Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Madri e figli

15 Giugno 2014
Maurizio Braucci Roberto Minervini

di Roberto Minervini, incontro con Maurizio Braucci

Ho incontrato Roberto Minervini a Sarajevo nell’estate del 2013, quando eravamo lì entrambi per il festival cinematografico. Ci eravamo conosciuti a Karlovy Vari e allora avevo visto due dei suoi lavori e mi erano piaciuti molto, avevo apprezzato anche la sua compagnia e la sua storia di italiano che vive in Texas. Così ho pensato di fargli un’intervista, bevendo una birra mentre aspettavamo di andare a vedere un film. L’intervista aveva come proposito quello di raccontare un giovane regista indipendente negli Stati Uniti.

B: Roberto, aiutami a raccontare in due parole la tua carriera di regista.

M: Ho iniziato nove anni fa, dopo il master in media studies a New York. L’obiettivo era quello dell’insegnamento, tant’è che mi ero già iscritto a un dottorato in Storia del cinema in Spagna, quindi iniziai a lavorare per una casa di produzione di documentari, poi a fare cortometraggi e video musicali… Dopo me ne andai ad insegnare cinema nelle Filippine, dove rimasi due anni. Al rientro negli Stati Uniti mi spostai nel 2007 nel Texas, a Houston, dove ho iniziato a lavorare alla serie di lungometraggi; ho appena completato la trilogia del Texas.

B Tu sei originario di dove?

M: Sono marchigiano. Nato a Fermo, in provincia di Ascoli Piceno – oggi provincia di Fermo – da una famiglia di impiegati ma anche attori teatrali amatoriali, prima ho sempre fatto diversi tipi di mestieri e lavori d’ufficio, per mantenermi, così sono partito tardi, all’età di trentadue anni, per questo lavoro.

B: I tuoi film.

M: Quelli più significativi sono i tre lungometraggi: The passage – Il passaggio, del 2011; Low tide – Bassa marea, del 2012; e Stop the pounding heart – abbastanza intraducibile come titolo; “ferma il batticuore” o qualcosa del genere – del 2013.

B: Partiamo proprio dai titoli. Perché “Stop the pounding heart”?

M: È una frase che ho preso da un discorso che una madre, una protagonista del film, fa alla figlia; durante questo discorso la mamma invoca Dio, chiede di aiutare la figlia, di proteggere la figlia da emozioni e impulsi pericolosi. Quindi da questo “pounding heart”, da questo batticuore, che la figlia da sola, senza l’aiuto divino, non potrebbe fermare. Il titolo così si riferisce a questo sogno, a questa illusione di riuscire a controllare la sfera emotiva e con essa il risultato, diciamo così, delle proprie azioni, della vita.

B: In che modo ciò è connesso alla storia che tu racconti. Parliamo di un film che racconta una comunità presbiteriana…

M: Sì, una comunità presbiteriana di allevatori di capre nei dintorni di Houston; una coppia di fattori con dodici figli che non vanno a scuola e che sono istruiti dai genitori stessi, secondo i dettami della Bibbia, in modo molto stretto, molto integralista per certi versi, ma sicuramente trasparente, onesto. E tra le varie cose il film narra la storia di questa ragazza e dei suoi turbamenti interiori, della sua difficoltà di continuare a camminare sulla retta via.

B: E invece Low tide – Bassa marea, come titolo, è connesso al contenuto?

M: Sì, Low tide invece è la storia del rapporto difficile tra un bimbo di dodici anni e la mamma single alcolizzata e comunque lavoratrice. Il simbolo, l’elemento, dell’acqua, si ripete in tutti e tre i film; in quel caso l’acqua diventa protagonista, come bassa marea, come simbolo di una bassa marea che ci rende… com’è che lo posso spiegare… Quando l’acqua si ritrae ci si sente al sicuro ma al tempo stesso viene a galla l’immondizia; ci lascia una sensazione di sicurezza ma anche di sporcizia. La bassa marea non fa paura ma non nasconde ciò che l’alta marea riesce a nascondere.

B: E invece il primo, The passage… il passaggio è un viaggio?

M: Sì, è un viaggio; è forse il titolo più immediato, di più immediata comprensione, perché fa riferimento a questo… È un trapasso, il passaggio di una donna che sa di dover morire di cancro e come ultima spiaggia va alla ricerca di un guaritore, di uno sciamano, nella speranza di poter essere curata – speranza che non viene esaudita. Questa donna decide di continuare il suo viaggio e durante il viaggio il paesaggio texano si amplia, diventa più esteso e, per certi versi, più dolce.

B: I tuoi film hanno una buona circuitazione di festival, sia europei che non europei; come è cambiato il tuo modo di produrli? Come hai prodotto il primo e come il terzo?

M: Il modo di produrli non è molto cambiato; si è perfezionato, sono riuscito a migliorare questo meccanismo che è comunque molto semplice perché è ridotto all’osso… Ho fatto di necessità virtù, lavoro con cinque collaboratori, con pochissime risorse anche finanziarie, e lavoro con comunità che conosco profondamente. Questo non è cambiato; ciò che è cambiato è il back office: sono ben rappresentato in Francia, e quindi i miei film trovano vie d’uscita, sbocchi sia nei festival che nelle sale, in modo molto più agevole, più facile. Però l’apparato produttivo non è cambiato.

B: Chi sono stati i tuoi finanziatori?

M: Sono stati dei finanziatori privati, ma parliamo di cifre bassissime, di una media di cinquantamila dollari per ogni film. Normalmente, dal trenta al cinquanta per cento lo impronto io, e il resto lo trovo da dei… trovo circa il venti per cento dalla Austin Film Society, una delle poche istituzioni pubbliche americane, ad Austin. Il resto sono donazioni private.

B: Hai fatto dei film che hanno uno sguardo singolare sugli Stati Uniti – l’unico parallelo che trovo è quello di Gianfranco Rosi con il suo Below sea level, dove racconta la California degli hippies da grandi, da disperati – tu hai filmato finora la provincia americana, evidentemente quella texana che è la realtà dove tu abiti. Che significa raccontare il mondo americano da italiano, da europeo, da cineasta indipendente? Te lo chiedo perché il tuo è un modello indipendente, nel senso che non è ufficiale, non è istituzionale, cosa difficile negli Usa della grande industria cinematografica.

M: Innanzitutto la curiosità è che io e Gianfranco Rosi abbiamo lo stesso agente, la stessa persona che ci rappresenta in Francia… Io racconto un’America contro che lotta una specie di lotta endogena, interna, un’America sempre contro le istituzioni, c’è proprio una nevrosi, una paura costante delle istituzioni; e la cosa mi ha sempre affascinato perché io vengo invece da una paese molto istituzionalizzato, cioè l’Italia. Mi piace raccontare questa America, mi affascina raccontare questa America individualista della quale per certi versi sono parte, perché come cineasta il percorso è assolutamente individuale e solitario; in fondo in questa indipendenza americana, che viene spesso anche confusa con un’estrema intraprendenza, ci trovo sempre una grandissima solitudine e quindi molto spirito di sopravvivenza. Però è affascinante, perché è una solitudine ben tollerata, c’è una specie di contraddizione sul nascere di questa solitudine ottimista, di questo ottimismo solitario che gli americani hanno. Io esploro questa America “contro”, sempre sola, che si difende da tutto e da tutti però con un certo ottimismo. È un paradosso che non ho smesso di capire fino in fondo.

B: Questo tema della solitudine e dello spaesamento è un po’ il tema forte dei tuoi film; questo dover trovare la propria patria in sé stessi, in qualche modo, mi sembra forse una facile assimilazione anche alla tua…

M: Sì.

B: Tu vivi in America da…?

M: Tredici anni.

B: Tredici anni. E in fondo ti senti americano o in qualche modo sentirsi americano ha un senso piuttosto vasto?

M: È difficile da dire, perché io mi sono trovato in America mio malgrado – perché mia moglie è americana, quindi…

B: Tu hai la cittadinanza americana?

M: Ho la cittadinanza, però l’intera esperienza americana è iniziata per forza di cose, per necessità, e quindi mai per scelta, neanche la cittadinanza è arrivata per scelta. Sì, sono americano nel senso che questa praticità l’ho imparata in America, decisioni molto pratiche che mi rendono americano; ad oggi sono in grado di prendere decisioni più con la testa che non con il cuore, quindi molto pratico; decisioni sul risultato e non basate sul mezzo. In questo mi sento americano ma allo stesso tempo questo loro modo snaturato, anche molto freddo, di pensare, non mi permette di essere connesso del tutto con l’America e con gli americani… in questo mi trovo un po’ isolato, perché il mio americano un po’ calcolatore va a scontrarsi con la mia natura molto più emotiva e viscerale, italiana. Diciamo che c’è un conflitto interno.

B: Vorrei fare con te una riflessione. L’America è il paese visivamente più egemonico del pianeta. E’ difficile andare per la prima volta negli States e non provare la sensazione di aver già visto i suoi luoghi. Questo tuo sguardo italiano che li racconta come è stato accolto, come viene percepito dagli americani?.

M: I miei lavori sono stati praticamente ignorati dalla critica e dal pubblico americano, non hanno trovato assolutamente sbocchi. Sembra che qualche porta si stia aprendo adesso, grazie ai risultati ottenuti dall’ultimo film, da Stop the pounding heart. Questa forza egemonica dell’America di cui parli deriva anche da una volontà di standardizzazione. L’America è un paese così diverso dal nostro ma è anche la patria del prodotto standardizzato, questa è la sua modalità per conquistare il mercato interno e che funziona senza l’aiuto del resto del mondo. La stessa cosa avviene nel cinema, nell’industria cinematografica che è in mano ai businessmen. Il mercato è molto standardizzato e il mio prodotto non è standardizzato, quindi per adesso non ho trovato interesse da parte degli addetti ai lavori. Curiosamente devo presentare i miei film altrove. Il che un po’ mi ferisce, perché mi sento portavoce di una parte della cultura americana.

B: Cercare di farti produrre i tuoi lavori dall’industria americana è difficile, perché? Perché non sei un regista affermato, inseribile all’interno connotati americani? Come funziona? Tu che sei lì… Per noi che guardiamo sempre all’America come un riferimento, dammi uno sguardo interno, da regista indipendente su questi meccanismi….

M: In America anche il cinema è sottoposto all’equazione costi-opportunità; non cambia niente in confronto ad altri settori dell’economia. E quindi anche lì, le opportunità, dovute anche a cambiamenti della distribuzione, per il cinema d’autore sono sempre minori; le sale cinematografiche stanno chiudendo, ne esistono pochissime per il cinema d’autore; qualcosa c’è a New York. Il gioco non vale la candela, i costi superano sempre le opportunità, per un cinema del genere; sono sempre meno quelli che investono e producono nel cinema d’autore. Quindi sembra che ci sia l’oblio in America per questo cinema, non esiste assolutamente possibilità se non l’autoproduzione. Dovrei cambiare la formula per rientrare in questa equazione e nella logica costi-opportunità dei produttori americani. Io non vedo sbocchi. Comunque esiste un movimento underground… diciamo che esisteva… quello forte negli anni ’80, soprattutto a New York, che chiamavano “sinema”, con la s, quindi un cinema quasi peccaminoso, un movimento che prova… gente come Nick Zedd, tanti altri; un movimento punk rock, quasi, fai da te, che si era creato un circuito proprio. La Antology Film Archives è la sala simbolo di questo movimento underground, autoprodotto e autodistribuito. Oggi sta ritornando qualcosa del genere, ma a parte questa forma non esistono secondo me altri sbocchi.

B: Sta ritornando questa necessità indipendente produttiva?

M: Sta ritornando, sì, l’underground d’urto. La necessità di ricreare un sistema di autoproduzione e autodistribuzione a basso costo.

B: Vorrei che tu raccontassi il mondo americano con cui ti senti più in sintonia. Ci sono degli altri registi, delle occasioni, dei circuiti con cui tu ti identifichi di più rispetto a quel cinema americano che noi siamo abituati a vedere da lontano, più baluginante?

M: Sinceramente non molto. Ci sono dei registi, acui facevo riferimento, molto underground, soprattutto la scena newyorkese. Però ecco è un giro, un circuito, di registi, un gruppo di registi, che trova pochissimi sbocchi in America; tutto limitato poi ai circuiti dei festival, festivalieri, con pochissima distribuzione, quasi inesistente. Per il resto credo che quasi tutti i registi abbiano poi compiuto il salto verso il mainstream; prima parlavamo di Gus Van Sant, partito da film assolutamente indipendenti, quella era la scena di San Francisco e dintorni degli anni 60’ e 70’, ormai morta. Van Sant poi s’è adeguato, s’è sempre barcamenato fra il mainstream e l’indipendente. Compromessi inevitabili ma comunque lontanissimi dal mio tipo di cinema.

B: Parliamo del Texas che mi sembra un po’ il territorio che tu racconti. Territorio contraddittorio, forse con più sfumature di quanto noi riusciamo a vedere da qua, perché poi il Texas è un po’ il luogo della matrice più conservatrice americana, dei redneck etc. Tu cosa ci scopri, cosa ci vedi?

M: Il Texas è anche la terra del benessere, ovviamente: petrolio e ricerca medica sono le punte di diamante. L’influsso di stranieri è sempre maggiore ed esistono città fortemente democratiche come Austin, e Houston che ha persino un sindaco lesbica, caso sicuramente unico in America. Ci sono anche sacche di progressismo fortissime, che convivono con una certa difficoltà con le sacche di conservatorismo.

B: A me pare che tu sia più interessato a raccontare…

M: … A raccontare quelle. Però c’è una fortissima tolleranza nel Texas tra le due parti. La chiave della convivenza è non interferire, non andare a manipolare la voce degli altri, dei conservatori; anche se mi pongo da progressista, io do loro voce, quasi do loro il microfono e la camera per raccontare le loro storie, senza grosso giudizio da parte mia. Ma non è un approccio unicamente strategico: veramente riflette ciò che penso, per me c’è sempre una ricerca personale grossissima in questi lavori e c’è un rispetto… insomma riesco a capire anche la logica del pensiero conservatore. È una logica che, come quella dell’autodifesa, necessita di un maggiore approfondimento da parte mia; in parte sta facendo cadere delle certezze che avevo. Il discorso dell’autodifesa, quindi delle armi, ha ovviamente una storia profondissima, che parte dal periodo del vecchio West, ma ha anche una sua logica in un contesto attuale dove si reclama l’autonomia dalle istituzioni. Questo mi porta a riflettere, sembra agghiacciante dirlo!, questo necessita della mia riflessione. Queste storie sono la mia volontà di riuscire a dare risposte a queste domande, agli integralismi…

B: Che cosa ti appare più chiaro o che cosa hai dovuto cambiare nella tua visione?

M: Che questo modo anche un po’ folle di funzionamento di queste comunità – ad esempio quelle dei religiosi, quasi recintati, fisicamente e ideologicamente, che si costruiscono steccati intorno per protezione- sono comunque piccole società autoctone che funzionano a loro modo. Con bambini piccoli che devono entrare nel mondo dell’istruzione, nelle scuole… questo mi cambia… non saprei cosa… sto valutando anch’io l’istruzione a casa per i miei figli, non sono più sicuro che quella pubblica americana, con programmi molto obsoleti, valga più dell’istruzione domestica.

B: Però quella è un’istruzione religiosa.

M: Non è necessario farla religiosa, ci sono programmi ai quali ci si può attenere. Potrei fare un’istruzione di qualche altro tipo, di qualche altro tipo di ideologia, che in effetti viene a mancare in una istituzione così neutra come quella americana. È un modello che potrebbe funzionare.

B: E oltre a questo? Per esempio la questione delle armi?

M: Ecco, è quello a cui stavo pensando… Sono temi difficili, sono molto combattuto. Quando i texani mi parlano delle armi come estensione della mano di Dio, per rieducare il male, la loro volontà di punire chi fa del male ai propri familiari, con questa difesa strenua della loro famiglia.. questo è agghiacciante, è difficile, fa paura, perché la difesa dei diritti personali è in mano alle istituzioni. Però al tempo stesso, per certi versi, se venisse fatto del male ai miei figli, mi farebbe comodo vivere in un sistema in cui potrei farmi giustizia da solo e non venir punito; è un modo barbaro, primordiale, di pensare, che per certi versi, in modo agghiacciante, mi sembra logico; fa paura pensare che potrei farne parte, potrei adeguarmi a un sistema del genere; però per certi versi forse potrei.

B: Lo trovi un aspetto dell’animo umano?

M: Sì, una mostruosità che è parte dell’animo umano.

B: Anche la protagonista del tuo Stop the pounding heart vive una contraddizione con questo, c’è una messa in discussione…

M: Sì, la protagonista così inquieta ma illibata, anche moralmente ed emotivamente illibata, è capace di destreggiarsi con un fucile d’assalto dell’esercito americano – la AR15… e comunque anche lei trova delle difficoltà, appunto, anche lì, a percorrere questa retta via, che è un’illusione, che non è poi così chiaramente marcata. Mentre il discorso delle armi è soggetto ad interpretazione, i genitori della ragazzina non fanno altro che continuare a tracciare questa retta via che è una loro chiave di lettura della Bibbia così come delle regole e delle leggi americane. È un po’ quello che sta succedendo nel Mid West americano, una costante reinterpretazione delle regole. In Texas c’è una sempre maggiore tolleranza degli omicidi per difesa personale; l’impunità per difesa personale è costantemente reinterpretata. Sì, la ragazzina è il simbolo di queste contraddizioni.

B: Qual è l’opinione di queste comunità sulle stragi fatte da ragazzi che hanno assaltato le scuole?

M: Io ho girato ottanta ore di materiale per questo film e dentro ci sono molti dibattiti su questi temi. La famiglia dei cowboy parla chiaramente della responsabilità indiretta di Obama – anche se loro la chiamano responsabilità diretta –nelle stragi, perché se i cittadini fossero tutti armati queste cose si eviterebbero con maggiore facilità. I personaggi protagonisti del mio film facevano riferimento esplicito alla strage di Aurora, nel Colorado, durante la prima della proiezione di Batman. Si diceva che se tutti fossero stati armati l’assassino sarebbe stato eliminato e la strage evitata.

B: Quindi un far west diffuso.

M: Sì, un far west diffuso ma per certi versi…

B: Ma c’è un tentativo di coprire una propria contraddizione.

M: Sicuramente. L’America è il paese principe per quanto riguarda la soluzione di problemi piuttosto che la prevenzione. Persino nell’industria automobilistica l’America è sempre stata bravissima a curare piuttosto che a prevenire. È un modo anche molto efficiente di funzionare. Se tutti fossero stati armati l’assassino sarebbe stato eliminato. Su larga scala non credo che quella sia la soluzione dei problemi, però a livello micro il problema sarebbe stato risolto; è un modo efficiente e perverso di vedere le cose che accadono in America.

B: È un caso di dissonanza cognitiva: recuperare una distanza enorme tra la propria condizione e gli effetti che questa condizione porta.

M: Anche tra la propria condizione e quella collettiva: in America il modo collettivo di pensare non esiste, non c’è la coscienza collettiva, quindi la difesa del proprio territorio e della famiglia si sposnoa benissimo con l’individualismo americano. Sicuramente in Texas non esiste una coscienza collettiva per quanto riguarda il paese e lo stato federale

B: Ma per te l’America è un territorio di conferme o di scoperte?

M: Per me è un territorio di scoperte, ma scopro costantemente delle conferme, continuo a scoprire delle piccole conferme a seconda dell’ambiente in cui mi muovo. La mia prossima scoperta… andrò proprio alla ricerca di queste altre conferme, di questi dogmi che esistono fra il Texas e la Louisiana. Ci sposteremo verso sud-est, dove c’è un modo diverso di agire anche verso il sesso minore, il sesso debole, le donne (e con gli animali); un sistema ancor più barbaro di vivere, più razzista, di razzismo legittimato, in base al quale il sistema funziona. La legge del più forte, un’autoselezione culturale più che naturale, che avviene, che tiene in piedi un sistema che è quello appunto della Louisiana del sud – non posso approfondire di più il tema perché sono in procinto di farlo, con il mio nuovo film. Quindi una scoperta costante di certezze.

B: E riguardo a ciò che hai indagato, quali sono le fobie, le paure, di queste persone?

M: La paura maggiore, che non è poi un segreto, è la perdita delle libertà individuali a causa di questo mostro centralizzato, il governo nazionale; c’è una fobia nei confronti delle istituzioni e una mancanza di fiducia. A volte mi chiedo come facciamo noi italiani a mantenere una certa fiducia nel controllo centralizzato quando l’Italia repubblicana ci ha tradito costantemente nel corso della storia. In America c’è una sfiducia totale verso il governo centrale.

B: E sul razzismo, sugli stranieri, il Messico, i messicani, la frontiera… come vengono percepiti in America?

M: Nell’America del sud ci sono i pattugliamenti cittadini nelle frontiere, soprattutto nell’Arizona, dove ogni americano si fa giustizia da solo; a fin di bene perché per bene si intende la comunità, una logica perversa che fa paura ma una logica che esiste, a livello microscopico, nella comunità. Nel caso dell’Arizona, delle città di frontiera, l’eliminazione del nemico funziona e permette alla comunità di vivere felicemente, attraverso un ritorno al vecchio west, alla frammentazione dei territori, ai valori arcaici.

B: Ma ci sono tanti messicani là, c’è immigrazione in quella zona. Come viene vissuta?

M: Rimangono al margine della società, vivono nel sottosuolo. I messicani spesso ricoprono i ruoli più bassi della società. Quindi l’integrazione non esiste; è avvenuta con altre comunità, come quella cinese – la storia dell’immigrazione cinese è completamente diversa, legalizzata, il veicolo era quello dell’istruzione e non quello della sopravvivenza, cioè i cinesi che venivano in America venivano a studiare; la Cina è oggi un paese ricco di capitali, e qui ci sono molti investimenti cinesi- Grazie ad una legge chiamata EB5 stanno arrivando molti lavoratori cinesi per vie legali. E’ completamente diverso dal fenomeno messicano.

B: Quindi se tu vieni in America e investi un ammontare…

M: … di minimo un milione o mezzo milione di dollari, dipende dai territori, l’investimento è a nome del cittadino cinese e al cittadino cinese viene assegnata automaticamente la residenza americana.

B: Non la cittadinanza.

M: La residenza: ci vogliono cinque anni di residenza per ottenere la cittadinanza, ma è il primo passo verso la legalizzazione. Cosa che invece non è avvenuta per i paesi del Centro America, per i paesi poveri del Centro America.

B: Nel senso che potrebbe avvenire anche per loro se investissero.

M: Sì, però per i paesi del Centro America non c’è la possibilità. Quindi c’è una grossa tolleranza verso l’immigrato asiatico, perché arriva con il capitale.

B: Quindi un favoritismo verso il capitalismo straniero ma non verso le manovalanze.

M: Sicuramente, e questo è ben dichiarato. È una manovra americana questa EB5 per favorire l’afflusso di capitali stranieri da paesi abbienti.

B: E questo sul piano governativo è legale, ma poi sul piano di vita comunitaria queste stesse persone garantite, accolte, dalla legge, come vengono percepite dalla gente, dalle persone?

M: Si parla di classismo, più che di razzismo, in America. La comunità asiatica riesce a integrarsi perché viene con le risorse economiche necessarie.

B: Cioè il redneck verso il cinese benestante non ha problemi.

M Io nelle mie comunità ho trovato redneck cinesi che suonano con i bluesmen locali, quindi il problema razzista comincia ad essere un po’ datato, è una maschera che nasconde il più serio problema di classe, che è vivissimo in America.

B: E verso i neri?

M: È la stessa cosa. Infatti è per quello che gli americani lottano contro l’affermative action che dispone un accesso percentuale agli svantaggiati, quindi ai neri, nelle scuole e in certi ambienti di lavoro come quelli pubblici. E’ una legge contestatissima da certi schieramenti politici; la matrice vera di quella opposizione non è il razzismo ma il classismo: non si vuole lo sviluppo della classe più bassa, che è quella tradizionalmente occupata dai neri..

B: Una domanda sul tuo prossimo progetto. L’impressione è che il tuo sia un cinema fatto soprattutto di domande, sul bisogno di comprendere, di trovare dei punti fermi o dei chiarimenti. Rispetto ai tre film che tu hai già realizzato, il prossimo cosa sarà? In qualche modo seguirà uno sviluppo…

M: Sì. Continuerò con questo cinema di ricerca personale, quindi di domande. Probabilmente la differenza è che dopo cinque anni e mezzo nel Texas incomincerò a darmi delle risposte. Continuerò a pormi domande, quindi lascerò aperte delle questioni di cui non conosco le risposte, e contemporaneamente cercherò di dare le risposte che invece mi sono dato in questa ricerca che ormai dura da anni. Ad esempio delle risposte riguardo al discorso delle armi: una mia posizione che probabilmente diventerà più esplicita; meno neutrale rispetto agli altri tre film. Porrò delle domande ma risponderò ad altre; da questo punto di vista credo di discostarmi dalla trilogia, che considero un capitolo chiuso.

B: Come si realizzerà?

M: Girerò nel territorio della Louisiana, a cavallo tra la Louisiana e il Texas, con una comunità di maschi.

B: La Louisiana dovrebbe essere un altro mondo rispetto al Texas…

M: Sì, perché la differenza di classe e la lotta di classe è più viva, perché la presenza dei neri è maggiore e l’odio dei bianchi cresce in confronto al Texas che è uno stato molto più redneck, più bianco. La Louisiana è uno stato molto più spaccato, lavorerò con i redneck della Louisiana, con bianchi molto più aggressivi, violenti, classisti e sessisti; sarà un film molto più esplicito, brutale, violento, e con delle manipolazioni di fiction da parte mia altrettanto violente. Un film incentrato proprio su questo modo barbaro, primordiale, di vivere, inerente in parte alla natura umana quindi molto molto fisico, sicuramente un film molto più fisico e d’urto.

B: Avevamo citato Rosi per un percorso simile al tuo, poi Rosi adesso ha realizzato un film che mi pare vada a Venezia, su un tema assolutamente italiano che è il Raccordo Anulare di Roma; senti in te anche una spinta del genere, di ritornare un po’ alla lingua madre…

M: Ma sì, la sento, la sento da tempo; per me però la prerogativa è quella di essere parte di una comunità, cioè di venirne a conoscenza, di esserne parte integrante, prima ancora di cominciare a girare. C’è quell’ostacolo: dovrei prima fare il passaggio personale, ritornare in Italia, con un’integrazione personale da qualche parte per poi iniziare a girare; quindi c’è questo gap temporale che non so ancora come colmare. Avrei bisogno di guida e appoggi, però ci sto pensando, sempre di più, sto cercando di aprire quelle porte. E credo che il mio futuro sarà lì.

B: È una domanda diversa da quella che ti stai facendo rispetto al Texas, o comunque è in continuità?

M: Ne parlavo prima, di questa specie di adeguamento storico dell’italiano a un sistema corrotto e di welfare fallimentare… mi piacerebbe andare a scoprire questa natura più viscerale dell’uomo italiano – che in parte io trovo repressa – che quando sfocia lo fa spesso in canali già istituiti come quelli della criminalità; l’agire individuale che trovo in America mi piacerebbe andarlo a cercare in Italia. Lì esistono sacche quasi autogestite, me ne parlavi anche tu, come in Campania, dove esistono comunità in fondo autogestite, mi piacerebbe andare a esplorarle, vedere come funzionano; in parte mi fanno pensare alle comunità autogestite del Texas.

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