La svolta autoritaria dell’Asia sudorientale
La postura autoritaria in Asia non è una novità. Basterebbero la Cina – Paese a partito unico intollerante verso ogni forma di critica – o l’India, nazione che – benché stereotipatamente definita la “più popolosa democrazia del mondo” – sta facendo il possibile per diventare la “più popolosa autocrazia del pianeta”, grazie all’impostazione settaria e autoritaria del premier Narendra Modi. Qui ci occuperemo però di un’altra fetta d’Asia, in un certo senso “minore”, che sta a Sudest dei due grandi colossi e cioè il Sudest asiatico, una regione che riunisce dieci Paesi dell’Asia sudorientale (presto diverranno 11 con Timor Est) tra loro collegati dall’Asean, la Association of Southeast Asian Nations.
A favorirne l’attuale vocazione autoritaria basterebbero i Paesi con regime a partito unico (Vietnam, Laos e in un certo senso Cambogia) o la sequenza di golpe che hanno costellato il cammino della democrazia tailandese e, più recentemente, della neonata democrazia birmana. O ancora, l’autoritarismo paternalista di Singapore e, in passato, la dittatura sanguinaria di personaggi come Ferdinando Marcos nelle Filippine o Suharto in Indonesia. Eppure, alla fine del secolo breve e con l’inizio del XXImo, si pensava che quella vasta fetta di mondo sarebbe cambiata: sia per la presenza di democrazie che apparivano solide come appunto l’India, sia per la caduta del Muro di Berlino che aveva fatto cambiare registro, con la dissoluzione dell’Urss, al più vasto Paese euroasiatico, la Federazione russa. Sbagliavamo.
Un sondaggio dall’ISEAS-Yusof Ishak Institute di Singapore uscito ai primi di aprile, spiega che oltre la metà della popolazione del Sudest asiatico si schiererebbe con la Cina piuttosto che con gli Stati Uniti: il 50,5% degli intervistati preferisce Pechino a Washington anche se ritiene gli Americani più “affidabili” (ma l’anno scorso solo il 38,9% degli intervistati preferiva la Cina, mentre il 61,1% preferiva gli Usa). La Repubblica popolare cinese (Rpc) è vista come la potenza economica più influente nella regione anche se poco più della metà degli intervistati ha affermato di temere che la Cina possa usare la propria potenza economica e militare per esercitare pressioni sui Paesi della regione e un altro 45,5% ha affermato di non fidarsi della Rpc. Ma non sembra che a preoccupare sia il regime autoritario cinese, semmai il suo potere economico. Non la forma di Stato in sé con la negazione della libertà di stampa e parola, semmai la libertà di far soldi.
Segnali contraddittori
Eppure, proprio dal punto di vista della democrazia, l’Asia sudorientale aveva dato, dall’inizio di questo secolo, alcuni segnali interessanti: il Myanmar aveva finalmente un governo civile che, al netto del tragico dossier rohingya, aveva riacceso speranze che si immaginavano contagiose, mentre l’Indonesia si era avviata verso una sempre più solida democrazia parlamentare. E anche la Thailandia, dopo i golpe del 2006 e del 2014, aveva allentato i freni del regime militare e consentito, seppur obtorto collo, a che le strade di Bangkok si riempissero di manifestanti.
Ma le cose sono rapidamente cambiate e proprio in queste tre nazioni.
In Myanmar un colpo di Stato militare nel febbraio 2021 ha esautorato il governo civile, imprigionato migliaia di supposti oppositori e causato una vera e propria guerra civile.
La Thailandia, nella primavera del 2023, ha ribaltato il risultato elettorale favorevole al partito progressista Phak Kao Klai (Move Forward) e ha nuovamente imposto un regime a guida militare benché edulcorato dalla presenza di altri partiti di “opposizione” come il Pheu Thai.
E l’Indonesia ha appena proposto come nuovo presidente – eletto con ampio scarto rispetto agli altri due candidati – un personaggio davvero controverso: l’ex ministro della Difesa Prabowo Subianto presentatosi in ticket con Gibran Rakabuming, figlio (una scelta dinastica) dell’attuale presidente Joko Jokowi Widodo. Forse Prabowo potrà garantire transizione e stabilità al dopo Jokowi (fu l’attuale presidente per due mandati a chiamarlo nell’esecutivo) ma non promette una stagione di coesistenza pacifica in un Paese sempre sull’orlo di pogrom (anti cinesi, anti cristiani, anti papuasi), come già abbiamo visto in diversi Paesi multietnici con importanti minoranze etniche e religiose: l’India di Narendra Modi, lo Sri Lanka dei fratelli Rajapaksa, il Bangladesh della sempiterna prima ministra Sheikh Hasina o il Pakistan dei partiti politici a conduzione dinastica. Non esattamente modelli di democrazia non autoritaria.
Il quadro regionale
Il quadro di contorno non è rassicurante. Anche la Cambogia ha visto decretare una sorta di soluzione dinastica, imponendo al governo del Paese il figlio del premier-generale Hun Sen, che ha consegnato lo scettro nell’agosto scorso al figlio Hun Manet. Le Filippine, dopo l’esperienza decisionista di Rodrigo Duterte, hanno nuovamente scelto di proseguire sulla via di un governo autoritario e dinastico incarnato dal figlio dell’ex dittatore Ferdinando Marcos, il neo presidente Ferdinand Romuáldez Marcos Jr., detto Bongbong. Coadiuvato dalla figlia di Duterte alla vicepresidenza. Singapore, dal canto suo, procede sulla strada di una democrazia formale ma appunto gravata da un autoritarismo paternalista e inossidabile. Vietnam e Laos restano imprigionati dalla logica del partito unico. Resta la Malaysia, che ha comunque una storia autoritaria alle spalle con un uso strumentale della magistratura da parte del potere politico.
La svolta autoritaria sembra dunque un effetto domino che, quando va bene, ammanta le giovani e fragili democrazie asiatiche di aspetti solo nominalmente democratici (elezioni, multipartitismo) mentre la realtà li vede soggetti a diverse forme di intervento autoritario: la presenza di eserciti forti e dotati di larga autonomia in grado di dettare l’agenda, pressioni sulla magistratura da parte dell’esecutivo, un decisionismo legislativo poco rispettoso delle minoranze.
Il caso indonesiano
Se Prabowo Subianto sarà un autocrate o un presidente democratico potrà dirlo solo il futuro. Certo, il personaggio si presta a una lettura piena di ombre. Sul suo secondo, Ganjar, è meglio stendere un velo pietoso: è un sindaco di 36 anni cui una sentenza della Corte costituzionale, dove tra i giudici c’era anche un parente della famiglia, ha permesso la corsa a vice pur non avendone i requisiti (40 anni). Prabowo Subianto Djojohadikusumo, classe 1951, invece rientra in un’altra cornice. Viene da una ricca famiglia giavanese e da un giro di imprenditori amici del generale Suharto, un dittatore durato 32 anni. Il giovane Prabowo frequentava casa Suharto e godeva dei favori del dittatore tanto che ne aveva corteggiato la figlia Titiek, la secondogenita del rais. Insomma Prabpowo è nel giro che conta e nel maggio 1983 sposa la figlia del Capo. Divorzieranno nel 1998, anno della caduta politica del padre. All’epoca del matrimonio Prabowo è un ufficiale dell’esercito che fa carriera in un corpo d’élite, le forze speciali Kopassus. A loro tocca tra il 1976 e il 1998 combattere la resistenza al governo centrale dei secessionisti dell’Irian Jaya (Papua indonesiana) e mettere a regime Timor Est, la riottosa ex colonia lusitana che Suharto ha invaso dopo la Rivoluzione dei garofani portoghese che le aveva concesso la libertà. Nel 1998 l’ancora per poco potente suocero lo promuove alla Kostrad, la riserva strategica di cui lui stesso era stato il primo comandante all’epoca della repressione anticomunista (1965-66). Ma sono gli ultimi colpi di coda un vecchio dittatore ormai in caduta libera che nel maggio di quell’anno viene costretto dai suoi stessi generali a dimettersi. Prabowo cerca di ricavarne un profitto ma viene messo nell’angolo dal potente generale Wiranto. Un ufficiale che condivide con lui una divisa piena di macchie e un antico (ex) sodalizio con Suharto.
Quando in un’intervista del 2014 ad Al Jazeera gli vien chiesto di alcuni attivisti anti Suharto scomparsi, Prabowo ammette tranquillo, aggiungendo che rispondeva a “ordini superiori”. Ma proprio quelle vicende non lo avevano aiutato: cade in disgrazia – come il suocero – e viene esautorato dal ruolo militare. Se ne va in esilio in Giordania. Forse avrebbe preferito gli Usa che però lo avevano messo al bando (levato nel 2020) per il suo passato. Tornato dall’esilio pian piano si ripulisce. Fonda un partito e si candida a presidente. Perde due volte e protesta. Jokowi gli dà un’occasione col dicastero della Difesa. E’ l’ultimo ritocco che ora lo vede Capo dello Stato sostenuto proprio da Jokowi. Ma è un ritocco che disegna un futuro incerto
Il caso Thailandia
Il 31 agosto 2023 viene concesso il perdono del re del Siam a Thaksin Shinawatra ex premier appena tornato dall’esilio. Sicuramente il vecchio tycoon, espulso con due golpe militari (uno nel 2006 contro di lui, l’altro nel 2014 contro la sorella Yingluck), ha vinto: non solo ha potuto far rientro dall’estero, ma la pena detentiva comminata dalla magistratura è stata ridotta da otto anni a uno, da scontare in ospedale o ai domiciliari (non farà nemmeno quello). Col perdono reale, quello che prima era solo un sospetto diventa però l’evidenza di un accordo sotto banco. Ma è necessario un passo indietro.
Nel maggio scorso le elezioni politiche stravolgono gli equilibri e dalle urne esce primo il Partito Kao Klai di Pita Limjaroenrat, un giovane e brillante progressista che incarna le speranze dei contestatori che negli anni precedenti hanno riempito le piazze. Seconda è Paetongtarn Shinawatra, figlia di Thaksin, a capo del Pheu Thai (Kao Klai e Pheu Thai sono in realtà l’emanazione con altri nomi di due partiti precedenti messi fuori legge: socialdemocratico l’uno, shinawatrano l’altro). Gli altri partiti, tra cui due guidati da generali (Prayut e Prawit, entrambi ai vertici del potere dopo i golpe contro i Shinawatra del 2006 e del 2014), consenso ne ottengono poco e non sufficiente a formare un esecutivo. Pita però – grazie a una legge elettorale riformata dai militari – non riesce a raccogliere abbastanza voti in Parlamento per diventare premier e, mentre lavora col Pheu Thai a una coalizione più ampia che lo sostenga, interviene la magistratura che lo esautora dal ruolo di parlamentare sulla scorta di una denuncia per incompatibilità. A questo punto il progetto progressista va in pezzi mentre i Shinawatra hanno cominciato a lavorare a un altro accordo, di segno opposto. Pheu Thai negozia coi militari: per presentare un nuovo premier che non abbia velleità poco filo monarchiche e riformatrici come Pita. In cambio i generali avranno posti di rilievo nell’esecutivo. L’accordo va in porto ma con una contropartita importante: il ritorno il 22 agosto in Thailandia dell’ex premier Thaksin Shinawatra che dopo nemmeno un anno godrà di piena libertà di movimento.
Mentre il re firma il perdono di Thaksim, si forma il nuovo governo con un altro tycoon in quota al Pheu Thai: si chiama Srettha “Nid” Thavisin; è un imprenditore che ha co-fondato nel 1988 Sansiri, uno dei maggiori gruppi di gestione immobiliare del Paese. Ottimo amico dei Shinawatra, ottiene in Parlamento 482 voti. Abbastanza per diventare primo ministro. Non certo abbastanza per chi aveva votato per Pita. C’è di più: dopo essere stato espulso dal Parlamento (dove è poi stato reintegrato dal tribunale che ha dichiarato senza fondamento le accuse) Pita ora deve fare i conti con la minaccia che il suo partito venga sciolto per aver minacciato la monarchia in base alla legge sulla lesa maestà. Insomma, ce n’è sempre una e la Storia si ripete. Move Forward, come ricordavamo, è infatti l’erede politico di Future Forward, un partito politico in ascesa che però è stato messo al bando nel 2020 dopo che le elezioni politiche del 2019 avevano visto la sua rapida affermazione.
La dittatura birmana e la guerra civile
Se si parla di svolte autoritarie non si può certo tacere del golpe birmano. Ma le cose non sono andate come i generali avevano previsto. A oltre tre anni dal colpo di Stato del febbraio 2021, le cose in Myanmar hanno avuto – dal punto di vista politico militare – una svolta decisiva nell’ottobre 2023, dopo 34 mesi di sostanziale stallo punteggiato però da costanti progressi militari della Resistenza soprattutto in diverse aree della periferia birmana, tutte presidiate dalle Eao, le cosiddette Ethnic Armed Organisation. L’Operazione 1027, iniziata il 27 ottobre dalla Brotherhood Alliance (Ba) – tre gruppi armati che hanno però goduto anche dell’appoggio di altri eserciti alleati e delle Forze di difesa popolare (Pdf) legate al Governo clandestino di unità nazionale (Nug) – è stata il segno deciso di questa svolta. Iniziata nello Stato Shan (Myanmar nordorientale) dal Kokang Myanmar Democratic Alliance Army (Mndaa), dal Ta’ang National Liberation Army (Tnla) e soprattutto dall’Arakan Army (Aa), la Ba – secondo i dati diffusi dalla resistenza in gennaio – aveva conquistato nel solo Stato Shan 16 città e il Kokang, regione nota come Shan State Special Region 1, oltre a diverse centinaia di avamposti militari. L’Arakan Army ha poi condotto dalla metà del novembre 2023 una sua offensiva nel Rakhine (Arakan) e continua ad avanzare tenendo sotto scacco la capitale Sittwe e soprattutto l’area di Kyaukpyu, dov’è in corso un progetto sino-birmano per la costruzione di un porto di acque profonde che sarebbe il terminale per le merci che da Kunming nello Yunnan cinese arriverebbero al Mar delle Andamane. Un progetto cui Pechino tiene molto per cui la Cina è intervenuta con forti pressioni per negoziare un cessate il fuoco tra i golpisti e la Ba. Gli incontri e persino gli accordi mediati dai cinesi non sono mancati ma, benché l’offensiva nello Shan si sia fermata o perlomeno rallentata, la tregua mediata da Pechino viene costantemente violata. La Resistenza tiene sotto scacco Muse e altre città importanti sul confine con la Cina e intanto ha preso il controllo – tra i centri più rilevanti – di Laukkai (Kokang) e Myawaddy (karen) mentre nel Kayah i Karenni – che al momento controllano parte del territorio meridionale dello Stato – stanno assediando la capitale Loikaw (Operazione 1111) e mentre Chin e Kachin consolidano quotidianamente le posizioni acquisite.
Anche facendo la tara sui numeri della Resistenza, la svolta indica non solo una nuova capacità militare ma una strategia che mira a controllare definitivamente i confini il che mette in crisi la filiera commerciale e di rifornimento di armi. Una situazione aggravata dalla ridotta capacità russa – impegnata su altri fronti – di rifornire la giunta con armamenti e pezzi di ricambio. In questa drammatica situazione, la giunta ha emanato una legge per la coscrizione obbligatoria (uomini e donne) che ha aumentato la rabbia popolare e ha spinto molti giovani a cercare rifugio oltre confine.
Stando così le cose, il futuro di quest’area è davvero incerto. Per due altri buoni motivi. Il primo riguarda le tensioni tra la Cina e gli Stati del Sudest che si affacciano sul Pacifico: tensioni aggravate da quella tra Rpc e Stati Uniti nella stessa area, con venti di guerra che si spostano da Taiwan ai piccoli atolli rivendicati da diverse nazioni sudorientali. Infine la capacità di “resistenza” dei movimenti sociali (cui gli Asini hanno dedicato in passato un approfondimento a cui rimandiamo). Mentre l’Indonesia sembra il Paese dove l’attivismo politico continua ad avere un ruolo (specie sui temi ambientali e dei diritti dei lavoratori), la Thailandia ha subìto una battuta d’arresto dopo la vittoria (tramutatasi in sconfitta) delle forze progressiste alle elezioni e dopo che la magistratura del regno ha inferto pene severissime a chiunque critichi in qualsiasi modo la monarchia. Difficile fare previsioni ma il movimento è in difficoltà. Su tutto grava la crisi birmana anche se i segnali di una svolta sono favorevoli alla Resistenza. Ma, se dovesse vincere, sapranno le diverse anime del Paese lavorare a un progetto comune superando quella che oggi appare soprattutto un’alleanza tattica? O la vittoria si tramuterà in una voglia di secessione col rischio di una scomposta parcellizzazione del Paese?