La prima volta
Non ho pensato ai bambini piccoli per anni e anni, nemmeno li vedevo. E per quanto mi stupisca non ho mai nemmeno pensato al mio poter essere madre.
A trent’anni sono diventata insegnante, ho letto i testi della pedagogia attiva e libertaria, quelli di Maria Montessori, Françoise Dolto e Grazia Honegger Fresco. Ho scoperto le bambine e i bambini piccolissimi quando è terminata la mia lunga adolescenza e ho cominciato a vivere meglio.
A trentuno anni mi sono sposata. A trentadue ho iniziato a pensare alla maternità. A trentatre ho desiderato un figlio e a trentaquattro lo volevo con tutta me stessa. A trentacinque non era arrivato e mi sono rivolta all’Ospedale. A trentasei ho deciso che piuttosto che in quel modo niente, e volevo distruggere tutto. Ho attraversato il lutto e ho amato di nuovo la persona che avevo scelto. A trentasette è nata.
Ho avuto molto tempo per prepararmi alla maternità, per sviluppare una certa consapevolezza e determinate idee riguardo la gestazione e il parto. Sono stata sorpresa e spiazzata dagli eventi e ho fatto scelte che non ripeterei. Non ho più smesso di interrogare questi “fatti della vita” e di cercare un modo opportuno di impegnarsi per una nascita migliore.
Una voce in me e fuori di me dice che siamo morti a milioni in quei momenti liminari, infimi e sacri, e che avere la vita salva è tutto e quindi bisogna prendere e ringraziare, tornare a casa dall’ospedale e fare bene che tanto il bello, e il decisivo, vengono dopo. Ma nella nostra difficoltà e timore ad accettare che quell’inaugurale passaggio alla vita sia un evento formativo capitale e decisivo vi è altra complessità. Il terrore di vedere la storia e l’arbitrio umani connessi a qualcosa di tanto collettivo e trascendente, alla umilissima vicenda organica delle creature. È lo spazio che lasciamo occupare alle religioni istituzionali.
E poi la nascita avviene attraverso una donna, per una donna, e allora vi è tutto l’abominevole del materno, le fantasie di venerazione e terrore; la percezione di un potere mostruoso di cui sono in balia entrambe le parti. Il desiderio di sminuire, di negare, di controllare e di non riconoscere che liberare le madri è liberare le figlie e i figli e viceversa.
Tutte abbiamo rapporti conflittuali col materno, a tutte e tutti manca una cultura della maternità. Quanti parti, gravidanze, storie del divenir madre si troverebbero nel nostro canone occidentale? Il neonato come la donna non ha parola, eppure solo loro possono reciprocamente educarsi alla sapienza del rispetto, nei vincoli del potere e del bisogno. Nascita e maternità conducono sul margine di non detto e non pensato in cui si sostanzia la ricerca sul potere, sulla valenza simbolica e culturale dei temi dell’incarnazione e della differenza tra individui. Implicano la speculazione sul rapporto tra mente e corpo, natura e cultura, scienza e spiritualità, biodiversità ed ecologia. Sono sedi di eticità conflittuale, spazi residuali dove i conti non tornano e torneranno solo su altre partizioni non esatte, non binarie, non abitudinarie e sempre con un resto rimanente. In un certo senso, niente è più astratto della carne.
Quella che segue è una storia fra tante, singola e peculiare. La nostra ricerca si farà di confronti, racconti e scambi; il tempo nonostante tutto, e per quanto paia incredibile, è dalla nostra parte.
All’inizio ci fu internet. Ore incalcolabili, ma in termini di conoscenze avevo accumulato un patrimonio. Tutto quello di cui non avevo mai avuto bisogno o curiosità circa la vita fertile del mio corpo adesso mi era noto. Entravo in casa e mi precipitavo sulla sedia girevole, a digitare un’altra combinazione di termini, per vedere se sotto “primi sintomi concepimento” oppure “incinta al 16 PO” saltasse fuori in qualche forum o blog l’aneddoto in grado di consolarmi, illudermi, distrarmi e in qualche modo placare la mia furia. Perché a un certo punto ero diventata furiosa. Le mie fasi luteale ovulatoria post-ovulatoria mestruale si succedevano inesorabili e metodiche mentre io vivevo immersa da una parte in un mondo magico fatto di segni, rituali e premonizioni e dall’altra come una drogata del web, sui forum in cui non ho mai preso parola ma dove di fatto abitavo, spiando loro che si scrivevano come virtuali amiche e sorelle. Capivo la loro lingua e pian piano diventava la mia: beccare la cika, maratonare, fagiolino, attecchire, PO, O, muco filante, bianco a chiara d’uovo, le maledette rosse. Sognavo con gli emoticon. La febbre saliva.
A un certo punto abbiamo saputo che c’era un problema oggettivo e non era piccolo. Decidemmo di tentare con la PMA (procreazione medicalmente assistita), del resto erano passati più di tre anni dai primi “tentativi mirati”.
Il ricordo è questo: sul pullman, dopo una visita nel centro infertilità dell’Ospedale. Manichino, vergognosa pupazza: seduta con le mani in grembo, fuori dal finestrino la città piena di sole è inattingibile. Sono di plastica arancione come il sedile, sono di gommapiuma moscia, sono stata violata esplorata manipolata valutata, sono presa in un percorso che non capisco e non mi appartiene. Mi sposso. Fino a che punto posso arrivare?
Arrivammo abbastanza in là. Fino alla IUI, insomma il primo grado della PMA. Praticamente dopo averti fatto fare delle punture di ormoni sulla pancia nei dieci giorni prima dell’ovulazione, prendono un po’ di sperma frullato nel modo giusto e lo sparano con una pompetta ben dentro l’utero. Poi si spera.
Già spingerci fino a quello ci era costato molto. Di circa cinque medici consultati solo uno, molto cauto e poco loquace, ci aveva detto di aspettare un anno ancora; gli altri ci avevano indirizzato, chi nel pubblico chi nel privato, alla clinica dell’infertilità.
Il ricordo è questo: il parco pubblico fuori dall’ospedale, vuoto al mattino e noi due a vagare, mi sembrava un film di Greenaway e per quanto avessimo fatto un capolavoro di amore e di ironia, baciandoci e ridendo nel minuscolo ambulatorio senza finestre che ci avevano lasciato al momento di raccogliere il seme, continuavamo a rimanere pupazzi. Quando ci hanno richiamato dentro, mi hanno fatto sdraiare, la dottoressa con una cannula mi ha immesso quel che doveva, io mi sono scoperta incazzata e feroce. “Arrivederci e in bocca al lupo, ci faccia sapere fra due settimane telefonando al numero del centro”. Avrei voluto urlarle: dimmi qualcos’altro, qualsiasi altra parola; anche perché subodoravo la catastrofe imminente.
Le mestruazioni arrivarono, e con loro la prima ondata di caldo di giugno. Conobbi una follia di tipo nuovo, ingigantita dagli sbalzi ormonali. Doveva cambiare tutto, me stessa la mia vita le mie scelte: scagliati attraverso un cerchio di fuoco dovevano perire sogni pupazzi desideri e progetti. Me senza pancia, me senza figli, a trentasei anni senza più tempo e con un altro tempo davanti, me distrutta e da ricreare. Fu una rivolta senza misura né riflessione, in cui non esitai a porrei fine alla storia d’amore e a ogni certezza.
Ci sono donne che vanno avanti per anni con la PMA e il cui desiderio le porta a tentare fecondazioni in vitro più volte. Ognuna ha la sua storia e i suoi modi. Per me semplicemente quella non poteva essere la strada: per ragioni complesse e molteplici, compresa una formazione politica, ideologica, sentimentale che non puoi superare per volontà. Un libro trovato per caso sulle bancarelle (Madri selvagge, di Paola Tavella e Alessandra Di Pietro) mi aiutò a inquadrare il mio rigetto. Darmi un pizzico sulla pancia e piantarci l’ago di Gonasil era una cosa che non potevo fare di nuovo senza venire meno alla mia salute profonda e questo non perché in sé ci fosse qualcosa di sbagliato. Io non ce la potevo fare. La reazione fu esplosiva. La sterilità individuale o di coppia è un evento profondamente doloroso e distruttivo, un lutto che richiede una complessa elaborazione e da cui si può uscire in molti modi o addirittura non uscirne. E le sue rappresentazioni, elaborazioni, esperienza e rituali aspettano ancora molto lavoro collettivo.
Mio marito si tagliò i baffi, accettò di non sentirmi al telefono per tre settimane, si prese sacchi di parole dolorose e taglienti, venne scagliato a una distanza siderale mentre le mie fantasie di ricreazione occupavano l’orizzonte intero. Poi rivenne a cercarmi. Eravamo sposati ma avevamo due case e due città diverse, non c’era nessun bisogno concreto a tenerci assieme. Cosa c’è di più privato di una storia d’amore? Quanto conta nella possibilità di superare assieme una diagnosi di sterilità condividere una visione, un impegno, un ruolo del mondo che trascenda l’alleanza matrimoniale? Non lo so.
A ottobre stabilimmo di non parlare più della questione per sei mesi. Potevo riconoscere che per una donna come me sarebbe stato possibile superare il dolore, che per due come noi ci sarebbe stata un’alternativa, ma sapevo si sarebbe trattato di un percorso lungo e dolorosissimo. In quel momento però ci rivolgemmo all’esterno, come buttandoci in una felice convalescenza. Sotto Natale, in una delle quattro città che girammo durante le vacanze, è stata concepita nostra figlia e mai e poi mai questo mi farà dire che fu in diretta conseguenza con i mutamenti psicologici intervenuti nel periodo. Quando parliamo di questi argomenti ci vuole una delicatezza estrema perché si tocca la carne più profonda e urlante, bisogna situare la propria voce, essere umili e in ricerca, assumersi anche se impossibile la responsabilità del linguaggio e delle immagini che si usano.
Posso dire che il tempo e il desiderio si trattano difficilmente, che attorno ai quaranta è normale aspettare quattro anni per concepire, che avere poche possibilità vuol dire avere poche possibilità, che c’entra la fortuna. Ma posso dire anche che credo nel necessario incontro di tre desideri, dell’uomo della donna e della creatura, che scegliere di sapersi soggetti situati e incarnati nell’epoca degli innesti delle macchine e dei cyborg ci trasporta su un fronte di lotta e di ricerca dove scelte e responsabilità individuali contribuiscono a disegnare la cartografia secondo cui il progresso dei saperi delle pratiche e delle tecniche prenderanno alternative direzioni.
Avere desiderato così tanto e a lungo la maternità, averla ricevuta insperatamente, ha dato una certa tonalità alla mia gravidanza. Assieme a tutte le altre determinanti individuali: socio economico culturali, geografiche, psicologiche ecc. Sapevo già delle cose, leggevo moltissimo, ho accolto l’esperienza generativa come un lusso, un’occasione decisiva. Per moltissime di noi non è così. Pensare a queste differenze e alle loro narrazioni è una strada per trovare altri modi di costruire senso e quindi mondo.
Di certo il ricordo del parto e la sua rielaborazione in racconto appartengono profondamente a tutte le donne e, quale che ne sia la consapevolezza, esso è un evento trasformativo e formativo capitale. Così come il racconto della propria nascita è, o dovrebbe essere, reale o fantastico, un legato prezioso per ogni individuo: nascita e morte, punte supreme, soglie generative di categorie cognitive culturali e sentimentali in cui individuo e collettivo si misurano.
Ho tenuto un diario per mia figlia nei mesi della gravidanza, pensando che un domani avrebbe magari avuto la curiosità di sapere cosa le accadeva e come ero quando si formava nel mio corpo. L’ho fatto come moltissime di noi, perché mi rendevo conto che non sarei più stata così e mai più la stessa. E soprattutto perché ero e sono convinta dell’importanza decisiva della vita intrauterina e perinatale.
Si può affermare ciò senza venire strette in una logica dicotomica per cui da una parte c’è la libertà della donna e dall’altra quello che si deve fare? Senza pensare che è il discorso del privilegio e del delirio di perfezione individualista? Abbandonando le strutture della colpa e del castigo? Le pagine internet e il discorso pubblico sono pieni di polemiche roventi sui temi della maternità: il parto naturale, analgesico, l’allattamento al seno, l’asilo nido, i libri della Badinter… Si drammatizza molto, la posta in gioco è la legittimazione dell’iperindividualismo. Ho già detto che per me il materno e la nascita sono centrali in qualsiasi tipo di pensiero emancipatorio e libertario, senza timore di cadere nella trappola di responsabilizzare e relegare al materno le donne stesse.
Da una parte vi è il ruolo della medicalizzazione nella biopolitica odierna: il parto, come la malattia e la morte, è sia interiorizzato che controllato socialmente all’estremo. Porre la responsabilità del benessere individuale direttamente nelle mani del singolo è una forma di iperindividualismo che nega come risorse la politicizzazione dell’esperienza vissuta e la socializzazione del significato degli eventi del corpo; si occultano spazi di libertà possibili in modo da non modificare i rapporti di potere ed esclusione esistenti.
Dall’altra ci mancano le elaborazioni culturali della maternità e della differenza sessuale, con il loro portato politico e rivoluzionario.
Bisogna fare un salto out of joint, trovarsi fuori squadra come il tempo. La libertà è solo nei vincoli, la responsabilità solo nell’affidarsi, il riconoscimento solo nella distinzione. Il privato è politico.
Sul diario non ci sono i primi due mesi di gravidanza. Mi ricordo che feci l’esame del sangue e “le beta” erano alte (gergo da forum). Dopo tre settimane andai dal ginecologo napoletano, quello a cui mi ero rivolta dopo la decisione di non proseguire con la PMA. Mi aveva detto di smettere di fumare e bere caffè, di recuperare serenità e tentare lo stesso l’operazione al varicocele per il mio compagno. Senza tatto aveva aggiunto che il tempo era prezioso e ne avevamo perso molto, ma che secondo lui qualche chance c’era davvero. Una volta rimasta incinta avevo sviluppato comprensibilmente una forma di gratitudine nei suoi confronti, assieme all’oggettiva percezione che, come spesso accade, alla carenza umana era associato un reale talento medico. Era avido, sboccato, un po’ cafone e appassionato del suo lavoro; usava un macchinario ecografico all’avanguardia e faceva ecografie vaginali fino a gravidanza inoltrata. Il suo studio era pieno di gente di ogni estrazione sociale, molte con i miei stessi motivi di gratitudine. Da quando eri incinta la prassi prevedeva un appuntamento mensile, cento euro a visita senza ricevuta e possibilmente parto con lui in clinica. Quella prima volta ho visto un puntino luminoso pulsare e mi ha invaso un sentimento cosmogonico.
Mi ricordo di aver fatto un sacco di esami: seppi se avevo fatto toxoplasmosi e rosolia, conobbi per dimenticarlo di nuovo il mio gruppo sanguigno e altro ancora. Prendevo acido folico tutti i giorni e smisi da sola di mettermi gli ovuli di progesterone prescritti dal gine, perché sentivo che non mi giovavano. Sapevo che la medicina non è amica del corpo delle donne, che la gravidanza è naturale e il corpo saggio. E avevo un fortissimo sentimento di fiducia in me stessa e nel bambino in pancia, sentimento che mi impedì fin da allora di fare ciò che è sensato, cioè trovare quella o quelle persone con cui condividere rischi e responsabilità.
Internet c’era ancora. Non saprei dire quando ho smesso di chiedergli tutto, credo verso il quarto mese. Mi ricordo i video di La tua gravidanza settimana per settimana: su uno sfondo elettrico nero e bluastro la sagoma pisciforme si modificava a ritmo accelerato, la rana umana metteva occhi arti organi e si definiva sulle estremità mentre una voce femminile robotica spiegava: “alla decima settimana l’embrione”, ecc. Poi ci fu un periodo maniacale dedicato alle cose: la fasciaporta bebè, la culla (ad amaca, in vimini, autoprodotta, di design); il passeggino (reversibile, a trio, col telaio unico, alto basso costosissimo cheap); i pannolini lavabili (ciripà, pile, bambù o mai nella vita). Poi la sbronza passò e mi ricordai che c’è bisogno di poco e quel poco era spiegato in Abbiamo un bambino di Honegger Fresco.
Prendemmo presto la decisione di non fare l’amniocentesi. Ho sempre avuto la certezza che il bebè stesse bene e fosse sano ma, dopo averne discusso, mi sottoposi ugualmente alla translucenza nucale e al tri test. Il ginecologo mi rassicurò fin dall’esame ecografico e andai a ritirare quello ematico senza patemi. So che per moltissime di noi non è così, che la soglia di probabilità è spesso positiva e viene prescritta un’amnio che poi smentisce i sospetti. Ma intanto trascorrono settimane di angoscia violenta. Se mi fosse accaduto cosa avrei fatto? Non sono in grado di saperlo.
Superato il secondo mese, cessò la difficoltà a digerire che mi aveva obbligato a una dieta di toast, patate bollite schiacciate e minestrina e cominciai a prendere appunti.
Marzo. Nelle prime pagine del diario il dialogo è un po’ goffo. Scrivo a lui/lei ma non si ha l’impressione di uno scambio. Riporto soprattutto aneddoti sulla mia giovinezza, storie sull’infanzia e la vita di mio padre che conosco poco, parlo molto di me, di come vorrei migliorare. Poi il tono cambia e il modo dialogico diventa più fluido.
21 marzo: Siamo andati a trovare due amici di C. [il mio compagno] che hanno avuto un bambino. È piccolissimo, non pesa nemmeno 4 chili. Comunque non ho avuto paura, l’ho preso in braccio, sentendolo, ascoltandolo. Sto leggendo tanto e credo che andrà bene, che me la caverò bene, lo sai?
30 marzo: Per giorni mi dedico al pensiero di te ma è un pensiero pratico direi: cosa e come farò, quasi ci fosse un bene e voglio essere pronta. Poi a tratti mi stufo di tanta attesa e altre volte ancora realizzo che non so come sarà, tutto quello che ancora ci separa dal nostro incontro, ancora non ti ho sentito muoverti nella pancia.
Aprile. È il mese in cui prendo contatto con la probabile sede del parto. Non avendo già un bambino di cui preoccuparci, con dei lavori che lo permettevano, e delle instabilità congenite, scegliamo una città diversa da quelle tra cui già ci barcameniamo. A posteriori quella scelta mi risulta poco comprensibile. Genova era perfetta per il lavoro di mio marito e per trascorrere vicino al mare gli ultimi tre mesi di gravidanza nel cuore dell’estate. Leggevo, sviluppavo idee e convinzioni ma non ho speso davvero tempo nella ricerca, non mi sono davvero informata. Il Centro Nascita Alternativo del San Martino rappresentava semplicemente il compromesso ideale. Dentro un grande ospedale, con tutte le garanzie che dà, c’erano quattro stanze e un corridoio in cui si faceva come si deve. Una sorta di riserva indiana per pionieri, contraddittorio fin dal nome.
4 aprile: Lo chiamo dolore, e non male, quello del parto. Ci sto pensando tanto perché ieri siamo andati a vedere il Centro Nascita Alternativo a Genova dove pensiamo ho pensato penserei di partorire e allora sai, quando vai fisicamente nel posto, nel luogo dove pensi che faremo questa impresa, allora lì si provano emozioni, e poi lo sogni di notte e la pancia cresce e io comincio a pensare al parto, a come sarà. Con la carne e le emozioni e non solo con i principi. Perché per quelli ho detto che l’epidurale no, niente anestesia e medici in giro. Ma non solo per quelli. Qualcosa in me di profondo la mette così, per cui deve essere intimo e voluto e vissuto e protetto e creato. Non posso nemmeno pensare di non potermi muovere come sento e devo, nell’intimità. Credo che quel posto all’ultimo piano del pad.12 possa andare. Il San Martino è una città ospedaliera universitaria grandissima, che sta su una collina, con decine di palazzi vecchi e nuovi, grandi e piccoli, disseminati sul pendio. Ci sono viali, alberi, statue. Il pad. 12 di ostetricia, ginecologia e neonatologia è nella zona vecchia, è un palazzo inizio novecento color ocra, sembra una scuola. Il CNA sta all’ultimo piano, quando esci dall’ascensore a sinistra stanno le sale parto, a destra c’è una porta chiusa di un altro colore, col campanello e scritto sopra Centro nascita alternativo. All’inizio non apriva nessuno poi arriva l’ostetrica dentona e sbrigativa che dice: Ma che aspettate? Ed entriamo. C’è un corridoio coi poster che porta nelle stanze e subito a destra un ufficetto dove ci sediamo. È bruschissima, mi strapazza: mica non vorrò venire al corso pre parto, ah però se lo devo fare ad agosto non si sa se ci sarà, lei in ogni caso non lo terrà perché non sarebbe pagata e Brunetta taglia gli stipendi ma taglia e taglia e taglia finisce che un giorno lei prende e alla fine del turno lascia la gente in sala nel mezzo dell’operazione. E comunque certo che non si sa chi mi capiterà, certo che dipende dai turni, certo che è troppo presto per spiegarmi le cose, lasciare il nome e poi vediamo come sto a giugno. Nel mezzo di ‘sta roba arriva un’altra, la dolcezza in persona che mi spiega tutto benissimo: aprono la cartella alla trentesima settimana, alla trentaquattro si vede se va tutto bene e si può farlo lì. Poi mi mostra una stanza. I colori sono tenui, il pavimento di linoleum è pulito, i letti sembrano normali ma sono adatti al parto, c’è un bagno con vasca privato. Siccome non c’è nursery, nella stanza stessa c’è il lavandino per i bagnetti nonché un fasciatoio che si può riscaldare. Esco rassicurata e raddolcita, pure questa è solo una cazzo di avventura e comunque i colori il silenzio e l’odore di quel posto mi piacciono. C. intanto mi dice ridendo: “Lo sai vero a te chi capiterà? Indovina? Dentona di sicuro”. Mentre aspettiamo che si aprano le porte dell’ascensore arriva una donna della mia età che era passata al CNA a firmare dei documenti. Le chiedo. Dice che ha partorito lì, un mese fa, che si è trovata davvero bene, in quattro ore il suo maschietto è uscito, in tre giorni ti insegnano e spiegano tutto e insomma mi mette molta positività. Per me quello conta, stare in pace con l’aiuto giusto i primi giorni. E tu? Come sarà? Che farai? Ti attaccherai al mio seno e ci faremo rapire dalla tenerezza subito? Credo di sì.
14 aprile: I sogni sono forti in questo periodo. Tutto è rivolto a te, le antenne catturano di giorno ogni spora di senso sulla tua venuta. Questa notte il padiglione 12 era diventato una villa napoleonica tutta illuminata per il ballo, piena di carrozze e folla in costume. Noi non sapevamo dove andare tra sale, balconi e corridoi, siamo gli unici in abiti moderni e civili, cerchiamo le ostetriche perché io ho partorito ieri ma poi spensierata la sera sono uscita e non l’ho nemmeno detto a mia madre e all’improvviso ho ricordato che avevo partorito e tu non eri con me e io non ero con te. A quel punto pare alice in wonderland perché le ostetriche sono evasive e mutanti, ognuna rimanda all’altra e ciascuna fa la misteriosa e del bambino non c’è traccia. Poi C. scopre che bisogna intrufolarsi in un passaggio segreto dietro la porta di una cassaforte a ruota, come quelle dei fumetti. Si apre il pericoloso e scomodo e lungo e buio tunnel da fare carponi che ci porta di là. Di là dove ci stanno i bambini e le ostetriche ci dicono che ho avuto un lungo parto doloroso tanto che un medico voleva a tutti i costi operare, così faticoso e doloroso che non mi è venuto il latte e allora mi han mandato via per recuperare le forze e a te ti portano di qua e di là a succhiare latte da chi ce l’ha. Mi danno in braccio un bimbo piccolissimo, assurdamente piccolo, con la testa come un mandarino e io devo masticare il biscotto e spingere le briciole bagnate sulle labbra e fargliele pescare ma se l’impasto è troppo bagnato non lo vuole. È faticoso ma ok però intanto capisco che forse non è vero nulla e ti ho perduto. Che possa trattarsi di un sogno luttuoso? Il tunnel difficile è l’uscita al mondo, il travaglio. L’ostetrica che racconta che tu mi camminavi nella pancia è speculare al racconto di mia madre sul mio parto che fu terribile, le saltarono sulla pancia per farmi uscire e lei si sbragò e rovinò tutta e poi non mi ha allattato…»
22 aprile: Piccolo/a non ci sono altri incontri così preparati, dico che nessuno entra nella vita di qualcun altro con questa lunga preparazione, e desiderio, e così credo che le fantasie e i sentimenti di questa aspettativa c’entrino per forza con la natura poi della relazione che si stabilirà. Anche Ida di Useppe nella sua attesa deve aver riscattato e aspettato.
24 aprile: La pancia mi cresce lo sai? Diventa più alta e grande. Oggi mi sono guardata allo specchio assieme a C. e sono rimasta molto colpita. Sono tutta diversa da come ero prima, lo sai? Grosse le cosce e le forme e che strano baby, che esperienza incredibile. Adesso quando vado in università o in giro guardo le ragazze come non facevo, guardo il giro vita, la forma dei fianchi e del bacino e mi stupisco, mi dà un brivido confrontare la svasatura, il busto contenuto con quello che gli può accadere, come potrebbe accadergli, e immagino che in quegli spazi stanno collocati gli organi e tutto l’assetto che poi si possono muovere cavolo e avviene questo fatto incredibile
Maggio. Il quinto mese fu quello della morfologica come si dice al nord, o strutturale come si dice al sud. È l’ecografia che esplora gli organi interni e la conformazione fisica del feto per escludere o accertare malformazioni. Non ricordo più nulla, se mi batteva il cuore, se avevamo paura, se ero fiduciosa. Non sentii il sollievo per il buon esito perché conoscere il sesso fu uno choc. Sapevo che quel giorno avrei saputo, ma non mi potevo preparare. Ho scoperto in seguito parlando con altre che reazioni di sgomento, disappunto, delusione, smarrimento sono frequenti. Già da mesi viviamo con un bambino immaginato oltre che con quello in pancia e la relazione tra queste due figure non è semplice. Pagine e pagine del diario sono dedicate a riprendere il dialogo e la vicinanza, a elaborare la perdita del bambino ideale. Non è semplice riportarmi a quei sentimenti dalla posizione distante in cui, proprio per ciò che da allora è accaduto, mi trovo oggi ma posso tuttavia comprendere cosa accadde. La venuta della figlia mi ha fatto compiere un salto di qualità nel campo della riflessione e ha deciso la mia maturazione in quella ricerca di identità e parola che collega il femminile all’indagine profonda di sé.
Come possiamo arrivare a pensare l’altrimenti e l’alterità come momenti positivi, dando quindi vita a pratiche originali di altri ordini politici e storici se non riusciamo a pensare positivamente alle donne in carne e ossa? Credevo di farlo concretamente. In realtà era un sapere teorico ma non carnale e definitivo. Mi mancava un passaggio, quella leggerezza nell’assumere una mimesi, ironica e sovvertitrice, del femminile nelle sue forme reali e storiche. Non è un cammino facile. Quando ho saputo che avrei partorito un’altra donna mi sono sentita stanchissima e soprattutto mi sono scoperta estranea a me stessa. Ero dunque come quelle di noi che ascoltavo augurarsi di concepire un maschio perché allevare una bambina nel mondo è più difficile, difenderla, pensare ai vestiti, al sesso…? Ero così?! Perché mi disperavo? Cercavo giustificazioni: era la stanchezza di tante lotte per essere un individuo non conforme, per essere stata in ricerca. L’idea di ricominciare dall’infanzia, attraverso un’altra…
E allora cosa mi portò a fare la bambina? Ad appellarmi a lei per come era, cioè distintamente e completamente altra. Chiedendomi null’altro che fiducia e amore per la sua differenza mi ha aperto un’altra stagione del pensiero, per cui oggi so concretamente che per dare più forza a quella straordinaria leva dell’altrimenti che è pensare la differenza sessuale accanto e assieme a tutte le altre, è importante essere noi le prime a decostruire il disprezzo, la svalutazione, il sospetto e il dolore per come è la donna.
Una volta che ebbi ritrovato il dialogo con la bambina, mi dovetti occupare della seconda conseguenza della strutturale. Nel colloquio dopo l’esame ecografico il ginecologo aveva detto che avrei dovuto fare un cesareo. Erano due mesi che con la scusa dei viaggi non lo incontravo, ancora non lo avevo messo a parte dei miei progetti ma non ignorava di certo le mie idee. La mia era una “gravidanza preziosa” – usò questa definizione orrenda – e non potevo rischiare. Per l’età, la mia conformazione e il suo inconfondibile intuito, di cui già sapevo dovermi fidare, era certo che fosse meglio fare un cesareo, magari fissando già la data per avere assicurato il posto nella clinica dove opera. Non ci potevo credere. Opponevo resistenza. E allora disse: ricordati che il parto è il momento in cui la donna è più vicina alla morte. Sentii che aveva passato il segno. Non poteva parlare così a me, in quel momento. Non perché in assoluto questo non sia vero o pensabile ma non poteva dirlo lui allora, in quella pozione e in quel frangente.
In una simile affermazione vi è un nucleo di verità che è preziosissimo e che ancora deve sprigionare tutta la sua potenza in termini simbolici, culturali, strutturali. Non potevo più fidarmi.
3 maggio: È femmina, ha detto è femmina: è accaduto qualcosa di ignoto, qualcosa che stavo facendo a mia insaputa, potrei dire l’immaginarti ma è molto più complicato perché non lo facevo solo a te, lo stavo facendo anche a me stessa, stavo conducendo concludendo compromettendo e anche costruendo.
5 maggio: Tu sarai un’altra, la vita sarà la tua. Non te lo dirò mai ma tu lo vedrai. È molto meglio essere uomo. È mille volte meglio, da tutti i punti di vista. E io questo non lo posso cambiare. Posso intervenire sui sentimenti che mi ispirano le donne e che non sono positivi. Posso offrirti le occasioni e le opportunità ma non posso lottare anche per te. Avere il pisello, vestire sportivo, essere la forza la creazione la legge. Avere il gruppo, il bar, l’avventura, la guerra, la squadra. Andare a puttane, essere uno sbruffone, essere forte. Guardare alla cultura e vedere uomini. Guardare gli eroi: uomini. Essere compatto, senz’acqua senza buchi. Essere duro coraggioso combattivo virile. Tutto il resto è negativo. Perdonami bambina non sono io che ho fatto così il mondo, l’umanità si struttura su opposizioni e la parte negativa è femminile. Mi scuserai? Cosa ti sto facendo adesso?
6 maggio: Ti ascolto, tu non te lo ricorderai ma sappi che mi parlavi, che ti facevi sentire protestando e mi dicevi sono qui, amami e basta, non ti è chiesto nient’altro, amami meglio che puoi e io sarò la vita, ti farò accadere l’inimmaginabile, non decidere e scegliere con me per me. Ti sento piccola e ne prendo atto. Mi dono. E vediamo che accade.
8 maggio: Noi siamo più che accanto adesso, siamo due ma in una… cara io adesso debbo fare un lavoro per salvarti e recuperarti da questo strano imbarazzo che sento da quando so che sei femmina. Secondo me accade questo: c’è un livello profondo che riguarda il mio rapporto con mia madre, con l’essere figlia; poi c’è la mia storia di donna e poi sopra ancora c’è il pensiero, l’ideologia e la filosofia e il tutto mi produce mal di testa, pensieri, fantasie, incubi, irritazioni e riflessioni e quando tacciono io ho tutta la tenerezza e sto come prima quando eri indeterminata. Mentre in altri momenti mi allontano. E so che tu senti e ti componi di questo e allora come dice la canzone ti vengo a cercare, per restituirti tutto quello che è già tuo, per rimettermi nuova a te come deve essere.
9 maggio: Ti confesso la fatica che faccio a lasciar andare il bambino che abitava le mie fantasie. Il piccolo esploratore con la tutina, che crescendo avrebbe avuto la testina con i capelli corti, folti e diritti; una testolina da maschietto che poi con gli anni sarebbe stata quella di un ragazzino. E tu? Perché non amare i tuoi capelli che saranno probabilmente lucidi morbidi e lunghi, ehi tu là dentro io ti voglio amare se no mi scoppia la testa. Riesco a pensarti esploratrice attenta e cucciolo umano che cresce avventurandosi, ce la faccio!
12 maggio: Lo sai che ho dormito per due giorni, è cominciato sabato un sonno da non stare in piedi e poi ho dormito tutta domenica e lunedì. Credo che c’entrasse la fatica psichica spossante che mi ha dato il confronto con il sapere il tuo sesso, un sovraffaticamento ingiusto e un necessario risprofondare ad altri decisivi livelli della questione, una cura per andare oltre la storia come era fino ad adesso.
24 maggio: I discorsi del medico sul sicuro e probabile cesareo mi hanno turbato ma ora sto meglio. Deciderò per il meglio, io non ho paura di decidere, ora che tu arrivi io cresco, lo sai? E capisco che non si può temere la scelta a causa del sogno, ma che essa ti stringe all’altro e alla storia e io voglio solo sceglier meglio e poi essere forte di fronte a ciò che avviene e non ci sarà ideologia o tentennamento, non ti farò soffrire, non ci metterò a rischio, proveremo assieme a fare per bene, le atlete come ci chiede la prova e accetteremo aiuto e poi arriveremo ad abbracciarci…
29 maggio: Tu ti muovi. Quando vuoi, solo quando vuoi e quando credi e questo è un mistero, il perché e anche il per come. La sensazione di versamento, di profondo assorbimento, come spiegarti, ti sento muovere e tutta la mia attenzione si incanta e si stupisce e non è commozione né dolcezza né poesia è proprio una cosa fisica che mi lascia stupefatta e intenta.
Giugno. Il diario è pieno di discorsi sul nome da scegliere e sul mondo che la aspetta. Stavo per entrare nel terzo trimestre, la percezione del parto e le aspettative prendono sempre più consistenza.
7 giugno: Ora che le settimane crescono assieme alla pancia, io ci penso spessissimo e calcolo quel che mi e ci aspetta. Adesso so come mesi fa non sapevo che farà male e che da quel dolore se non prendo l’anestesia non ci sarà scampo. Sarà un dolore fortissimo e la maggioranza delle donne che hanno partorito e a cui chiedo mi dicono che se potessero lo eviterebbero. E allora? Bimba mia non so che strana incoscienza mi trattiene ancora su questa strada, mi sottoporrò alla disciplina dello stretching, della respirazione, del canto carnatico, della preparazione mentale. Spererò ancora che tu sgusci fuori da me veloce e col sollievo della cacca ma so che non sarà così. Ci saranno crampi e doglie e un travaglio disperato dove si farà una prova, io a non perdere la testa e tu a volere la luce, seguire la mia voce e quella del tempo, e poi ci abbracceremo, voglio e non voglio allo stesso tempo, voglio sentirmi guerriera e scoprire cosa è e come si è, andrà così e ci abbracceremo.
18 giugno: Abbiamo imparato a entrare in contatto una mattina di qualche settimana fa a yoga. L’ho rifatto il giorno dopo a casa e ora questo è. Se tengo una mano ferma sulla pancia e ti abbraccio col pensiero, ti vengo a chiamare con la tenerezza, tu rispondi e inizia un quieto dialogo fatto con le mie mani e i miei pensieri e con i tuoi dondolii. Così diversi da quando non vuoi le costrizioni e allora dai calci come quando ho provato la fascia portabebè a Zavattarello.
Luglio. Con l’ingresso nel terzo trimestre il diario si infittisce. Ci eravamo trasferiti a Genova e tra ferie e astensione obbligatoria avevo ormai molto più tempo per leggere e scrivere. Le pagine sono fitte di dialoghi e di “narrazioni sensoriali”: avevo l’impressione, di cui parlavo con mio marito, che più che cronache o riflessioni le piacesse sentire di come sono la mano o l’albero, di come è quando si corre, si respira, i prati, una città, il mare. Tante volte parlo ancora del parto, invitandola al passaggio.
Ciò che mi stupisce, e non smetterà mai di farlo, è che non nomini mai l’idea di cercare un’ostetrica da cui farmi accompagnare: oggi non potrei immaginare un altro modo di partorire se non avendo un’altra donna di fianco che abbia nella nascita il suo mestiere. E non può essere dipeso solo dalla fiducia incrollabile che avevo in me stessa e nella bambina, c’era una ragione più complessa per la solitudine estrema che scelsi su cui mi interrogo ancora. Incredibilmente anche le amiche caddero come me in questa rimozione, come se un’assenza così madornale per il nostro modo di intendere, si rendesse invisibile. Avevo anche idealizzato il CNA, come se quel francobollo potesse risolvere tutte le contraddizioni e le complicazioni della relazione con l’ospedale.
Avevamo scelto a caso un ginecologo che lavorasse al San Martino e facesse anche studio privato in città, era timido, mentre parlavamo guardava sempre il monitor del computer. Quando mi visitò a fine luglio trovò la bimba nella giusta posizione, confermò che se tutto rimaneva così avrei potuto accedere al CNA, ci avvertì che dal 29 agosto in poi ogni giorno sarebbe stato quello buono. Per il resto né allora né in seguito si è più lasciato sfuggire una valutazione o un consiglio.
Intanto nuotavo tutti i giorni e, vedo dal diario, furono mesi di idillio, di gioia e serenità irripetibili e mi chiedo se in fondo il privilegio della primogenitura non sia nella dedizione stupefatta al miracolo che permette la prima gravidanza.
Agosto. So che ad agosto si svolsero la maggior parte degli incontri del corso pre-parto ma nel diario non ce ne è traccia. Mi ricordo che nella stanza al piano interrato ci sedevamo su tappetini e cuscini e ci guardavamo incuriosite, tutte diverse e tutte alla prima gravidanza. Le ostetriche erano giovani e gentili, usavano dei cartelloni plastificati mezzi strappati per illustrarci le fasi del travaglio fisiologico: dilatazione, incanalamento e movimenti del bambino per uscire. Ci spiegarono e rispiegarono come riconoscere il momento giusto per andare in ospedale, come prendere il tempo delle contrazioni, cosa fare dalla rottura delle acque. E altro ancora, dalla preparazione della famosa valigia all’ipotesi di liquido tinto. Ma poi si arrivava sempre a quella soglia: come sarebbe stato? Imprevedibile, imperscrutabile. Pareva di essere un drappello alla vigilia della battaglia: per ciascuna un esito ignoto e un destino unico. Un incontro fu dedicato all’allattamento e ci pareva di trattare di un futuro remoto. Un altro era sulle tecniche di respirazione e di visualizzazione per superare il dolore: nell’aria pesante di agosto, in quello spazio non adatto, sembrava un inutile fare finta.
Una volta ci fecero vedere il filmato di un parto naturale molto dolce, girato al CNA: la donna usava prima la vasca e poi si accovacciava a terra. Fu in quell’occasione che arrivarono a discutere aspramente un padre – alcune di noi venivano quasi sempre col compagno – e l’ostetrica. Dopo la visione a lui venne in mente di domandare chi sarebbe stato presente al parto. Lei disse che essendo un ospedale universitario forse ci sarebbero stati, oltre al ginecologo e due ostetriche, anche dei tirocinanti e insomma nel caso ci volesse anche l’anestesista si potevano arrivare a contare 8 persone oltre alla donna e al padre. Lui rimase interdetto e lei gli rispose che avrebbe dovuto informarsi meglio, prima di scegliere.
Alla fine degli incontri ci fecero fare un giro al CNA ma di cosa fosse una sala parto o della mancanza di sale travaglio e di camere distinte per puerpere e partorienti nessuna parlò. Su dieci donne solo in due facemmo richiesta per il CNA: c’era chi voleva l’anestesia, chi aveva la paura e non voleva nemmeno pensare, chi non lo aveva saputo prima e ormai non se la sentiva, chi non si fidava.
Dopo ferragosto non invitammo più amici a trovarci e mi concentravo sempre di più sull’evento imminente. Molte pagine sono dedicate a mia madre, a ridire per lei il nodo dei nostri rapporti.
A fine mese la sera dopo cena lei si metteva a spingere, mi venivano la pancia dura e dei dolori forti nella schiena ma di notte finiva tutto.
31 agosto: Bambina tu sei il mio desiderio che sta per toccare le stelle mentre tu tocchi il soffitto della mia pancia e oramai siamo quasi una di fronte all’altra, siamo ancora una per, nel e dell’altra ma già ci cerchiamo diversamente, lo vivo nel modo che hai di reagire e cercare i contatti. In questi ultimi giorni ho letto Claustrofilia di Fachinelli che qualcosa mi ha detto sulle coincidenze, i doppi, le identificazioni, le interferenze fra sé e il mondo che conservano traccia proprio dei giorni che tu stai vivendo, già così bambina e così abitante nel me. Lo sai che i sogni ti impastano, e accarezzano e cantano, mia dolce. E poi leggo Victor Serge che mi trascina ai piedi della storia, a misurare l’individuo e l’enormità sconsiderata della società e dei tempi che ci divorano e ricagano, frantumi intatti nel desiderio di partecipare capire agire esistere.
Settembre. A Napoli si dice “uscire di conti”. Vuol dire che la data presunta del parto arriva e il bambino o la bambina ancora non hanno dato avvio alla nascita. È a quel punto che entra in scena l’ospedale, tant’è vero che sempre più donne alla visita di inizio gravidanza mentono sulla data dell’ultima mestruazione, in base a cui si fanno i calcoli, garantendo a sé e alla creatura una settimana in più di tempo e di pace. A seconda del protocollo adottato dalla singola struttura, dopo dieci o undici giorni (41+3) dalla DPP (data presunta parto) si passa all’induzione tramite ormoni.
Nelle pagine di settembre, accanto a dei sogni dolci e un po’ mesti di morte, è registrato soprattutto il tentativo di contenere lo sfinimento dell’attesa. Ero tornata a internet e collezionavo interventi dai forum per arrivare a stabilire quante ore camminare; se e quanti cucchiai di olio di ricino assumere; quanti litri di succo di melograno eventualmente bere. Nemmeno allora, a quanto vedo, mi sentivo sola e credo che la condivisione profonda di tutte le scelte col mio compagno aumentasse la sensazione di forza. La sera, con cilindro bastone e mantello immaginari, si trasformava in Mister Farnascerelabimba, senza sospettare che razza di impresa sarebbe stata.
Dal 20 settembre cominciarono i monitoraggi. Si deve andare in ospedale un giorno sì e uno no, aspetti il turno ed entri in una stanza apposta dove ti fanno sedere sulla poltrona accanto a una specie di fotocopiatrice. Ti mettono attorno alla pancia una fascia collegata alla macchina e allora si sente galoppare un cavallino. È il cuore della bimba, e alla fine si ha un tracciato della condizione fetale e dell’andamento delle contrazioni. In molti casi ti fanno fare tutto il travaglio collegata al tocografo.
Un giorno mi trovarono la pressione alta e un po’ di proteine nelle urine. Il medico di turno voleva ricoverarmi ed escluse che potessi accedere al CNA: oramai non ero più Miss Fisiologia. Piantai un casino. Lui si ritirò in un’altra stanza e mandò una tirocinante a dire che mi avrebbero fatto firmare per l’uscita solo visti gli esami del sangue, che si rivelarono buoni. Andai a farmi visitare al CNA dove dissero che solo dopo un’ecografia fatta dal mio ginecologo in ospedale e da un parere positivo scritto della direttrice del Centro mi avrebbero ancora ammesso, ma in ogni caso non oltre il 41+5. Ricevetti le autorizzazioni e nei giorni seguenti mi fecero altre tre visite ginecologiche più lo scollamento delle membrane e con buona probabilità fu durante quella sorta di tortura che presi un’infezione da batterio.
Credere di trattare con l’ospedale, di aprire all’interno del meccanismo la mia strada è stata un’illusione perché è strutturalmente impossibile. Non penso di aver sbagliato a non arrendermi e a dire “va bene ricoveratemi e fate l’induzione”, e non perché creda che tutte quelle che lo fanno sono delle sfigate. Neanche perché volevo il parto ideale, la nascita perfetta, la bambina senza macchia. Non mi interessa pensare che magari a quel modo sarebbe andata bene e avrei avuto qualcosa di più simile a ciò che speravo per me e per lei: sono state le mie scelte, basate su motivazioni profonde e riflessioni anche politiche. Per me il parto riguarda le donne e tutti noi come nati di donne; una cultura della nascita è il mio modo di aspirare a più giustizia libertà e pace.
6 settembre: Mi capita di morire, sogno che muoio in un modo o nell’altro e questa notte mi seppellivo da sola nella sabbia sulla riva del mare, là dove la battigia cade in acqua con un breve salto mi incassavo nella rena e poi ogni onda dolcemente mi mangiava, andava veniva e mi portava via, briciole ai pesci briciole all’acqua, un disfarsi dolcissimo, non mi struggevo, sapevo che era finita l’unità ma senza rimpianto. Altre volte mi è spiaciuto di più. Io credo che sia come per te, questo nascere che ci attende è davvero fine e inizio per entrambe.
16 settembre: Volevo dirti che vedo il tuo babbo sempre più distratto e rapito e frastornato dall’attesa, sempre più assorbito dalla concentrazione di conoscerti come se lui davvero con le sue mani e il suo cuore debba prenderti quando ti affaccerai sulla terra e inizierai a respirare con il tuo naso e la tua bocca e sentire e vedere senza mediazioni.
Il primo ottobre alle cinque di mattina si ruppero le acque. Sognai di sentire una testa spingere e cadde uno scroscio d’acqua tiepida e odorosa. Avessi potuto a quel punto mi sarei messa sul tappetino in sala, avrei cantato, aspettato, fatto una doccia e mangiato e ancora aspettato, avrei respirato sofferto disperato e a un certo punto sarei andata al CNA.
Ma quello era il giorno in cui mi sarei dovuta ricoverare per l’induzione, volevo arrivare prima delle otto e accedere al sospirato empireo del CNA. Quando entrammo l’ostetrica alla fine del suo turno era poco disponibile, mi visitò, mi trovò senza dilatazione e mi disse di andare in una delle stanze. Era fredda, battevo i denti, non avevo un paio di pantaloni puliti, mi ci volle un po’ ad ambientarmi. Fino all’una ebbi solo dolori, dalle due iniziò il travaglio e quello è il ricordo più prezioso che ho. Per trovare sollievo provavo tutte le posizioni ed ero così concentrata sul respiro che i pensieri mi scorrevano sopra ed erano pensieri grandi, pensati oltre di me, necessari come la contiguità di vita e morte, gioia e miseria, amore e dolore. Ero sola, con C. accanto ma distante. È un ricordo irraggiungibile, ma so che quella lotta carnale per distinguersi e differenziasi dall’altro, attraverso l’altro, mi rendevano enorme e oltre il tempo e il luogo.
L’ostetrica era venuta a trovarmi in stanza regolarmente ogni due ore. Alle sei riscontrò una febbre, misurò la pressione e disse: mi dispiace ma devi andare di là. Uscii dalla porta del CNA in camicia da notte a gambe larghe, le ciabattine di plastica nera ai piedi, dando il braccio a mio marito e da quel momento non sono stata più padrona di niente.
Mi trovai sdraiata su un lettino con della gente che mi guardava, attaccata al tocogafo, con due infermiere che cercavano nel braccio senza riuscire una vena per la flebo di antipiretico. Cominciarono le contrazioni vere e proprie, una ogni minuto e mezzo. Mi contorcevo supina, stavo male, tutto aveva i connotati dell’incubo, non sapevo più come e cosa pensare. Dissi: “Fate qualcosa, sto male”; e qualcuno rispose: “Fate tutte così, fino a quando state di là siete leoni e poi di qua subito a chiedere l’anestesia”. Potevo dirgli in quel momento che l’anestesia serve a partorire in quella maniera, con delle teste di cazzo intorno; che in certi casi non è per il dolore del parto ma per le condizioni in cui avviene? Fu per quella frase che la pressione salì ancora e la febbre non scese più? La dilatazione era a sette e mezzo, lei stava per scendere e loro decisero di fare il cesareo. Dissi che non volevo e non avrei firmato le carte, il dottore all’inizio non sembrava troppo preoccupato, poi un’ostetrica gli disse qualcosa all’orecchio e presero a insistere di più. Il dolore era fortissimo, C. mi bagnava la testa con una pezza. Dissero che la bambina avrebbe sofferto quel calore e quella pressione, che bisognava sbrigarsi. Quando aggiunsero che per via della febbre mi avrebbero fatto anestesia totale mi misi a piangere disperatamente. Appena firmai successe tutto in un attimo.
Ora voglio dire questo: non ho ancora superato il dolore per ciò che è accaduto. Ma so che la nostra libertà si realizza nei vincoli e le nostre possibilità in quelle del corpo ci trascendono. Se era necessario, meno male che è avvenuto e che ci siamo salvate. Il problema è come, dove, in che forma. E oggi negli ospedali, in democrazia industriale avanzata, non si nasce bene e non si è accolte/i al mondo come si potrebbe.
Ho dovuto accettare di non averla sentita spuntare tra le mie gambe, che non l’ho accolta, non ho visto chi e come veniva al mondo in me per me con e attraverso di me, che non ci siamo guardate, che non l’ho protetta annusata sentita calda e umida di noi sul mio petto. Il dolore l’ho superato raccontando il parto tante volte ad altre donne, e soprattutto quando ho ricordato che stavo parlando in sua presenza non solo del mio parto ma anche della sua nascita.
C’è stato il padre per lei e so cosa è accaduto perché c’era lui. Mi addormentarono all’ultimo momento, entrando nella sala operatoria, per limitare il danno dell’anestesia. Lei stava per nascere, ho la cicatrice così bassa che non sembra un cesareo. Dopo due minuti sono uscite le ostetriche con la bambina in braccio e lui era lì pronto, entrò senza ascoltare le loro proteste nella stanza dove dovevano lavarla e misurarla, subito le ha riparato gli occhi dalla luce, le ha parlato e lei ha smesso di piangere, poi l’ha presa in braccio, su di sé contro il petto, lasciandole succhiare la nocca delle mani e non l’ha lasciata più.
Venni fuori dopo una cinquantina di minuti, la pressione era stata così alta e l’utero così dilatato che avevo perso troppo sangue e non riuscivano a ricucire. Ci trovammo tutti e tre nella stanzina post operatoria, io ero ubriaca, nonostante puzzassi di anestesia lui la teneva su di me e lei si è attaccata ai seni. A mezzanotte ci hanno portato in reparto, non mi riuscivo quasi a muovere ma non volevo darla a nessuno. Alle tre C. era distrutto e io perdevo i sensi, l’ho lasciata alla nursery meno di tre ore e poi mai più.
Quello che è accaduto è un’altra storia perché a quel punto ci sono due soggetti con due bisogni e punti di vista e perché l’accoglienza è altrettanto importante della nascita in sé.
Ho passato 7 giorni in ospedale perché all’indomani del parto non mi fecero nessun esame e la mattina del secondo giorno avevo l’emoglobina così bassa che per miracolo non ero morta, mi trasfusero d’urgenza due sacche di sangue. Ho parlato con tantissime donne e non c’è n’è una, qualsiasi tipo di parto abbia avuto, che non desideri solo tornare a casa il prima possibile. Siamo in una fase della vita troppo delicata e importante per venire schiacciati/e dall’organizzazione ed essere istituzionalizzate/i. Il pasto arriva quando la devi cambiare, le pulizie le fanno appena sei riuscita ad addormentarti, la visita quando lei si è attaccata al seno, una notte ti mettono contro il letto il tocografo per la vicina che deve partorire, una mattina l’altra piange e scalcia e scalcia dal dolore per le ragadi mentre cerca di attaccare il bimbo e nessuno la aiuta. Nelle stanze da quattro stanno soprattutto le straniere.
12 ottobre: Abbiamo attraversato quei giorni difficili all’ospedale come su una zattera, tu sottocoperta un angelo poppatorio beato dal caldo e dal seno e io sotto con te a stare bene e sopra insomma…tra la salute e l’odio per la struttura, un po’ scleravo ma lo sai che sono fatta così, tu mi hai scelta fatta così. E io e te siamo la mamma e la bimba fatte l’una per l’altra, fatte per essere due che forse si danno tormento ma le più adatte a prendere una il meglio dell’altra…