James Baldwin, per capire gli Usa
(La trascrizione dei sottotitoli della versione italiana del film di Raoul Peck I am not your negro è di Bruno Montesano. La traduzione dei brani dell’intervista di Peck è di Davide Minotti. )
James Baldwin: Ricorda questa casa
In
America ero libero
solo in battaglia, non ero mai libero di riposare, ma colui che non
riesce a riposare non riesce a sopravvivere alla battaglia. Un
giovane rivoluzionario bianco, generalmente, resta più romantico di
un nero. I bianchi sono riusciti a vivere vite intere in questo stato
euforico, ma i neri non sono stati così fortunati. Un nero che vede
il mondo come lo vede John Wayne, per esempio, non sarebbe un
eccentrico patriota, ma un delirante maniaco. La verità è che
questo paese non sa che farsene della sua popolazione nera, a parte
sognare qualcosa simile alla “soluzione finale”.
So molto bene che i miei antenati non desideravano venire qui: ma neppure gli antenati delle persone che sono diventante bianche e che pretendono una canzone sulla mia schiavitù. Pretendono una canzone da me, non per celebrare la mia, ma per giustificare la loro.
Mi
ha sempre colpito dell’America la sua sconfinata povertà emotiva,
e il terrore della vita e del tocco umano sono così profondi che
virtualmente nessun americano sembra in grado di avere un legame
sostenibile e naturale tra posizione pubblica e privata. Questo
fallimento della vita privata ha sempre avuto un effetto devastante
sulla condotta pubblica americana e sulle relazioni tra neri e
bianchi. Se gli americani non fossero così terrorizzati da loro
stessi, non sarebbero mai diventati così indipendenti da quello che
chiamano “il problema negro”.
Questo
problema, che hanno inventato per salvaguardare la loro purezza, ha
fatto di loro dei criminali e dei mostri e li sta distruggendo. E non
per quello che i neri fanno o non fanno, ma a causa del ruolo che la
colpevole e limitata immaginazione bianca ha assegnato ai neri.
È impossibile accettare la premessa della storia, una premessa basata sulla profonda incomprensione americana della natura dell’odio tra neri e bianchi. La radice dell’odio del nero è la rabbia. Non odia i bianchi di per sé, vuole solo che gli stiano lontano e, più ancora, li vuole lontani dai suoi figli. La radice dell’odio del bianco è il terrore, un terrore profondo e indefinibile, che si concentra su questa figura spaventosa, un’entità che vive solo nella sua mente.
Quando Sidney (Poitier, nel film La parete di fango di Stanley Kramer, Ndr) salta dal treno, i progressisti bianchi erano felici. Ma quando i neri lo vedevano saltare dal treno, urlavano: “Torna sul treno sciocco!”. Il nero salta dal treno per rassicurare i bianchi, per far loro sapere che non sono odiati, che nonostante abbiano commesso errori umani, non hanno fatto nulla per essere odiati.
Nonostante i fiabeschi miti che prosperano in questo paese a proposito della sessualità dei neri, i neri sono ancora utilizzati, nella cultura popolare, come se non avessero alcuna caratteristica sessuale. Sidney Poitier, come artista nero e come uomo, si trova a fronteggiare l’infantile e furtiva sessualità di questo paese. Lui e Harry Belafonte per esempio, sono sex symbol, anche se nessuno osa ammetterlo e tantomeno osa utilizzarli come ogni altro uomo di Hollywood.
In questo paese i neri sono stati derubati di tutto e non vogliono essere derubati dei loro artisti. I neri hanno particolarmente disprezzato Indovina chi viene a cena?, perché hanno pensato che Sidney venisse usato contro di loro. Quel film potrebbe essere considerato, bizzarramente, una pietra miliare, perché è impossibile andare oltre in quella particolare direzione. Successivamente dovrebbero iniziare i baci.
So bene che nei film americani gli uomini non si baciano, né lo fanno, perlopiù, in America. E qui (in La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jewison) il detective nero e lo sceriffo bianco non si baciano.
Ma l’obbligatorio bacio in dissolvenza, nel classico film americano, non parla d’amore né, tantomeno, di sesso: parla di riconciliazione, di tutte le cose che ora diventano impossibili.
Molto tempo fa, conoscevo una ragazza bionda del Village e non parlavamo mai insieme fuori di casa. Lei era più al sicuro da sola per strada che accanto a me, un fatto brutale e umiliante che distrusse ogni tipo di relazione che io e quella ragazza avremmo potuto avere. Questo succede di continuo in America, ma gli americani devono ancora capire quanto sia infame questo fatto e cosa rivela su di loro. Quando uscivamo la sera, lei usciva prima di me, da sola. Io le davo cinque minuti, poi uscivo da solo, prendevo un’altra strada e la incontravo in metropolitana. Fingevamo di non conoscerci. Salivamo in carrozza, seduti alle estremità opposte, e camminavamo, separatamente, per le strade dei liberi e dei coraggiosi per andare dove eravamo diretti, a casa di un amico o al cinema.
Qualcuno, una volta, mi ha detto che, in genere, le persone non riescono a sopportare troppa realtà. Voleva dire che preferiscono la fantasia a un’accurata riproduzione della loro esperienza. Le persone hanno già abbastanza realtà da sopportare semplicemente vivendo la loro vita, crescendo i figli, sopportando gli eterni fardelli di nascita, tasse e morte.
Parlo come membro di una democrazia e di un paese molto complesso, che insiste a essere di vedute assai ristrette. Si pensa che la semplicità sia una grande virtù americana, insieme alla sincerità. Uno dei risultati è che anche l’immaturità è considerata una virtù. Così una persona come John Wayne, che ha passato gran parte del tempo sullo schermo a punire indiani, non aveva bisogno di crescere.
Ero a Londra, proprio quella notte. Eravamo liberi e decidemmo di concederci una cena di lusso. Il capocameriere disse che c’era una telefonata per me. Mia sorella Gloria si alzò per rispondere. Quando tornò, sembrava molto strana. Non disse nulla e io iniziai ad aver paura di chiedere. Poi, sgranocchiando qualcosa che non stava gustando, disse: “devo dirtelo, perché la stampa sta arrivando. Hanno appena ucciso Malcolm”.
Quello
che sto cercando di dire a questo paese, a noi, è che dobbiamo
sapere una cosa, dobbiamo capire una cosa: che nessun altro paese al
mondo è stato così grasso e untuoso, così sicuro e felice, così
irresponsabile e così morto. Nessun altro paese può permettersi di
sognare una Plymouth e una moglie, una casa con lo steccato, i figli
che crescono sicuri per andare al college, diventare dirigenti e poi
sposarsi per avere la Plymouth, la casa e così via. Moltissime
persone non vivono così e non possono immaginarselo e non sanno che
quando parliamo di “democrazia” è questo che intendiamo.
L’industria è costretta, per come è
strutturata, a presentare al popolo americano una fantasia della vita
americana che si autoalimenta. Il loro concetto di
intrattenimento è difficile da distinguere dall’uso dei narcotici.
Guardare la tv per qualsiasi lasso di tempo significa imparare cose
spaventose sul senso della realtà americano. Siamo crudelmente
intrappolati tra quel che vorremmo essere e quel che siamo davvero. E
non potremo verosimilmente diventare quel che vogliamo finché non
saremo disposti a chiedere a noi stessi perché la vita che
conduciamo su questo continente sia così vuota, scialba e brutta.
Queste immagini non sono concepite per turbare, ma per rassicurare.
Indeboliscono la nostra capacità di fare i conti con il mondo così
com’è, con noi stessi per come siamo.
Tutte
le nazioni occidentali sono intrappolate in una menzogna, la menzogna
del loro presunto umanesimo. Questo significa che la loro storia non
ha giustificazione morale e che l’Occidente non ha autorità
morale.
“Per
quanto io sia spregevole” afferma uno dei personaggi de L’idiota
di Doestoevskij, “non credo ai carri che portano il pane
all’umanità. Poiché codesti carri che portano il pane all’umanità
possono escludere con perfetto sangue freddo dal godimento di ciò
che portano una parte cospicua del genere umano”.
Per
lunghissimo tempo, l’America ha prosperato: questa prosperità è
costata la vita a milioni di persone. Ora neppure le persone che sono
i più spettacolari destinatari dei benefici di questa prosperità
sono in grado di sopportare questi benefici: non possono né capirli
né rinunciare a essi. Soprattutto, non riescono a immaginare il
prezzo pagato dalle loro vittime, o soggetti, per questo modo di
vivere e non possono permettersi di sapere perché le vittime non si
ribellano.
Questa
è la formula per il declino di una nazione o di un regno. Perché
nessun regno può sostenersi con la sola forza. La forza non funziona
come pensano i suoi sostenitori. Per esempio, non mostra alla vittima
la potenza dell’avversario. Al contrario, rivela quella debolezza
che è il panico dell’avversario e questa rivelazione investe la
vittima di passione.
C’è
un giorno a Palm Spring che ricorderò per sempre, una bella
giornata. Ero a Hollywood, al lavoro sulla versione cinematografica
della Autobiografia
di Malcolm X.
Era un incarico difficile, perché dopotutto avevo conosciuto
Malcolm, avevo incrociato la spada con lui, avevo lavorato con lui e
ne avevo grande stima, cosa non facilmente distinguibile, se
possibile, dall’amore.
Billie
Dee Williams era in città e venne a stare da me. Volevo che Billie
Dee avesse il ruolo di Malcolm. Il telefono vicino alla piscina
iniziò a suonare. Risposi io. Il giradischi continuava a suonare.
“Non è ancora morto (Martin Luther King, Ndr) ma ha una ferita
alla testa”. Ricordo a malapena il resto della serata. Ricordo di
aver pianto un po’, più per rabbia impotente che per tristezza, e
che Billie cercò di confortarmi. Ma non ricordo per nulla quella
serata.
La
chiesa era gremita. Nella panca davanti a me sedevano Marlon Brando,
Sammy Davis, Eartha Kitt. Sidney Poiter era lì accanto. Vidi Harry
Belafonte seduto accanto a Coretta King. Fin dall’infanzia sono
riluttante a piangere in pubblico e mi stavo controllando per non
crollare. Non volevo piangere per Martin. Le lacrime sembravano
futili. Ma avevo anche paura, e forse non ero l’unico, che se
avessi iniziato a piangere, non sarei più riuscito a smettere.
Iniziai
a piangere e crollai. Sammy mi afferrò il braccio.
La
storia del negro in America è la storia dell’America. Non è una
bella storia. Cosa possiamo fare? Be’, io sono stanco. Non so come
succederà. Non importa come succederà, se sarà sanguinosa, se sarà
dura. Credo ancora che in questo paese si possa fare qualcosa che non
è mai stato fatto prima. Siamo fuori strada, perché pensiamo ai
numeri. I numeri non servono, serve la passione. E questo è
dimostrato dalla storia del mondo. La tragedia è che la maggior
parte di chi dice di interessarsi, non si interessa. Si curano solo
della loro sicurezza e dei loro profitti.
Lo stile di vita americano ha fallito nel rendere le persone più felici o nel renderle migliori. Non vogliamo ammetterlo e non lo ammettiamo. Continuiamo a credere che gli stolti e i criminali tra i nostri figli siano il risultato di qualche errore di calcolo che può essere corretto; che la sconfinata e futile ostilità che rende le nostre città tra le più pericolose al mondo sia creata, e vissuta, da un pugno di anormali; che la mancanza, dilagante in tutto il paese, di appassionato convincimento e di autorità personale dimostri solo la nostra gradevole tendenza a essere gregari e democratici. Osservare gli Stati Uniti di oggi è sufficiente per far piangere angeli e profeti.
Questa non è la terra dei liberi. Ed è solo malvolentieri e di rado la patria dei coraggiosi.
A
volte penso che sia un assoluto miracolo che l’intera popolazione
nera degli Stati Uniti d’America non abbia ceduto tempo fa a una
violenta paranoia. Le persone vi dicono, tentando di ignorare la
realtà sociale: ”Ma voi siete così rancorosi!”. Forse sono
rancoroso o forse no, ma se lo fossi ne avrei buone ragioni: prima
tra tutte la cecità americana, o la vigliaccheria, che ci permette
di fingere che la vita non offra ragioni per provare rancore.
In
questo paese, per un tempo pericolosamente lungo, sono esistiti due
livelli di esperienza. Uno può essere riassunto dalle immagini di
Doris Day e Gary Cooper: due dei più grotteschi appelli
all’innocenza mai visti al mondo. L’altro, sotterraneo,
indispensabile e negato può esser riassunto nel tono e nel volto di
Ray Charles.
In
questo paese non c’è mai stato un genuino confronto tra questi due
livelli di esperienza.
Non
potete linciarmi e chiudermi in un ghetto senza diventare voi stessi
dei mostri. E oltretutto mi date un vantaggio terrificante. Voi non
avete mai dovuto guardarmi. Io ho dovuto guardarvi. Io so di voi più
di quanto voi sappiate di me. Non tutto ciò che viene affrontato può
essere cambiato, ma niente può essere finché non viene affrontato.
La
storia non è il passato. È il presente. Portiamo la nostra storia
con noi. Noi siamo la nostra storia. Se fingiamo altrimenti, siamo
letteralmente criminali. Io affermo questo: il mondo non è bianco.
Non è mai stato bianco. Non potrai mai esser bianco. Bianco è una
metafora per il potere ed è semplicemente un modo per descrivere la
Chase Manhattan Bank.
Goffredo Fofi: Lezioni americane
Il documentario dedicato alla figura di James Baldwin da Raoul Peck, regista nero e haitiano già autore di un Lumumba e più di recente di un film a soggetto su The young Karl Marx, è stato candidato all’Oscar nella sua categoria ma ovviamente non l’ha vinto e non poteva vincerlo, per la sua radicalità e per l’ignobiltà mercantile di quel consesso. Non è infatti un film minimamente tranquillizante, consolatorio, e al contrario riapre delle ferite storiche, di fatto tornate ad aprirsi nella cronaca con la lunga serie di neri ammazzati dai poliziotti in tempi molto recenti.
I am not your negro non è un film originale dal punto di vista formale, ma lo è per il personaggio che racconta, le cui parole, lette dall’attore nero Samuel L. Jackson, analizzano con rara lucidità e spregiudicatezza la società americana, il suo peccato originale, la sua basilare ingiustizia, la sua incapacità di mettersi in discussione salvo che in isolati esempi etici e intellettuali alti e altissimi. Con James Baldwin viene di ricordare altri neri come Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King, morti ammazzati per le loro idee e tutti e tre amici e compagni di lotta di Baldwin, e l’autore di un romanzo geniale, Uomo invisibile, Ralph Ellison, ma anche, per la libertà e precisione delle loro analisi, saggisti bianchi come Riesman, Wright Mills, Wilson, Fiedler, più di recente Susan Sontag, e pochi altri. Baldwin è stato pubblicato in Italia negli anni Sessanta dalla Feltrinelli, sia i romanzi che i saggi e pamphlet, i primi purtroppo meno importanti dei secondi: Mio padre doveva essere bellissimo, Nessuno sa il mio nome, e La prossima volta il fuoco. I am not your negro, distribuito da Wanted e Feltrinelli Real Cinema che dovrebbe presto metterlo in vendita in forma di dvd, non è diverso quanto a fattura da tanti film o lavori televisivi sulla vita di un personaggio importante – testimonianze, foto, spezzoni di attualità, documentari e film a soggetto – ma ha la forza e la radicalità che gli vengono dal suo protagonista e tuttavia si distingue da quelli per la solidità delle argomentazioni e per il rispetto del personaggio. Diciamo meglio: per la forza e per la radicalità del personaggio.
Il giovane Baldwin, nero e omosessuale, rigorosamente contrario a ogni forma di razzismo (smise clamorosamente di collaborare a una rivista prestigiosa quando vi si pubblicarono articoli antisemiti), era fuggito dagli States per piazzarsi negli anni Cinquanta a Parigi ma vi era ritornato, per l’acuirsi in patria della rivolta nera e del razzismo bianco, negli anni che furono anche della rivolta studentesca, degli hippies, di Julian Beck e Bob Dylan, e dell’ambigua presidenza di Kennedy. Il film di Peck parla della sua azione in quegli anni, del Baldwin pubblico e non del Baldwin letterato, servendosi come traccia di un testo inedito e incompiuto di James, Ricorda questa casa. Se Malcolm X ricordava nell’autobiografia che ne raccolse Alex Haley che da bambino al cinema si identificava in Tarzan e non nei neri suoi nemici o servi, Baldwin si identificava in John Wayne e non nei pellerossa che faceva fuori. E, tra parentesi, l’uso di brani di film di ieri che mostrano i modi in cui i neri vi erano rappresentati, è una perfetta lezione della malafede o della falsa coscienza anche di registi eccelsi come John Ford. Baldwin dice lo scandalo, per lui, di una società così ipocrita da eleggere a suoi emblemi, come modelli di insensata purezza, le immagini di Gary Cooper, eroe di un americanismo senza macchia e senza paura, e di Doris Day, perfetta robottina middle-class deodorata e asessuata. Una cultura “immatura” e “che considera perfino l’immaturità come una virtù”.
Baldwin era figlio di un pastore protestante, e si era nutrito di etica sociale e di fratellanza cristiana. Nel film evoca gli omicidi “di stato” dei tre grandi lottatori che ha conosciuto e amato, ma ricorda (e il film lo mostra) le vittime senza nome della polizia con immagini che ricordano quelle dei disordini recenti e della abituale protervia poliziesca e bianca a danno dei neri, ma soprattutto ragiona e riflette sull’essenza della civiltà Usa, con una radicalità e una lucidità che hanno ancora la forza di provocarci e a tratti sconvolgerci, avvolti come siamo in un americanismo che ha inciso profondamente nella nostra psiche.
Possiamo riassumere questa lucidità in alcune proposizioni tra le tante acutissime che Baldwin – a suo modo storico, sociologo e antropologo ma sulla propria pelle – ci consegna nel suo ultimo testo: il mondo non è bianco e non lo è mai stato, “bianco” è una metafora del potere e perfino un modo di “descrivere le banche”; la storia dei neri degli Usa è la storia stessa degli Usa “e non è una bella storia”; sono i bianchi ad avere inventato il nero e sarebbe loro dovere interrogarsi sul perché. Ciò nonostante, chiude Baldwin, chi è vivo non può e non deve essere pessimista.
Non è pessimista, anche se ha dovuto vedere, come noi attraverso i media, il riproporsi di un razzismo statunitense profondo e feroce, il regista del film, che in un’intervista con Aisha Harris ha detto che “il film mostra come sia utile tornare indietro e cercare di capire cosa sta succedendo, invece che seguire la moda del momento, altrimenti ti confondi e non capisci cosa accade. Baldwin aveva scritto le parole che leggiamo nel film già 40-50 anni fa. E dobbiamo chiederci: come mai sono ancora così pertinenti, così giuste, così efficaci? Perché toccano il vero problema del Paese, il fatto che esistono due mondi paralleli che mai si sono mescolati. Non c’è mai stato un vero e proprio dialogo e la ragione strutturale della discriminazione della povertà non è mai stata affrontata. Non sarà l’elezione di un presidente nero a cambiare qualcosa. Una volta chiesero a Baldwin cosa sarebbe accaduto se finalmente avessimo avuto un presidente nero e lui rispose: ‘Beh, la domanda non è chi sarà il primo presidente nero. La questione è piuttosto di quale paese sarà il presidente’”. Non si tratta per lui di lamentare il fallimento di un progetto e di una lotta, ma la necessità di continuare in quella lotta. Per Peck, si è trattato di rapportarsi al presente cercando “una voce autorevole, una voce intellettuale e innovativa che al giorno d’oggi è assente. Il mio film non è una biografia. C’è Baldwin che parla a noi oggi. C’è la sua parola, il suo pensiero, c’è lui che ci guarda e parla direttamente con noi”.
Abbiamo fortemente apprezzato questo film in quanto film, in quanto lezione di storia, in quanto messa in guardia dalle mitologie americane che i media italiani, loro succubi e complici, continuano a propinarci. Lo consideriamo didatticamente formidabile, non il ricordo di fatti terribili, ma la dimostrazione che quella storia non si è affatto fermata, e che fatti terribili continua a provocarne tuttora, e che probabilmente acuiranno le tensioni interne a un paese dove il potere reale è in mano ancora ai miliardari bianchi, più aggressivi e spregiudicati che mai. Da James Baldwin c’è molto da imparare, ed è utile rileggere i suoi saggi-pamphlet per il loro sguardo nitido acuto appassionato, per non illudersi su quel che da quel paese può venirci e già ci viene.