Il colonialismo d’insediamento israeliano

Nel durissimo editoriale di Haaretz, del 26 giugno scorso, Netanyahu è definito “Mr Jewish Terrorism”. Gli è attribuita in toto la responsabilità della gravissima crisi in corso nei Territori occupati, e in particolare gli atti di “terrorismo ebraico” (sic), divenuti sempre più frequenti e devastanti nel corso degli ultimi mesi. “Sotto la sua guida – secondo l’articolo – i palestinesi sono diventati facili bersagli per gli assalitori, umiliati i loro leader, calpestate le loro aspirazioni nazionali, confiscate le loro terre mentre si dava ai coloni l’autorizzazione tacita a dare libero sfogo al potere inebriante della supremazia ebraica”. Il termine terrorismo, se applicato a cittadini israeliani ebrei ha un potenziale dirompente e non dovrebbe mai essere usato con leggerezza. Questa volta, tuttavia, sono gli stessi servizi di sicurezza a utilizzare il termine. Il Capo di Stato Maggiore dell’esercito Herzl Halevi, Il Direttore dello Shin Bet Ronen e il Capo della Polizia in un comunicato congiunto hanno affermato che si tratta di attacchi “che contraddicono ogni valore ebraico e morale; essi si configurano come terrorismo nazionalistico che noi siamo impegnati a combattere”. Peccato che in tutto questo tempo a sostenere o consentire le azioni dei coloni siano stati proprio l’esercito e la polizia.
Sempre il 26 giugno, sul New York Times, Ori Nir di Americans for Peace Now illustrava la pericolosa accelerazione – dangerous shift – in corso nei Territori. Nei primi sei mesi dell’anno, a partire dal bombardamento di Gaza seguito dall’attacco a una sinagoga di Gerusalemme da parte di un attentatore palestinese, in cui 7 ebrei furono uccisi, è stato un succedersi di incursioni da parte di esercito e coloni sia nelle città sia nelle campagne. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie, UNOCHA, sono stati 570 gli attacchi di vario tipo da parte dei coloni contro i residenti palestinesi nei primi sei mesi dell’anno. Tra gli occupanti, secondo Nir, appare sempre più realizzabile l’aspirazione di fondo che guida il movimento messianico maggioritario tra i coloni, vale a dire l’espulsione dei Palestinesi. Nel 1988, a una manifestazione nei Territori, Ori Nir sentì la parola geyruth (espulsione, in ebraico), urlata da un colono che era appena immigrato dagli USA. Una possibilità che appariva assolutamente irrealizzabile allora. Oggi, con questo governo, che ha nominato due coloni oltranzisti quali Itamar Ben Givir, Ministro per la Sicurezza, e Bezalel Smotrich, Ministro delle Finanze con responsabilità sull’amministrazione civile dei Territori, affidandogli la gestione e il destino della Cisgiordania , quello che era un sogno utopistico all’indomani del 1967 comincia ad apparire oggi un progetto realizzabile. L’intenzione di annettere tutta l’area C, vale a dire il 60% dei Territori, che secondo gli Accordi di Oslo doveva essere gradualmente ceduta all’Autorità Palestinese, ma che ora ospita tutti gli insediamenti ebraici, era stata già ventilata dai precedenti governi. Ora essa è riaffermata con chiarezza non soltanto dai coloni oltranzisti i quali credono che la loro presenza nella Terra della Bibbia sia parte di un disegno divino, ma anche dal Governo che hanno contribuito ad eleggere e in cui ricoprono ruoli di primissimo piano.
L’espulsione dei nativi è caratteristica cardinale del colonialismo d’insediamento. Se ne vedevano i prodromi sia nella confisca delle terre da parte dell’esercito per esigenze militari, poi destinate alla costruzione di nuovi insediamenti, sia nelle azioni dei No’ar HaGva’ot, i “giovani delle colline”,, coloni illegali anche per la legge israeliana, che per decenni hanno attaccato i residenti palestinesi, distruggendo i raccolti e gli uliveti, appropriandosi delle sorgenti d’acqua, intimidendo e minacciando, anche grazie alla protezione dei soldati. Ora tale deriva è divenuta ancora più marcata con il pogrom, così definito da Haaretz, compiuto a Hawara a febbraio come rappresaglia per l’uccisione di due coloni da parte di attentatori palestinesi. Allora furono date alle fiamme abitazioni e auto e un palestinese rimase ucciso.
Come ci ricorda Amira Haas in un articolo uscito su Haaretz il 1 luglio, quei giovani delle colline non sono un elemento marginale nell’opera di espulsione e acquisizione di terre. Essi sono attivi dalla seconda metà degli anni ’90 e sono stati gli artefici dell’acquisizione con violenza di terre appartenenti ai villaggi di Jalud, Qaryut, Turmus Ayya, al-Mughayir, e Sinjil, a nord di Ramallah sulle quali sono stati costruiti gli insediamenti di Shiloh ed Eli. Con gli stessi metodi e con il supporto dell’esercito, altri insediamenti – Itamar e Elon Moreh – sono stati costruiti appropriandosi con la forza delle terre di Beit Dajan, Yanun, Deir al-Hatab e Salem, villaggi a est di Nablus. E questo è quello che sta succedendo oggi nella Valle del Giordano e nelle colline a sud di Hebron. Gli avamposti per pastori spuntano come funghi dopo la pioggia e insieme ai pastori arrivano i giovani volontari il cui ruolo è di intimidire e attaccare i residenti palestinesi. In Giudea e Samaria, circa 200 avamposti, illegali anche per la legge israeliana, controllano circa 200.000 dunam (20.000 ettari)”.
Il fatto nuovo è l’operazione militare lanciata all’alba del 3 luglio su Jenin, che ha lasciato sul terreno 13 morti tra cui un militare israeliano. La cittadina, con una tradizione di resistenza all’occupazione che risale ai tempi del Mandato britannico, era già stata bersaglio il 19 giugno di un attacco da un elicottero che aveva provocato la morte di 5 persone, tra cui un bimbo di 5 anni, e 90 feriti, cui era seguita un’incursione con droni su una cellula di resistenti. Tutto questo costituisce una pericolosa accelerazione, anzi, secondo Amjad Iraqi, direttore della pubblicazione online +972 Magazine, apre una nuova fase in cui andrà sempre più applicandosi anche ai maggiori centri del West Bank lo schema Gaza. Gaza diventa il modello per controllare e indebolire i nativi ristretti in uno spazio assediato utilizzando armi e tecnologie avanzate. E’ il futuro in serbo per nuclei di ribellione alla durissima occupazione militare, attivi soprattutto Jenin e Nablus, già sottoposti a varie forme di chiusure e invasioni quali maggiori centri di vita sociale e resistenza in cui si formano gruppi armati composti da giovani che hanno conosciuto soltanto una vita segnata da disperazione e morte. Non più o non solo irruzioni di truppe o assalti di coloni ma, come a Gaza, droni e jet. Se l’espulsione non sarà possibile l’alternativa, secondo Iraqi sarà la gazificazione del territorio con la creazione di aree di bantustan. Bantustan che andranno sempre più popolandosi a causa dell’esodo dei palestinesi dai villaggi situati nei pressi degli insediamenti o da territori destinati ad ospitare i nuovi appena preannunciati dall’attuale governo. Com’è accaduto a Ein Samiya, un villaggio a nord di Ramallah: nel maggio scorso, tutti i suoi 200 abitanti hanno raccolto le loro poche cose e sono fuggiti a causa delle continue, spietate incursioni dei coloni vicini.
Un osservatore attento come Peter Beinart, su Jewish Currents, il 19 aprile scorso, si domanda, invece, se Israele potrebbe portare a termine un’altra Nakba, per concludere che la quota di israeliani favorevoli all’espulsione non è marginale. Per Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallah, si collocano in una forbice che va dal 32 al 58%. Sempre secondo Shikaki, il 65% dei palestinesi ritiene che questo sia l’obiettivo di tutto, anche delle tentate riforme legislative volte a limitare i poteri della Corte Suprema. Tale idea è stata sempre molto diffusa nella storia del sionismo, ed ha ripreso vigore con gli attuali governanti suprematisti. Nel 1967 dalla Cisgiordania furono espulse centinaia di migliaia di persone soprattutto da aree considerate strategiche come Gerusalemme est, Latrun e la Valle del Giordano. A Jenin l’esercito, nei giorni scorsi, ha incoraggiato i residenti a fuggire e si sono viste scene che ricordavano quelle del ‘48. Secondo Beinart, un’altra Nakba è possibile. Nel pretendere che non lo sia, l’Amministrazione americana opportunisticamente evita di porsi una domanda scomoda ma vitale: cosa fare per impedirlo?
Michael Barnett, della George Washington University, ha osservato che i “fattori di rischio” elencati dalla Nazioni Unite per il genocidio e le forme “minori” di violenza organizzata in un dato paese, vale a dire: gravi violazioni dei diritti umani, discriminazione sistematica nei confronti di un gruppo vulnerabile, attacchi diffusi contro i civili e il movente e la capacità di commettere atrocità più ampie sono tutte drammaticamente rilevabili in Israele. Un fattore di rischio chiave, secondo Barnett, sono le “situazioni di conflitto armato”. “Non è un caso che le due maggiori espulsioni di Israele, nel 1948 e nel 1967, siano avvenute durante la guerra. Che si tratti di Israele-Palestina, dell’ex Jugoslavia negli anni ’90 o dell’Etiopia settentrionale oggi, la guerra consente la pulizia etnica. La guerra – conclude Beinart – fornisce una scusa ai governi per deportare civili e negare l’accesso ai giornalisti e agli osservatori internazionali che potrebbero documentare ciò che sta accadendo sul campo”.