica professionale universale e del diritto all’assistenza umanitaria, la totale libertà nell’esercizio della loro funzione. Ogni anno, circa tremila operatori internazionali collaborano con circa 31mila membri degli staff locali. Msf recluta profili medici, altri profili sanitari, tecnici, amministrativi e altre professionalità necessarie a portare soccorso alle popolazioni vulnerabili.
L’attività di Msf in Italia è nata all’inizio degli anni Duemila. È un’attività che è andata avanti in questi anni modificandosi per come si è modificata la tematica dell’accoglienza e della migrazione in generale, che è il nostro focus. Abbiamo fatto, anni fa, anche alcuni interventi su comunità migranti colpite da chagas, che è una malattia con una componente particolare che riguarda soprattutto popolazioni latinoamericane, oltre ad altri interventi per popolazione non abbiente, a prescindere dalla nazionalità. Però il tema centrale di cui Msf si è sempre occupata prevalentemente è quello dei rifugiati, dei migranti; con diverse attività, di varia natura: dall’accoglienza agli sbarchi e dagli interventi in supporto al sistema di accoglienza – soprattutto per coprire alcuni gap che riguardavano l’accesso alla salute – fino ad attività con lavoratori stagionali o migranti esclusi dal sistema di accoglienza negli insediamenti informali.
Devo dire, purtroppo, che ci sono corsi e ricorsi. Tante volte ci troviamo a ripartire da interventi strutturati con modalità che sono le stesse di dieci anni prima. È ovvio che quando intervieni in un ambito di azione umanitaria non ragioni in una logica di evoluzione, come dovrebbe ragionare l’approccio dello sviluppo: sono qui, tra dieci anni sarò un po’ più avanti. L’azione umanitaria è per definizione il cerotto sulla ferita, è per definizione la risposta a una situazione. Al tempo stesso, ci troviamo in una situazione, oggi, che è fatta di continue risposte a emergenze perché l’Italia ha gestito – o non gestito – il fenomeno della migrazione come se fosse un’emergenza, in una logica di pura risposta di breve periodo. E questa credo che sia la ragione per cui noi in questi anni abbiamo sviluppato vari interventi. Ci siamo rivolti a diverse popolazioni beneficiarie sempre nel contesto della migrazione, andando a cercare diverse nicchie, diversi ambiti, diverse regioni, diversi contesti, ma a volte abbiamo ricostruito cose che avevamo già smontato, ripensato cose che avevamo già fatto perché appunto ci siamo trovati semplicemente a gestire di volta in volta delle situazioni emergenziali diverse.
Oggi, per esempio, come Msf Italia abbiamo messo in piedi tutto un lavoro di analisi delle situazioni – come quella di piazza Indipendenza – di marginalità sociale, di emarginazione, di esclusione sociale, di mancata integrazione, che di fatto sono innumerevoli nel paese. L’anno scorso abbiamo fatto un rapporto che riprodurremo quest’anno, che si chiama Fuori campo, che è la mappatura di tutte le situazioni di insediamento informale, di campi informali, di stazioni ferroviarie, di baraccopoli, edifici occupati. Sono situazioni che denunciano un’incapacità del sistema di accoglienza di coprire tutte le esigenze, un’incapacità di costruire quel collegamento necessario tra la fase dell’accoglienza iniziale e la fase dell’integrazione, e la prova è che ci sono rifugiati, che sono riconosciuti con status di protezione internazionale e che vivono in un edificio occupato nel pieno centro di Roma in una condizione… quasi di nascondimento. Ci sono queste sacche, queste enclaves nelle città e Roma ne ha una quantità impressionante. Stiamo provando a fare un minimo di analisi per capire i bisogni e la situazione, il contesto. Sono persone che per esempio non hanno accesso alla salute, anche se tecnicamente hanno pari titolo agli italiani. Per una serie di barriere amministrative, di barriere linguistiche, per l’incapacità del sistema sanitario di includere, di raggiungere, di erogare i servizi, di fatto si trovano a non avere accesso alla salute, o a vivere in condizioni di emarginazione.
Azioni ad ampio raggio
Oggi c’è un tema centrale che riguarda la difficoltà di definire quella che tecnicamente chiamiamo la popolazione target, la popolazione beneficiaria dei nostri interventi. È una difficoltà connessa al fatto che tutte le formule, anche legali, che vengono utilizzate – a partire da “migrante economico” e “rifugiato”, quelli buoni e quelli cattivi – sono formule che oggi non significano più nulla: hanno un significato da un punto di vista legale, tecnico, ma si basano su strumenti internazionali che hanno costruito i regimi di protezione – a partire dalla Convenzione di Ginevra – che non tengono conto di una situazione come quella attuale, in cui i flussi sono misti e le vulnerabilità sono determinate dalle condizioni in cui avvengono, ad esempio, i viaggi dal paese di origine al paese di destinazione. Una persona che fugge dalla Somalia i benpensanti la definirebbero un rifugiato che ha titolo di protezione. Consideriamo allora una persona che fugge dal Senegal, dalla Repubblica Centrafricana o dalla Nigeria – da una zona che tecnicamente non è in stato di conflito – ma poi fa un viaggio che non è mai lineare, che dura degli anni, che la porta in Libia, che la espone a una situazione di sopruso, di violenza, di tortura, di negazione di tutti i diritti, che la porta magari a essere costretta a imbarcarsi – perché in alcuni casi non c’è linearità e volontà effettiva di fare un trasferimento da un punto A, paese di origine, a un punto B, paese di destinazione. Questo viaggio crea una popolazione di diseredati.
Oggi ci sono a Roma due situazioni di sgombero, c’è piazza Indipendenza e c’è un’altra occupazione sgomberata a Cinecittà. Se tu vai a incontrare le due comunità, da un lato ci sono eritrei con permesso di soggiorno, dall’altro italiani, peruviani, marocchini, rumeni, una popolazione povera… Il vero elemento unificatore è la condizione di indigenza, di povertà, che oggi è diventata un crimine e una colpa da espiare, che accomuna popolazioni diverse. Noi stiamo cercando di entrare in una logica che spazzi via queste distinzioni, che non sono sempre facili da fare, e che ci porti a tornare a concentrarci sul concetto della vulnerabilità, del bisogno, che dovrebbe essere l’elemento che in qualche misura guida l’azione delle organizzazioni umanitarie – perché è il nostro mandato – ma anche l’intervento delle istituzioni, perché dovrebbe essere il loro dovere, il loro compito, la loro responsabilità.
Il mare, un lavoro che non era il nostro
Nel definire le modalità di intervento e le priorità di operazione sull’Italia, c’è anche l’esigenza di tenere sempre aggiornato l’indicatore dello stato di vulnerabilità delle persone e sulla base di quello stabilire degli interventi, in una logica che è da sempre tradizionale di Msf e che non è quella di sostituirsi alle istituzioni, ma semmai di costruire dei modelli che possano essere presi in carico dalle istituzioni. Copriamo dei bisogni primari con una risposta rapida che rimedi a certe carenze, per poi sempre favorire una presa in carico da parte delle istituzioni. Noi non vogliamo costruire un modello di sistema sanitario alternativo, privato, non governativo, vogliamo che il sistema sanitario funzioni e faccia quello che la legge prevede che debba fare, cioè fornire cure mediche a tutti coloro che ne hanno diritto. Su questo la logica è di evitare degli ambulatori Stp (Stranieri temporaneamente presenti) dedicati a una certa popolazione, perché quella popolazione deve avere accesso agli ospedali a cui hanno accesso gli italiani, alle cliniche, perché quella è la logica su cui si dovrebbe basare la presenza di Msf in un paese come l’Italia. Questa stessa logica ci potrebbe portare a parlare anche di soccorso in mare.
Noi non volevamo andare in mare, era l’ultima delle cose che avremmo pensato di dover fare. Perché intanto c’è un paradosso di fondo insopportabile: le morti in mare e i viaggi della speranza, per quella che è la nostra lettura della realtà, sono conseguenza di politiche europee di contenimento sbagliate, che non costruendo delle vie di accesso legali e sicure costringono le persone a mettersi in mano a degli aguzzini e a spendere soldi per fare dei viaggi molto pericolosi, con un’alta probabilità di morire. L’idea che noi mettiamo in piedi un meccanismo per intervenire su politiche sbagliate e – come dire – per cercare di ridurre le conseguenze negative di politiche sbagliate, era qualcosa di assurdo e continua a rimanere qualcosa di assurdo, al netto di quello che è successo in quest’ultimo periodo. Rimane assurdo pensare che noi andiamo ad assecondare una situazione simile! Dopodiché la mortalità in mare era ed è così alta, così inaccettabile, così comparabile a una situazione di conflitto come quelle in cui noi operiamo. In una situazione specifica – quella dell’aprile 2015 – quando dopo la chiusura dell’operazione Mare Nostrum a fine 2014 (sostituita da Triton dell’agenzia Frontex, con un mandato molto ristretto, un’area di intervento ridotta, meno risorse, senza un compito specifico di soccorso in mare) di fatto si crea una situazione con 1.200 morti in una settimana, con due operazioni di salvataggio mal gestite, attraverso l’intervento di mezzi commerciali, imbarcazioni non adatte. Nell’assenza o nella non volontà delle istituzioni europee o del governo italiano di intervenire, nell’assenza di un intervento specifico da parte delle autorità, di fatto abbiamo deciso di iniziare a fare un lavoro che non era il nostro, con modalità – strano a dirsi, dopo tutte le polemiche – per cui Msf ha accettato il livello più alto di coordinamento con le autorità statali. Vuoi per la loro assenza, vuoi per una logica di imparzialità, di indipendenza, di ostinata ricerca di una terzietà, che è alla base del nostro lavoro, non abbiamo mai un livello così stretto di collaborazione. In mare lo abbiamo avuto e lo abbiamo, devo dire anche con molta soddisfazione, nel senso che con la Guardia costiera italiana in questi anni abbiamo imparato a conoscerci a vicenda e ci siamo trovati davanti a un’istituzione dello Stato che come noi ha un mandato molto chiaro, che è il soccorso in mare: prima salviamo le vite e poi viene il resto. Le regole del mare sono universali e in qualche modo stampate nella mente della gente di mare. Da quel punto di vista non è difficile intendersi con un ufficiale della Guardia costiera.
Il soccorso in mare non è la soluzione
Combinando i dati della Marina e della Guardia costiera forse ci si avvicina alla metà dei salvataggi, in realtà è vero che le ong nel 2016 hanno fatto il 28% dei soccorsi. La cifra è un po’ più bassa nel 2015, si è alzata nei primi quattro mesi del 2017 arrivando al 35%. Quindi è vero che le ong hanno avuto un ruolo estremamente importante. Ma il quadro per cui le ong erano i taxi del mare che gestivano tutto il sistema non è veritiero rispetto alla complessità di quello che avveniva in mare, dove però evidentemente avevano un ruolo rilevante e vicario rispetto alle autorità dello Stato, che hanno una responsabilità centrale nelle attività di soccorso in mare. Abbiamo sempre detto e continuiamo a ripetere che il soccorso in mare non è la soluzione. Il soccorso in mare è un cerotto, non dovrebbe esistere. Le regole del soccorso in mare sono state costruite con una logica che è quella dell’imbarcazione in avaria, della nave che in mezzo a un fortunale ha bisogno di un intervento. Non è certo la situazione per cui hai 12mila persone che in un weekend si riversano su barconi non in grado di tenere il mare, generando la necessità di un sistema di soccorso che abbia dei presupposti diversi. Il diritto internazionale non prevede delle logiche di pattugliamento – per così dire – preventivo: si fa il pattugliamento per cercare. Ma qui la logica di funzionamento era di avere dispiegata su quell’angolo di mare una flotta in grado di intervenire riguardo a partenze che erano conosciute, a incidenti noti, non ad accidenti che si venivano a creare. Oggettivamente ci siamo dovuti inserire in un sistema che si era andato sviluppando che è un po’ diverso da quello che è raccontato nelle convenzioni internazionali.
Capro espiatorio di un fallimento
In ogni caso il mare è un sistema iper-regolamentato, quindi l’esigenza di costruire ad arte un codice di condotta è stata un’operazione strumentale rispetto a tutto un percorso di criminalizzazione, di rimessa in discussione dell’intero modello di intervento. Sembra che d’improvviso la politica italiana si sia resa conto della presenza delle navi delle ong. Segnaliamo che erano due anni e mezzo che le navi delle ong svolgevano questo compito, con giornalisti a bordo, con visibilità su tutti i mezzi di informazione e trasparenza rispetto alle modalità di intervento, che erano e sono sotto il coordinamento della Guardia costiera. Quello che è successo, ricostruendo il tutto, credo sia la riproposizione di quanto era già successo a fine 2014. Quando Mare Nostrum venne chiusa dalle autorità italiane fu a seguito di due polemiche. La prima era economica, costa troppo. Ma la polemica iniziale fu l’effetto calamita, l’attrazione, il fatto che la presenza delle imbarcazioni così vicino alle acque libiche comporti una facilitazione delle attività degli scafisti. Questa è un’enorme buffonata! Le argomentazioni che oggi abbiamo sentito ripetere da Frontex e che hanno poi portato alla discussione sul ruolo delle ong e al codice di condotta, sono le stesse identiche argomentazione che la stessa Frontex usò per far chiudere Mare Nostrum. Mare Nostrum si chiude nell’ottobre 2014; qualche nave rimane ancora in mare nei mesi successivi, e dal gennaio all’aprile 2015 si comprova la falsità della tesi del pool factor, del fattore di attrazione. Siamo all’esperimento di laboratorio, alla verifica empirica di quella tesi: tolte le navi di soccorso, ritirata Mare Nostrum, le partenze non sono diminuite, la mortalità è aumentata di trenta volte, per via degli incidenti dell’aprile 2015. Quella del dopo Mare Nostrum è la dimostrazione che il pool factor è una baggianata, e se esiste è insignificante rispetto al push factor, ai fattori di spinta che sono ben più rilevanti e muovono le persone alla fuga. Aggiungo anche – senza essere naif – che è ovvio che i trafficanti tengono conto della situazione, si adattano anche alla presenza di Frontex, all’operazione Sophia, alle politiche di accordo con la Turchia… È ovvio che un’organizzazione criminale adegui il suo comportamento alle mosse fatte da chi cerca di contrastarla. Diverso è arrivare ad assumersi la responsabilità di condannare un meccanismo che salva vite per una logica che è quella del contenimento delle partenze. È questa stessa logica che ci porta a oggi. Quella di oggi è un’altra situazione in cui di fatto hanno voluto cancellare il soccorso in mare, e le ong erano la preda più facile, ma la realtà è che già Frontex e Sophia si erano tirate indietro: negli ultimi mesi le ong avevano un peso importante per il semplice fatto che erano state abbandonate, lasciate sole a fare attività di soccorso in mare.
Poi c’è stata questa campagna di sputtanamento delle ong costruita ad arte. Si è partiti dall’intervista del capo di Frontex nel febbraio di quest’anno che sostanzialmente rivelava questo elemento del pool factor, ripetendo le stesse argomentazioni, per arrivare alle procure e alle accuse di essere taxi del mare, alla commissione d’inchiesta e alle falsità che sono state inventate, le approssimazioni, la grossolana analisi dei fenomeni senza conoscere i dati e i meccanismi. Nonostante le interviste e le audizioni dove la stessa Guardia costiera, la Marina militare, la Guardia di finanza dicevano le cose che chi conosce i fatti dice, smontando tutto questo meccanismo. Poi c’è stata la conclusione di quella commissione votata all’unanimità da tutto l’arco parlamentare e di conseguenza il codice di condotta e tutta questa fantastica inversione della realtà. Abbiamo passato un’estate sulle prime pagine dei giornali, continuando a domandarci: ma di cosa stiamo parlando? Ma davvero? Davvero si può credere a una ricostruzione per cui il problema sono le ong e la soluzione le autorità libiche, e non c’entra nulla il fallimento delle politiche europee e l’ostinata riproposizione della logica della fortezza? Gentiloni ha dichiarato che grazie al codice di condotta si sono ridotte le partenze. La verità è che oggi siamo nella situazione di un’attività di soccorso in mare impoverita, non perché non ci sia la volontà di continuare.
Una politica cinica e colpevole
Noi non abbiamo siglato il codice condotta e abbiamo sospeso le operazioni di una nave dopo le dichiarazioni delle autorità libiche sulla zona di ricerca e salvataggio (Sar) e il divieto di navigazione – un bell’illecito internazionale, un divieto che sarebbe stato imposto alle ong a 90 miglia. Abbiamo sospeso le operazioni per fare delle domande, per accertarci di operare in un contesto in cui, ad esempio, non ci venga richiesto di riportare le persone in Libia perché non lo potremmo fare e non lo faremmo mai. Di fatto l’attività di soccorso in mare è sospesa: questo weekend hanno fatto tre o quattro soccorsi, ma quello che sta succedendo è che sono state bloccate le partenze ed è stata rafforzata la capacità – anche per via della formazione data da noi, delle infrastrutture e delle motovedette consegnate – è stata migliorata la capacità di intercettazione da parte della Guardia costiera libica. Di come tutto questo è stato fatto qualcosa trapela, ma è evidente che forse non erano le ong a essere le più colluse con i trafficanti, e non dico oltre. Di fatto si stanno facendo degli accordi, con il coinvolgimento di vari soggetti – difficile capire chi – per evitare le partenze. Quello che diciamo e nelle prossime settimane diremo con più forza – perché ci stiamo preparando ad alzare ancora di più il nostro posizionamento su questi temi – è che purtroppo il cinismo è arrivato a considerare un successo quell’azione che porta a contenere le partenze, con il vantaggio di ridurre le morti in mare, ma a intrappolare le persone in Libia con la conseguenza indiscutibile di aumentare le morti nei centri di detenzione e nel deserto.
Noi abbiamo ripetuto più volte che non si può non riconoscere all’Italia la difficoltà di dover gestire praticamente da sola una questione che non è un’emergenza, è strutturale, e non è un’invasione, eccetera. Al netto di tutte le cose che ben conosciamo, è vero che l’Italia, per via del regolamento di Dublino, per le relocation che non sono mai partite e tutta una serie di aspetti, è stata abbandonata. Ma la risposta che l’Italia sta dando negli ultimi mesi è una risposta inaccettabile, perché è la risposta di chi – invece di fare una battaglia politica o di trovare altre leve – si spinge a prendere l’iniziativa e rifà cose che l’Italia aveva già fatto: non si può pensare che non c’è una similitudine tra quello che oggi stiamo facendo, esternalizzando i confini, e i blocchi del 2008.
L’accordo bilaterale con la Libia richiama il Trattato di amicizia con Gheddafi, su cui tutta la sinistra in Italia si espresse dicendo che era vergognoso. L’accordo di oggi richiama quel testo, rivivono gli impegni assunti allora. Stiamo formando la Guardia costiera libica e sostenendo le autorità libiche perché svolgano attività di intercettazione in mare. Sappiamo tutto, non si può dire che non sappiamo le conseguenze! Le persone che vengono riportate in Libia o che non riescono a partire rientrano in un circuito di detenzione arbitraria in condizioni disumane. Sappiamo anche che, al netto di tutto quello che le autorità italiane possono dire, non è possibile immaginare che Unhcr (United nations high commissioner for refugees) e Iom (International organization for migration) nel breve periodo siano in grado di costruire delle condizioni dignitose in Libia. INoi che abbiamo una presenza in Libia lo vediamo tutti i giorni in prima persona: non ci sono fisicamente, Iom e Unhcr non hanno personale internazionale che può svolgere in modo continuativo quel tipo di azione. In un’operazione del genere, dove ne va della vita e della dignità degli esseri umani, anche l’ordine della sequenza e i tempi contano. Siamo nella logica di togliere le persone da sotto la pioggia, e dargli un tetto, col rischio che si prendano l’influenza e muoiano – ed è gravissimo – li stiamo rinchiudendo in una casa: diamo loro un tetto, ma la casa è in fiamme e chiudiamo la porta a chiave. E ci gloriamo del fatto che così non si bagnano, ma sono nell’inferno, e l’inferno è la Libia.
Noi non abbiamo mai detto “frontiere aperte”, non è quello che pensiamo, ma c’è una responsabilità politica, legale, umana, di un’azione che non tiene conto della sequenza: prima devi spegnere l’incendio, devi creare delle condizioni dignitose, e poi potrai togliere delle persone dall’acqua. O, ancora meglio, come abbiamo sempre detto, le persone in acqua non ci devono neanche finire, perché il vero tema oggi è che tu devi mettere in piedi dei meccanismi, che consentano alle persone di raggiungere l’Europa, o gli Stati in grado di garantire una protezione internazionale conforme agli standard, senza mettere al rischio la loro vita, potenzialmente senza neanche dover entrare in Libia. La Libia è un paese da evacuazione umanitaria. Chi è un migrante, un rifugiato, uno straniero in Libia è automaticamente a rischio. Ora vediamo i tweet dell’ambasciata italiana che si congratula per il soccorso di mille persone, la Mogherini che è orgogliosa di dire che abbiamo salvato mille persone da morte certa. Anche noi li salvavamo da morte certa, però li portavamo non in Libia ma in un porto sicuro in base al diritto internazionale. C’è questa negazione delle conseguenze degli atti e delle politiche che il governo ha messo in campo, che non è sopportabile. C’è anche questa ipocrisia di fondo per cui dicono che stanno cercando di democratizzare o di stabilizzare la Libia.
Non voglio essere naif, mi rendo conto che il compito della politica è anche quello di pensare in lungo, non è che sia sbagliato in sé un ragionamento sulla stabilizzazione della Libia. Non siamo neanche anime belle che immaginano che questo non debba comportare delle azioni di negoziazione con le autorità esistenti. Però tutto quello che riguarda le persone – e qui non c’entra veramente lo status legale – non può essere gestito con questa realpolitik da quattro soldi. Che sia un fenomeno complesso nessuno lo nega, che i tempi per gestirlo siano lunghi nessuno lo nega, dovremmo anche dire che sarebbe pienamente gestibile perché i numeri sono ridicoli, se confrontati con qualunque stato africano. Parliamo di qualche centinaio di migliaia di persone, per un continente come l’Europa, ricco. Ci sono più siriani a Istanbul che nell’intera Europa, di cosa stiamo parlando? La soluzione che si sta creando, di cui tutti sono contenti, è la riproposizione del modello Ue-Turchia anche nella rotta del Mediterraneo centrale, cioè un accordo disumano e cinico con il dirimpettaio per dire “tienili lì”, sapendo che dirmpettaio è, quali sono le condizioni in Turchia, quali sono state in Grecia e oggi in Libia. È il coronamento della logica della “fortezza Europa”, nel modo più cinico e inaccettabile possibile perché operato da chi ha piena consapevolezza di cosa sta facendo.
La criminalizzazione della solidarietà
Riconosco che forse chi è critico sull’attività delle ong in mare sia stato convinto che quella teoria del fattore di attrazione sia una teoria sensata. Ma la tesi della collusione delle ong con i trafficanti è stata costruita ad arte. Ci sono due idee che sono state vendute a basso prezzo: la prima è che c’è un meccanismo di sbarchi e imbarchi concordati, l’idea che fosse un servizio di taxi, come ha detto Di Maio; la seconda è che proprio la presenza delle ong spinga le persone a partire. La prima è fattualmente falsa, la seconda non è mai stata dimostrata. Sarebbe come dire che in ogni casa dove sotto è parcheggiata un auto dei vigili del fuoco scoppia un incendio. C’è un concetto di causalità che dovrebbe essere approfondito. Questa polemica ha fatto breccia: per me la campagna di quest’estate è stata costruita ad arte con varie componenti, con una straordinaria uniformità tra le forze politiche, con il sostegno dell’Unione europea. Contro le ong c’è stato consenso perché eravamo un vaso di coccio, e perché era più facile darci addosso che dichiarare il proprio fallimento. I mezzi d’informazione, la magistratura: un’insieme di soggetti, più o meno consapevolmente, hanno costruito questa campagna che andrebbe analizzata anche nel quadro più generale di quelli che adesso si chiamano i crimini di solidarietà, la criminalizzazione della solidarietà. Non è troppo diversa dalle minacce, dalle accuse, dalle intimidazioni che hanno raggiunto tanti soggetti che sono il lato bello di questa storia – se vogliamo raccontare anche un pezzo positivo di questi anni: tantissimi giovani, tantissime reti spontanee, che richiamano in qualche modo anche la mobilitazione dei convogli che partivano verso i Balcani ormai trent’anni fa. Anche in quel caso la risposta istituzionale è stata di accuse e condanne; quello che si è fatto in mare contro le ong è un pezzo di una storia più grande, che si dovrebbe raccontare e che riguarda la criminalizzazione di chi non contribuisce a costruire la fortezza.
Sul sito missingmigrants.iom ci sono i dati relativi alle morti in mare, che sono diminuite nell’ultimo mese perché sono diminuite le partenze. Ora diranno che l’assenza delle ong ha comportato la riduzione delle partenze, ma è una baggianata: grandissima fortuna del governo italiano per una contemporaneità delle due vicende, ma è ovvio che se tu hai delle milizie che bloccano le partenze, degli accordi con vari soggetti che ricevono denaro in cambio di partenze impedite, il risultato lo ottieni. Questo in contemporanea con la dinamica delle ong, ma anche qui il rapporto di causa-effetto viene invertito.