La rimozione delle cause e il trionfo del conformismo
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“In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla”, scriveva Walter Benjamin (Tesi “sul concetto di storia”, VI, Einaudi, 1997, p. 27).
Il modo in cui il passato viene interpretato, trasmesso e utilizzato è sempre e dovunque oggetto di una disputa densa di conseguenze sociali. I conflitti in corso lo dimostrano e, al tempo stesso, agiscono da acceleratori di dinamiche in atto da molto tempo.
L’azione terroristica di Hamas e la sanguinosa reazione militare israeliana nella striscia di Gaza, e prima ancora la guerra tra Russia e Ucraina, hanno insediato nel discorso pubblico una modalità di ragionamento collettivo impoverita e distorta. La sua componente principale è la riduzione degli avvenimenti ad una sola dimensione: esiste un solo livello temporale (ciò che accade ora, e che funge da detonatore) e un solo responsabile (chi ha azionato il detonatore in questo preciso istante). Tutto il resto non conta, il passato non esiste, la storia non serve. Al limite, se ne possono strappare alcuni brandelli, da utilizzare in modo strumentale per supportare le tesi di chi è “dalla parte giusta”.
Da qui discende il modo autoritario in cui questo modello di ragionamento viene amministrato nella società da autorità politiche, istituzioni pubbliche, organi di informazione mainstream: chiunque si rifiuti di aderire a questo schema semplificatorio, chiunque cerchi di affrontare le complessità connaturate a qualsiasi analisi, deve essere immediatamente annoverato tra i complici degli aggressori ed esposto al pubblico ludibrio. Ricordare, ad esempio, che nel conflitto russo-ucraino gioca un ruolo anche la politica espansionista della Nato porta immediatamente all’iscrizione nell’albo dei “putiniani”; collocare quanto avvenuto il 7 ottobre nel contesto storico dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi e definire un crimine l’uccisione di migliaia di civili palestinesi decisa come ritorsione dal governo israeliano comporta l’attribuzione dell’epiteto di fiancheggiatore di Hamas, accompagnato dall’infamante accusa di antisemitismo. Dentro questo modo di ragionare azzoppato cade la distinzione tra comprendere e giustificare, ridotti a sinonimi e quindi privati della loro specifica funzione. Semplificare, banalizzare, ricondurre la storia a dicotomie inutili alla conoscenza dei fatti ma estremamente efficaci per la polarizzazione dell’opinione pubblica: questo solo importa. Il passato viene risucchiato nel presente, dove è più facile addomesticarlo nel caos del dolore e dei lutti ricavandone un giudizio morale che ha la pretesa dell’universalità e pertanto si sottrae alle domande, ai dubbi, all’analisi critica.
Chi non si rassegna a cedere a questo ricatto fa fatica a trovare gli strumenti adatti e le parole giuste, annaspa nell’incertezza, soffre della propria solitudine. Qualcuno cade nella trappola della semplificazione e la riproduce a parti invertite, nella pretesa di riequilibrare le responsabilità: evita, perciò, di addentrarsi nell’eccidio perpetrato da Hamas, ne rimuove alcuni degli aspetti più ignobili, come gli stupri commessi sulle donne ebree, forse nel timore inconscio che parlare di questa barbarie possa ridimensionare le responsabilità di Israele per quello che ha fatto prima e dopo il 7 ottobre. Ma questo approccio è prigioniero della stessa logica a cui vorrebbe opporsi, il cui principale obiettivo è la rimozione di tutto ciò che non è funzionale a una narrazione omogenea, priva di asperità e contraddizioni. È una logica che produce conformismo, perché spinge ad adagiarsi senza interrogativi e dubbi nella narrazione proposta dal gruppo o dalla corrente che ciascuno percepisce come più affine.
Un vero atto di responsabilità sarebbe, invece, tornare a parlare delle cause di ciò che sta accadendo. Nel discorso bellico che sovrasta e schiaccia ogni altra forma di discorso pubblico, le cause sono il grande rimosso. Insieme ad esse viene meno il nesso con la ricerca della verità, l’unico campo su cui potrebbero essere faticosamente costruite prospettive di soluzione dei conflitti. Finora solo in Sudafrica è stata percorsa questa strada, con la Commissione per la verità e la riconciliazione istituita dopo la fine dell’apartheid.
Per ricominciare a ragionare e rifiutare qualsiasi tipo di discorso bellico bisogna quindi cercare le cause (tutte le cause), analizzarle, farne un tema centrale nel dibattito pubblico, instillare questa visione nelle avvizzite e inerti culture politiche.
Nelle pagine del grande storico francese Marc Bloch, ucciso dai nazisti nel 1944, troviamo riflessioni rilevanti rispetto ai nodi qui richiamati. Comprendere è più difficile che giudicare, sosteneva Bloch, ma anche molto più stimolante e utile. Il giudizio di uno storico su un evento del passato ha un interesse relativo: “Noi gli chiediamo soltanto di non lasciarsi ipnotizzare dalla propria scelta al punto di non riuscire più ad ammettere che un’altra sia stata un tempo possibile”. Un passaggio illuminante sulla necessità di liberare il passato dal peso di un giudizio perentorio formulato a posteriori e inevitabilmente condizionato dall’epoca in cui viene prodotto, e di aprire la strada a più ampie possibilità interpretative. È questa apertura che costruisce la capacità non solo di comprendere realmente ciò che è accaduto nel passato, ma anche di ricavare prospettive per affrontarne le pesanti eredità. Anche su questo Bloch si esprime con estrema chiarezza:
poiché […] l’errore che si commette nell’individuazione della causa si converte […] in un’erronea valutazione del rimedio, ne consegue che l’ignoranza del passato non solo nuoce alla conoscenza del presente, ma compromette, nel presente, l’azione medesima. (Apologia della storia, Einaudi, 1981, p. 51)
Si tratta quindi di una proposta metodologica che ha molto da insegnare anche all’approccio verso gli avvenimenti a noi contemporanei, gravati da pregiudizi – veri e propri laboratori di ipnosi collettive – fabbricati intorno al rozzo binomio bene/male, la cui matrice coloniale è ancora radicata nella cultura occidentale. Bloch ricorda, a questo proposito, che:
le scienze si sono sempre mostrate tanto più feconde e, di conseguenza, tanto più utili alla stessa pratica, quanto più deliberatamente abbandonavano il vecchio antropocentrismo del bene e del male. (p. 126)
Le dicotomie, d’altra parte, funzionano in quanto poggiano su drastiche semplificazioni, come la riduzione di complessi processi storici a effetti di una sola causa, un procedimento esplicativo del tutto irrazionale che Bloch definisce “superstizione”:
la superstizione della causa unica […] è molto spesso la forma insidiosa della ricerca di un responsabile; quindi, di un giudizio di valore. “A chi la colpa, o il merito?”, dice il giudice. Lo studioso si limita a domandare: “perché?”, e accetta che la risposta non sia semplice. Pregiudizio del senso comune, postulato del logico o mania del giudice istruttore, il monismo della causa è per la spiegazione storica soltanto una fonte di imbarazzo. Essa cerca dei treni d’onde causali e non si spaventa, poiché la vita li mostra così, di trovarli multipli. (p. 163)
Non è un approccio per gli specialisti, ma il terreno su cui si formano il sapere condiviso, il discorso pubblico e l’azione collettiva. L’allarme di Benjamin riguardava il rischio sempre incombente che le società conformino il proprio punto di vista a quello di chi detiene il potere. Nel momento in cui questo accade, la trasmissione del passato è compromessa, i suoi significati perduti.
Bloch scrive le sue riflessioni tra il ’41 e il ’42, Benjamin nei primi mesi del ’40, poco prima della sua morte. Entrambi erano inevitabilmente influenzati dall’esperienza del nazismo, non ancora sconfitto. È bene tornare a rifletterci in questo tempo di autoritarismo e di guerra.