Il potere selvaggio ovvero le società dell’uguaglianza

Pierre Clastres è stato un antropologo geniale, che nella seppur breve vita ha lasciato opere essenziali per comprendere sia alcune società amerinde (Guayaki, Guaranì, Chulupi) sia il funzionamento delle società tribali nei loro meccanismi sociali e politici. In particolare, la celebre questione sull’origine delle disuguaglianze tra gli esseri umani trova molte risposte nella sua opera del 1974, La società contro lo Stato, che l’editore Elèuthera ha il merito di aver riproposto al pubblico.
La nuova edizione gode della nuova, accurata traduzione di Carlo Milani e di un’efficace introduzione di Roberto Marchionatti, che ha il doppio merito di ricostruire dettagliatamente il contesto storico, la genesi e la struttura dell’opera, nonché la sua importanza negli attuali dibattiti sui selvaggi (penso a Eduardo Viveiros de Castro in particolare) e sulla natura del potere politico (penso a Miguel Abensour). Per Marchionatti “il lavoro di Clastres si configura così come un tentativo di portare avanti allo stesso tempo una ricerca etnografica (in America del Sud) e una riflessione filosofico-politica nel solco del pensiero scettico e illuminista già ripreso da Lévi-Strauss”.
I saggi di Clastres furono per altro molto usati da Guattari e Deleuze, che ebbe a dire: “quanto all’etnografia, Pierre Clastres ha detto tutto, in ogni caso il meglio per noi”. Se i succitati filosofi ebbero presto enorme fama, lo stesso non si può dire per il nostro etnologo, benché con il tempo i riconoscimenti andarono aumentando. L’opera consta di una raccolta dei principali saggi fino ad allora pubblicati solo su rivista dal 1962 al 1973, in cui si va articolando una tesi tanto semplice quanto rivoluzionaria: il passaggio dalle società tribali a quelle aventi degli embrioni di Stato costituisce un fatto doloroso che tali società cercano e riescono a scongiurare, poiché esse scelgono invece di restare senza Stato. Questa scelta volontaria di evitare la schiavitù della disuguaglianza è ciò che ci permette di parlare di società contro lo Stato. Per poter osservare tutto ciò occorre però liberarsi dall’etnocentrismo, già denunciato dal suo maestro Claude Lévi-Strauss: le società primitive non sono mancanti di qualcosa (fede, legge, re e poi ancora scrittura, storia, etc.).
Il potere politico coercitivo deriva da relazioni gerarchiche autoritarie e caratterizza gli Stati e l’Occidente; esso è concepito nella tradizione occidentale come qualcosa di universale e negativo, oppressivo e inevitabile. Per Clastres si tratterebbe però solo di una tipologia particolare di potere, poiché esiste anche una forma di potere non coercitivo, proprio delle società cosiddette “selvagge”. Il “potere selvaggio”, potremmo dire oggi.
Non è dunque possibile dividere le società in due gruppi, quelle senza e quelle con il potere, come si divide l’umanità tra storica e preistorica. Il potere è certo universale, in quanto necessario alla vita sociale, ma si realizza in due modi: potere coercitivo e potere non coercitivo. Il capo delle società tribali è al servizio della società, vero luogo del potere. Il capo qui possiede tre doti: è paciere, è generoso, è un buon oratore, ma raramente è il capo guerriero in una missione bellica. Ciò comporta che “la relazione di politica e di potere precede e fonda la relazione economica di sfruttamento”. L’economico deriva dal politico. Abbiamo così un ribaltamento delle posizioni marxiste per le quali la lotta di classe è il motore della storia e la struttura economica determina la sovrastruttura politica. Come si potrebbe del resto spiegare la storia se all’inizio mancano le classi e lo sfruttamento economico? Il libro si conclude infatti con queste parole: “La storia dei popoli che hanno una storia è, si dice, la storia della lotta tra le classi. La storia dei popoli senza storia è, si dirà in modo altrettanto veritiero, la storia della loro lotta contro lo Stato”.
L’affinità con Marshall Sahlins, autore di Stone Age Economics (anche questa riproposta recentemente al pubblico grazie a Elèuthera) è evidente; del resto Clastres ne curò l’edizione francese con una significativa prefazione. Le società primitive vivono nella ricchezza poiché non hanno bisogno d’altro, né patiscono malattie o altre calamità maggiormente delle società statuali (al contrario), ma soprattutto possono permettersi di non lavorare più di tre ore al giorno. Quando l’amerindiano scopre la produttività dell’ascia, la vuole a tutti costi ma non per produrre dieci volte di più, bensì per lavorare dieci volte meno. Nel campo della tecnica “non c’è una tecnologia superiore e una inferiore.”
Come ha potuto allora sorgere, all’interno delle società primitive, qualcosa che ne ha condotte alcune a farsi Stato? Questo rimane letteralmente un “mistero”, ma ciò che Clastres descrive sono gli sforzi che esse fanno per evitare che il capo comandi, che tale breccia si apra.
All’epoca della scoperta dei conquistatori l’America latina era occupata per lo più da società primitive contro lo Stato. Clastres contribuisce anche a ridare il giusto statuto demografico a popolazioni da sempre sottostimate.
La tesi di Clastres è che il potere non ha un’origine naturale, ma sociale: esso non è intrinsecamente legato alla violenza, alla coercizione, ma può realizzarsi in due modi opposti. Sebbene il termine potere mi sembri terminologicamente ancora oscillante (talvolta sta per potere solo coercitivo talvolta come passibile di entrambi gli esiti), e soprattutto benché resti definito solo negativamente (mancante di coercitività), la nuova categoria è dirompente e ha molto a che vedere con il concetto di autorità portato alla ribalta in occidente dal femminismo nei medesimi anni.
L’idea che una grandissima parte delle società del pianeta non sia rimasta indietro nella storia per mancanza di scoperte tecnologiche ma abbia deliberatamente scelto di permanere in società egualitarie anziché involversi in società statuali obbligherebbe a riscrivere l’intera storia del pianeta, cosa per altro già iniziata (si pensi a Graeber, o a Diamond), dando una lettura radicalmente diversa del passaggio dal nomadismo all’agricoltura. Il pensiero selvaggio, e con esso il potere selvaggio, assume anche un nuovo carattere politico, persino metafisico, che permette di interrogare il mondo globale come nella Metafisiche cannibali di Viveiros de Castro, grande ammiratore e interlocutore di Clastres, o in Come pensano le foreste di Eduardo Kohn, per citare due direzioni dell’antropologia contemporanea che da Clastres attingono.
Le società indigene sono uscite dalla lunga notte dell’oppressione con le sollevazioni che in Chiapas, Bolivia, India e Venezuela – così come in sempre più posti del mondo – hanno iniziato a chiedere il riconoscimento dei loro diritti. In Chiapas uno slogan dei popoli Maya insorti era proprio mandar obedeciendo (“comandare obbedendo”), una rivisitazione tardo moderna del potere selvaggio. Il libro di Clastres è indispensabile nel XXI secolo. Pur affrontando le questioni filosofiche essenziali, stupisce per la nitidezza e profondità concettuale, qualità rare nella saggistica francese: Clastres indica le società che hanno scelto l’uguaglianza, nel mondo di oggi ancora demograficamente sottovalutate, come esemplari per il mondo di domani.