Lei, leib: questo corpo che vivo
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Nel 1975 Maricla Boggio realizza il primo telefilm femminista, andato in onda sulla Rai nel 1976. Il titolo di quello che forse oggi definiremmo un documentario è Marisa della Magliana e racconta la storia di Marisa Canavesi, una donna di classe popolare, immigrata dalla campagna laziale a Roma e della sua vita prima nelle baracche di Prato Rotondo e poi nel quartiere della Magliana. Qui Marisa incontra un uomo, si sposa, ha un figlio, viene abbandonata, poi incontra un altro uomo, aspetta un figlio da lui senza matrimonio, lui l’abbandona e lei decide di tenere il bambino pur nello stigma di allora (e ancora di adesso) delle donne che hanno figli da sole. Nel frattempo vive, lavora come donna delle pulizie a ore su e giù per la città, cresce i suoi figli, diventa donna e l’infrangersi del sogno d’amore la apre alla coscienza sociale. Incontra il prete operaio Gerardo Lutte, la sua scuola popolare a Prato Rotondo prima e il centro di cultura proletaria alla Magliana poi, partecipa alle lotte per la casa dei baraccati, frequenta la scuola delle 150 ore, impara a leggere, incontra assistenti sociali che accompagnano le aspirazioni di miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti nel nuovo quartiere, partecipa alle assemblee femministe e al consultorio autorganizzato. Tutta la sua vita è piena di speranza, di abbracci ai suoi figli, di gesti quotidiani mai meccanici, mai alienati, affaticati sì, ma che non perdono mai il senso delle cose, il fine del vivere.
Una delle prime domande che Maricla Boggio fa a Marisa mentre la segue nella sua giornata è: “Tu sei una ragazza madre, vogliamo sentire da te…” , Marisa la interrompe: “Una madre sì, una ragazza non tanto”.
In effetti Marisa non ha l’eterea leggerezza che, nel nostro immaginario, definisce il corpo di una ragazza. Le donne di certe classi sociali sono ragazze per un battito d’ali, forse solo mentre da bambine si fanno corpi femminili; poi vengono catturate dentro l’immagine massiccia di madri di famiglia e il femminile diventa una catena pesante, un ancoraggio a certa vita difficile, a certi lavori che tolgono il sonno, le forze e spesso anche la salute.
Il corpo che il femminile di certe classi può curare, manutenere, allenare, rarefare dai segni, standardizzare all’immaginario dominante del mercato di cui siamo tutte un po’ succubi, ci dice non solo chi siamo, ma anche da dove veniamo da generazioni, cosa abbiamo intorno, qual è il nostro habitat di vita. È un corpo plasmato dall’ambiente materiale e sociale, che non determiniamo se non in minima parte, al di là dei discorsi della medicina moderna votata al culto del farmaco e dell’ideologia del benessere.
Anche Husserl ha parlato dell’esistenza di due realtà rispetto al corpo: il korper che è il corpo oggetto, l’avere un corpo, con certe misure, dimensioni, e che occupa uno spazio, e il leib, il corpo che percepisce l’ambiente, il corpo che sono, che vive. Si dà molto spazio nei discorsi femministi di oggi alla soggettività, in questo dialogo fra la carne viva, i pensieri e le domande su chi siamo l’una in relazione all’altra e cosa diventiamo insieme.
Abbiamo fatto delle conversazioni su corpo, salute e identità nella scuola popolare per le donne nel quartiere periferico di Bologna dove vive la scuola. Un quartiere che è rimasto come un atollo fra il mostro urbano che avanza dal centro della città vestito da gentrificazione e stretto dall’espansione cementifera senza fine sulla campagna alle sue spalle.
Khadija: oggi non mi sento bene, mi fa male la testa, non riesco a scrivere.
Fatima: eh, sono i pensieri, vuoi un Oki?
Va avanti così per un po’ di volte, le signore si scambiano bustine di Oki che prendono senza nemmeno bere. Quando si cerca di capire cos’è questo malessere, quali le sue cause, dove sia localizzato nel corpo, emerge che le donne non sanno distinguere né nominare in italiano le parti del corpo e che nel gruppo abbiamo concezioni diverse delle funzioni degli organi. Il non saper dire il proprio corpo genera una difficoltà a comunicarlo, a spiegare i propri malesseri e quindi anche ad essere credute, a trovare traduzione del proprio stato attraverso saperi medici che risultano fondamentali per poter dare riconoscimento – e quindi anche cure – al vissuto dello star male.
Khadija: è un male che cammina nel corpo, si sposta.
Questa difficoltà a concettualizzare e ad esprimere il male/malessere porta le donne a fare ricorso continuo a farmaci da banco – prescritti come consolazione alle parole incerte del malessere – con blande azioni antidolorifiche non specifiche, che non risolvono il male ma che hanno comunque controindicazioni sul lungo termine di cui le donne non hanno conoscenza.
Propongo un percorso per “dire il corpo” provando a ragionare sull’origine dei mali che su di esso si percepiscono e si proiettano. Per fare questo non ci serviamo di immagini troppo raffinate, di rappresentazioni mediche del corpo umano, ma partiamo dalla costruzione di un nostro “feticcio pedagogico”: un disegno abbozzato del corpo umano. Le donne decidono di non farlo né maschio né femmina e il lavoro inizia dagli organi interni. Poi un giorno arriva a scuola Alina e dà al nostro feticcio un titolo: “Ciccio e i suoi organi”.
Alina vive in una casa popolare al Pilastro. La casa in cui vive è stata assegnata ai suoi suoceri, migrati dal Kossovo durante la guerra alla fine degli anni ’90. All’inizio nella casa vivevano: il suocero, la suocera, Alina, il marito e i loro 5 figli. Alina non è mai andata d’accordo con sua suocera: si è ritrovata a fare la domestica per tutta la famiglia, sotto il comando suo e del marito, controllata in ogni spostamento. Ecco perché, dopo 20 anni in Italia, non parla ancora bene la lingua. Il figlio maggiore si è sposato mediante un matrimonio combinato con una ragazza proveniente dal Kossovo. Hanno avuto due figli maschi ma sono rimasti a vivere in casa con Alina e i suoi suoceri (cioè i nonni). Poi anche altri due figli maschi di Alina – l’ultimo ha 17 anni ed è ancora iscritto alla formazione professionale – si sono sposati e hanno avuto dei figli; tutti sono rimasti a vivere nella stessa casa. Mancando lo spazio, il marito di Alina ha fatto sposare la prima figlia. Alina, che aveva in questa figlia un’amica ed un’alleata, è rimasta sola con diverse nuore la cui responsabilità di controllo (come comportarsi in casa, con chi parlare, quando e con chi uscire e spesso non uscire) ricade su di lei. Adesso in casa abitano 15 persone, 5 diversi nuclei familiari, ma gli unici che mantengono i requisiti per la casa popolare sono i suoceri di Alina. Lei e tutti gli altri figli con famiglia sono in lista per una casa che non è arrivata in nove anni di attesa. È per questa negazione del femminile che il corpo che vede Alina è prepotentemente maschio anche se siamo in una scuola di sole donne?
Si parte dalla testa: disegniamo il cervello come l’interno di una noce, una spirale che si può aprire tirandola con un filo. In dialetto arabo marocchino, infatti, la parola è “ghargoil”, il cervello è una noce e si procede a fare associazioni sui modi di dire “testa dura”, sul significato dell’essere ostinati e sulle sfumature positive e negative della parola. Come al solito si mescolano cose materiali e cose simboliche. Cosa c’è nella testa? Ci sono i pensieri, il pensiero di cosa cucinare, i pensieri negativi, le cose da fare, le preoccupazioni che vengono dai figli.
Apriamo la spirale del cervello ed ecco una serie di riflessioni su espressioni come mente aperta, avere la testa fra le nuvole, essere fuori di testa, e sui significati che le donne attribuiscono a queste immagini. Scopriamo che ognuna ha sperimentato su di sé questi stati della testa.
Le signore vogliono mettere subito il fegato, viene ritagliato da un cartoncino marrone, si discute sulla sua forma, diciamo che è una ghiandola e non un organo e come tale è insensibile. Le signore non sono d’accordo e raccontano. Il racconto è confuso e ognuna aggiunge un pezzo, alla fine si arriva a questa formulazione: Una madre italiana può chiamare il proprio figlio “cuore mio” perché nella cultura occidentale il cuore è il centro, l’organo più importante del corpo umano, quello che sentiamo perché dà il ritmo alla nostra vita. Una madre marocchina si riferisce invece ai figli chiamandoli kabdi, “mio fegato” ed è un modo solo femminile di chiamare i propri figli, siano essi maschi o femmine. Questo perché il fegato è considerato l’organo centrale della vitalità, l’organo che produce il sangue e quindi la linfa vitale ed è legato alle particolari immagini che nel Corano descrivono le fasi della gestazione.
Le immagini e le parole dell’intimità, delle emozioni e dell’affetto sono intraducibili e spesso rivelano schemi e concezioni del corpo culturalmente e storicamente diverse. Si scherza un po’, adesso ci chiamiamo fra di noi kabdi, perché ci siamo care.
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Alina un giorno dice che al “Ciccio e i suoi organi” manca la cistifellea. Quando le chiediamo come mai questa parte del corpo è importante per lei, dice perché me l’hanno tolta, avevo i calcoli alla cistifellea. Aggiungiamo la cistifellea vicino al fegato e parliamo dei calcoli renali, di quale tipo di disturbo digestivo causano, di quali sono i segnali e di come prevenire il problema con una dieta corretta. Analizziamo anche il nostro regime alimentare scrivendo cosa si è mangiato durante la giornata di ieri e cosa in genere si mangia.
Batull racconta che non è semplice cucinare dove lei vive: un centro per l’emergenza abitativa dove la cucina è comune e a turni, bisogna sbrigarsi, non ci si può perdere in lunghe preparazioni e in mille passaggi in pentole diverse. Anche questo è un problema che ostacola la conduzione di una dieta sana. Diverse donne si riconoscono nello stesso problema di Batull. Centro di accoglienza CAS, alloggio di transizione, struttura per l’emergenza abitativa, comunità mamma-bambino: la casa si chiama in mille modi, abitazione o residenza sui documenti o nelle parole dell’assistente sociale. Ma quella che è rimasta nel paese di provenienza è sempre la casa, anche quando ci si vive lontani e si abita solo col pensiero.
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In città il Centro di Salute Mentale ha invitato le associazioni e le realtà del territorio ad organizzare per la giornata internazionale della salute mentale una serie di tavole rotonde di discussione.
Siccome molte signore non parlano bene la lingua, decidiamo di prepararci a questa assemblea-incontro facendo un lavoro fra di noi sulla salute mentale. Alla fine del primo incontro la scrittura che viene assemblata è questa:
Esiste una salute del corpo e una salute della vita. Nella salute della vita c’è l’essere trattate con gentilezza, avere una casa decente, avere non un lavoro ma un buon lavoro, pagato giustamente, avere spazi in cui potersi ritrovare senza paura. Essere felici significa vivere in pace. Avere un libro, studiare ci aiuta a stare bene, capire il mondo e le cose, a non essere considerate sempre nulla dentro la famiglia perché non capiamo questa lingua, come fare le cose. Stare bene significa esserci e non vivere sotto la minaccia costante di non poter restare.
Le condizioni di lavoro, le relazioni, la qualità dell’abitazione, le condizioni politiche, il ruolo sociale, la cultura, lo status giuridico sono le questioni che per le donne della Scuola costituiscono la base della salute mentale. I documenti dell’OMS, l’antropologia medica e la medicina più progressista li chiamano determinanti della salute. Tuttavia, è difficile portare questo discorso così immediato per le donne all’interno dei servizi sanitari con le loro parole. Torna la questione del male che cammina, che è un sintomo della propria condizione sociale incorporata.
Spesso le signore portano a scuola confusi fasci di documentazione medica a cui non sanno trovare un ordine o una logica. Una delle attività principali degli insegnanti è diventata quella di provare a riordinare, capire e tradurre per le signore la loro storia medica. Attraverso l’analisi di questi documenti si scoprono molte cose: le mutilazioni genitali femminili che alcune hanno subito da bambine e che complicano moltissimo le gravidanze attuali; l’esperienza dei tumori femminili; problemi ginecologici non monitorati; disturbi legati ad una alimentazione poco naturale, troppo ricca di zuccheri e di grassi; problemi cronici che dovrebbero essere affrontati con cure fisioterapiche e che vengono tralasciati perché è difficile prevenire quando le condizioni di vita sono precarie.
Si discute con le signore e con gli educatori di questa situazione: che cos’è la salute? Che cos’è la malattia? Guarire cosa significa? Gli educatori ci segnalano un’ostetrica che da tempo lavora nel quartiere e che, in distacco dal consultorio, visita a domicilio le donne in gravidanza nel rione.
Con il loro aiuto ci organizziamo per invitarla a scuola. È una ostetrica di grande esperienza e di chiaro orientamento al lavoro di comunità: insieme decidiamo che una volta al mese raccogliamo tutte le questioni sanitarie, gliele anticipiamo via mail (la prevenzione dei tumori femminili, l’autopalpazione del seno, la menopausa, l’utilizzo di integratori e rimedi naturali per evitare l’abuso di antidolorifici, etc.) e lei viene a scuola per discuterne in modo collettivo e per orientare alcune signore sui propri bisogni individuali. Le donne sono molto contente di questa presenza, della possibilità di rivolgere domande in una situazione informale, senza il timore di non essere comprese, così come di ottenere procedure semplificate per gli appuntamenti e le visite di controllo, che in genere l’ostetrica prenota per gruppi in modo che, andando fra amiche, possano anche aiutarsi facendo fra di loro mediazione linguistica. Anche quando la mediatrice è una donna infatti ci si può sentire giudicate se non è una amica e parlare di sé diventa imbarazzante.
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È l’8 marzo, la giornata internazionale della donna. Tutte le donne lo sanno, è una data molto sentita, in tutti i loro paesi c’è una celebrazione, un evento, una marcia. Discutiamo su che cos’è una marcia, sui significati che le diamo, sul valore che ha occupare insieme lo spazio pubblico e su come si comunicano i propri messaggi, proteste e richieste politiche. Analizziamo i simboli dei movimenti delle donne, le parole che li identificano. Patriarcato è una parola difficile, non ci intendiamo molto sul suo significato. “Io sono mia” è lo slogan più semplice, più chiaro: “Non sono del padre, del fratello, del figlio, del marito, nemmeno di mia madre: siamo con loro, è giusto che possiamo sceglierlo, ma siamo anche nostre”. Mio, tuo, io sono fra le cose più difficili da spiegare della lingua. In arabo c’è una parola per dire io al femminile ed una per dire io al maschile. Nel concetto di essere nostre parliamo della costrizione e della violenza che a volte permea i rapporti anche familiari e di coppia quando intesi in termini di possesso.
Rachida non è d’accordo; Se ami una persona e la consideri tua, non la rovini, vuoi farla vivere bene, vuoi che stia bene, non vuoi costringerla, la mantieni bella, vuoi che sia felice.
Cura e amore coniugale sono la stessa cosa, la violenza è incuria. Nessuna confonde violenza e amore, come spesso i progetti di prevenzione della violenza a loro rivolti le rappresentano: sottomesse, incapaci di discernere. Il problema è piuttosto immaginare alternative sostenibili per donne che spesso dipendono economicamente dai mariti, la cui stessa presenza in Italia è legata a ricongiungimenti familiari. Anche l’indifferenza è violenza dentro una relazione, dice Rachida.
Quando passiamo a cucire delle spille di stoffa che oggi ci rappresentano ognuna porta il cartello “io sono mia”, ma siamo tutte diverse. Mi sorprende sempre che le donne che portano il velo si rappresentano con i capelli sciolti, io non le conosco in questa immagine che conservano di sé e nei loro spazi più intimi. Ci sono dimensioni della loro femminilità gioiose ma sempre invisibili, qualcuna fa il suo pupazzo-spilla con le gambe: anche queste, mi ritrovo a pensare, non le vedo mai. Zineb si realizza come un viso rotondo su un triangolo monoblocco che è il suo vestito di velo e djellaba: non ci sono né capelli né gambe, ma solo attraverso i tratti disegnati del viso somiglia buffamente a sé stessa. È chiaro che è Zineb con le sue sopracciglia folte, tutte ridono per il colore arancione fluo del triangolo che sorregge la testa. Al di là dell’abito e del velare il proprio corpo dagli sguardi pubblici, la soggettività, la personalità, l’identità emerge sempre: io sono mia, trovo il modo per esserlo sempre. Hasma che è giovane, studia giurisprudenza e svolge il servizio civile nella scuola: trovo irritante questa ossessione per il velo, qui vedi le altre donne che vedono solo questo di noi… youhu! Mi vedi? Sono qua sotto! E non mi guardare come una poveraccia sottomessa, questo velo l’ho messo io, l’ho scelto io.
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Sul lebendes Fleisch (la carne viva) – materiale, simbolica e sociale – che siamo e che ci trasciniamo dietro di generazione in generazione a prendere parola da certe vite si cambia l’ordine del mondo.