La zona d’interesse, le dalie e noi
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De La zona d’interesse, ultimo film di Jonathan Glazer, molto si è già parlato e, a guardare dalla discussione nata anche all’interno della redazione di questa rivista, molto si parlerà. Giudicato da alcuni fra i migliori film dell’anno, da altri ambiguo e forse anche estetizzante, affronta il racconto della Shoah assumendo il punto di vista di una famiglia piccolo-borghese della Germania degli anni ’40, ben sistemata nello spazio vitale che si è conquistato e costruito a ridosso di Auschwitz, in quellaInteressengebiet che dà il titolo al film: l’area di circa 40 chilometri quadrati che circondava il campo di sterminio, dove massima doveva essere l’attenzione, anche perché più alta avrebbe potuto essere la ribellione della popolazione locale – del resto per lo più portata altrove onde evitare inutili rischi.
Ispiratosi a un romanzo di Martin Amis, Glazer ha raccontato in più interviste le lunghe fasi di studio e di preparazione che l’hanno portato dall’Inghilterra ai bordi del campo polacco, dove ha ricostruito in ogni dettaglio, inclusi gli abbondanti fiori del giardino, la villetta in cui il comandante Höß (fra i principali organizzatori di Auschwitz, dove fu poi giustiziato nell’aprile del 1947) viveva insieme alla moglie Edwig, ai cinque figli e al personale di servizio, per così dire: la giovane domestica che tenta di far tutto bene, terrorizzata dai suoni e dai fumi che escono dal vicino campo; la bambinaia che si ubriaca di notte; la cuoca; il giardiniere che di Höß raccontò poi al processo, come riporta Leon Poliakov nel suo Auschwitz (Einaudi 1964). Ma se la villetta è finta, ovvero ricostruita, non così il muro, le torrette e i tetti degli edifici del lager, che intravediamo sempre restando sulla soglia, esattamente come sulla soglia stettero i membri della famiglia e, per metafora, tutti coloro che videro, che seppero. Glazer sceglie infatti di non oltrepassare con la telecamera il muro che separa la vita piccolo-borghese della famiglia Höß dal campo di sterminio – l’unica volta in cui entriamo nel campo è nel tempo presente, durante il quotidiano turno di pulizia in quello che è diventato a tutti gli effetti un museo.
E’ una scelta coraggiosa che mi sento di condividere appieno, perché per quanto accurata o rispettosa, la finzione cinematografica è per l’appunto finzione, e come tale, soprattutto con l’aumentare degli anni che ci separano da quegli eventi e con la confusione ogni giorno più evidente fra realtà e irrealtà, sempre più inadatta a raccontare la realtà del lager, della morte su scala industriale. Del resto, chiunque voglia davvero sapere non ha che da affidarsi alla testimonianza dei pochi che sono riusciti a raccontare.
Mi spingo perfino a dire che questo di Glazer non è propriamente un film sulla Shoah, anche se queste sono state le sue intenzioni (dichiarate). Senza scomodare la “banalità del male” di Arendt o “la zona grigia” di Levi, mi pare lo si possa definire un film su di noi, i noi salvati di oggi: noi che amiamo le dalie che svettano verso il cielo, che puliamo le nostre case fino a farle lucidare, che andiamo a fare i pic-nic sulle rive di fiumi inquinati, che amiamo i bei vestiti, i rossetti e le pellicce, che apprezziamo l’efficienza e l’efficacia e il far bene il nostro lavoro; noi che facciamo crescere i nostri figli – questi nostri, cari bambini – in quello che ostinatamente vogliamo considerare il migliore dei mondi possibili. Da questo punto di vista, lo specchio che Glazer predispone funziona benissimo, restituendoci qualcosa che non vogliamo vedere. Se rimettere al centro del pensiero (e del cuore: ricordare) quell’esperienza unica ed estrema ha ancora (o forse sempre più) un senso, non è per sistemare sulla bilancia persecutori e vittime, ma per conoscere noi stessi: entrare nelle proprie stanze interiori, fin nelle zone più oscure, lavorando su se stessi come fecero, in quei tempi durissimi o subito dopo la fine della guerra, donne come Etty Hillesum e testimoni del calibro di Primo Levi. E non già per piangere il proprio destino, ma per trasformarsi e trasformare il proprio agire, il proprio dire – che, nel caso di ciò a cui allude questo film con un titolo degno di più interpretazioni, potrebbe significare sfondare l’esiguo orizzonte della propria zona d’interesse.
Nel film ci sono alcuni momenti di frattura, quasi esili appigli che il regista rivolge ai personaggi della Storia, e che alludono in qualche modo alla frattura che abita in noi, fra ciò che siamo e ciò che ci piace credere di essere: le immagini che accompagnano la voce di Höß mentre racconta di Hänsel e Gretel alla figlia insonne; il bambino che scosta la tenda e guarda verso il campo; il pianto notturno del più piccolo; la suocera di Höß che, giunta in visita alla figlia ben sistemata, fugge senza salutare; il rossetto trovato nel fondo della tasca di una pelliccia; il corpo scosso da conati di vomito. Ma sono, appunto, fratture, e talmente esili da non lasciare alcuna traccia politica. La forza di Glaser sta proprio nel raccontare come sia facile per ognuno vivere sapendo l’orrore dietro a un muro, a un confine, in un altro paese – e non solo per obbedienza agli ordini dei superiori, come in tanti dissero a Norimberga e come Eichmann disse a Gerusalemme. Vince la volontà di restare sulla giostra, di godere fino all’ultimo di ciò che si ha, senza farsi toccare da un dolore o da una sofferenza che non sia la nostra, o che non sia in qualche modo collegata alle nostre idee, a ciò che noi decidiamo essere prioritario o importante. E non per crudeltà, ma per comodo – ed è anche merito degli attori – di Sandra Hüller/Edwig Höß in modo particolare, di dare corpo fisico a questo comodo attraverso un modo di camminare, di guardare, di mettere le mani in tasca.
Sta qui, credo, il turbamento profondo che il film di Glazer provoca nello spettatore – soprattutto in quello che, ignaro di tutto, si trovi dentro la storia senza i soliti filtri difensivi che automaticamente mettiamo in atto quando si tratta di Shoah: l’essere chiamati dentro una realtà disvelata grazie a un impasto fra realtà e irrealtà a cui nessuno, meglio di Primo Levi, ha dato parola: “Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fai più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa” ((La tregua, Einaudi 1963).