Il bene, il male e i loro campioni

Il brano che riproponiamo è tratto da I vagabondi efficaci (pubblicato per la prima volta nel 1947 e riedito nel 2020 dalle Edizioni dell’asino https://asinoedizioni.it/libro/i-vagabondi-efficaci/), titolo molto felice che sintetizza il lavoro che Deligny tentava di fare con i cosiddetti ragazzi difficili: non tanto normalizzare dei disadattati, ma rendere efficace il loro disadattamento. Creare le condizioni perché l’“inefficacia”, alienante, manipolabile e autolesionista del loro disagio, potesse trasformarsi in pulsione vitale, autodeterminazione, spinta creativa. Caratteriali, in pericolo morale, disadattati, deficienti intellettivi, anormali, vagabondi, epilettici, piromani, violentatori, ladri, sifilitici, canaglie, che covano ingratitudine, pubblicassistenziano, si masturbano l’esistenza, recidivi, disadattati sociali, alcolisti ereditari…sono solo alcune delle definizioni che, giocando con le categorie giuridiche, pedagogiche, diagnostiche, Fernand Deligny usava per descrivere alla società per bene i ragazzini con cui lavorava. Ci sono tornate in mente leggendo le cronache di questi giorni.
Nel 1945 ho scritto Graine de crapule dopo aver vissuto alcuni anni con i bambini disadattati. Un piccolo libro nato dagli avvenimenti casuali delle giornate. Amaro, mi è stato detto
Amaro? L’entusiasmo del primo sforzo mi aveva suggerito questi ritornelli improvvisati mentre camminavo
Incaricato – tanto queste formulette erano piacevoli per tutte le orecchie? – di dirigere un centro d’osservazione per i bambini difficili e deciso a non lasciar perdere e scemare, nella confusione del quotidiano, le piccole formule scritte da me stesso, ero in dovere verso i lettori di Graine de crapule di redigere gli «appunti di viaggio» in cui raccontare loro come l’esperienza strapazza o sostiene la fragile «flottiglia» – alcuni la pretendono tutta di carta, adorna d’utopia – dei principi dell’educazione attiva.
Ho potuto cogliere sul fatto i naufraghi vergognosi di questa flottiglia. Le testimonianza che mi sono pervenute da parte di altri educatori alle prese con le difficoltà che sono state le mie, mi inducono a individuare chiaramente i nemici dell’infanzia, nemici spesso incoscienti, poiché sono, innanzitutto, nemici di loro stessi, fin dalla prima giovinezza. Ho avuto occasione di rincontrarli spesso, perché la loro avanguardia milita nelle istituzioni di educazione e il loro stato maggiore siede nei comitati, nei consigli, nelle associazioni che si incaricano di proteggere l’infanzia. L’abilità di questa gente nell’accettare e assimilare apparentemente delle verità che non osano contraddire, trova l’eguale solo nell’abilità paziente che impiegano nell’evitare l’applicazione sincera dei principi pericolosi per le comodità morali e sociali di cui sono i rappresentanti patentati e prudenti.
Pullulano intorno a bambini in pericolo «morale», delinquenti o disadattati. Fautori subdoli di un ordine sociale marcio che crolla ovunque, si affaccendano intorno alle vittime più manifeste della frana: i bambini miserabili. Importuni e tenaci, si ammassano come mosche e la loro attività ronzante e benefattrice camuffa un semplice bisogno di approfittare di questa carne appena vivente per i propri desideri di obbedienza servile, di conformismo fiacco e di moralismo da strapazzo.
Impiegano volentieri un termine magnifico, sontuoso di stupidaggine, perla che si ingrossa con le secrezioni di mille comitati attaccati al tavolo delle riunioni amministrative, come ostriche alla loro roccia: la correzione morale. Come se i bambini avessero, da qualche parte, un pezzo, non si sa bene di che cosa, ben diritto presso gli uni, contorto presso gli altri, un pezzo che si foggerebbe, a forma di spina dorsale ricurva, a piccoli colpi di esempi, a piccoli colpi di tre biscottini, nei giorni di visita o di grande festa.
Tutti questi piccoli pezzi amministrativi nascondono la fiacchezza del loro carattere nella loro situazione sociale, come il paguro bernardo protegge la sua panda in una conchiglia presa a prestito. Proprio loro, che sono degli insufficienti sociali, docilmente rassegnati ad un impiego monotono, notoriamente inefficace, che cosa possono capire di bambini che hanno l’inverosimile audacia di manifestare delle turbe di comportamento?
Amano l’ordine, le relazioni scritte dietro cui nascondersi e le maldicenze orali per essere informati. Ignorano quello che un gruppo di ragazzini può consumare d’energia, di chiodi, di mattoni, di suole, di tempo, di idee, di tutto, di tutto.
Una istituzione «amministrata» bene;ciò significa che tutto quello che in essa vive finirà ben presto per morire?
In questa eterna lotta degli attivi contro i passivi, io mi appello agli psicologi, agli psichiatri, ai biologi, ai pedagoghi che partono alla scoperta dell’uomo senza recepire gli appelli disperati degli educatori che, lasciati al caso nei loro istituti, tentano di aiutare a vivere i bambini riuniti intorno a loro, e si sentono subdolamente lasciati affondare, i bambini e loro stessi, nelle «circostanze» desuete e meschine imposte dalle attuali amministrazioni.
Educatori…? Chi siete? Formati, come si dice, in tirocini o in corsi nazionali o internazionali, istruiti senza alcuna preoccupazione preliminare di sapere se avete in corpo un minimo d’intuizione, d’immaginazione creativa e di simpatia verso l’uomo, imbevuti di terminologia medico-scientifica e di tecniche abbozzate, vi si lascia andare, per lo più figli infantili della borghesia, ancora richiusi in voi stessi come una conchiglia, in piena miseria umana.
E, bene o male, piccole marionette di qui, piccoli cori di là, test e richiami, complessi e statistiche, congressi e relazioni, tessono una rete che nasconde questa misteriosa lordura sociale dell’infanzia disadattata che crepa in tuguri, è accolta male nelle case borghesi, si corrompe, anche più spesso di quanto non si voglia dire, negli annessi di una prigione o di istituzioni disumane.
… Eccomi da quasi dieci anni fra coloro che appiccano fuoco alle fattorie, rubano il carbone sulle chiatte, commettono frodi e fanno i vagabondi, questi rifiuti di meno di diciotto anni che compiono crimini e sono ingrati, pubblicassistenziano, e si masturbano l’esistenza. Sifilide, alcool, tubercolosi, indiscutibilmente. Topaia, stalla umana, madri puttane e il padre sulla figlia, tutto questo va da sé.
Ce l’ho moltissimo col cancro capitalista che, come si dice, arriva a colpire il cuore. È probabile che puzzerà ancora per un momento nella Cité. Ma domani?
Sarebbe un peccato che nelle città-giardino, nelle scuole esposte al sole, i bambini fossero grigi, monotoni e docili, inebetiti da secoli di diffidenza verso l’uomo.
Dunque, da dieci anni, io sono spesso con «loro», senza un’oncia di dedizione, e con alcuni ragazzi e ragazze per cui provo amicizia. E parlo di me stesso, del mio atteggiamento di fronte alle difficoltà pittoresche del mio mestiere. Invento, parlando con loro, riflessioni o intuizioni che non ho avuto. E, da menzogna a simulazione, io mi formo. Divento l’educatore che avrei dovuto essere, un po’ affannato nella rincorsa di questo me stesso da me descritto in momenti di entusiasmo.
… «Ho», come si dice, un bambino. C’è, fra lui e me, una rottura latente: la mia morte che deve giungere una trentina d’anni prima della sua, e apprezzo ogni giorno questa separazione posta tra il «mio» bambino e me, come un angolo che ci allontana l’uno dall’altro, mi orienta verso la mia scomparsa nel momento in cui a lui spetta una vita nuova e vergine.
Ma comprendo meglio come la preoccupazione meschina di eternità individuale porti quelli stessi che non credono più al paradiso, a volersi prolungare, a viva forza, così come sono. Mi sembra di vedere innumerevoli genitori abusivi, portatori di panieri pieni di pregiudizi, avviarsi verso la vecchiaia timorosa a cavallo dei loro figli come arabi sul loro asino.
E quando i genitori non sono là, quando i bambini sono affidati, so io come i panieri si fanno più pesanti, le randellate più feroci e sornione, il vitto più raro, perché i carovanieri vogliono ordine nel piccolo corteo grigio dell’infanzia disadattata, che si avventa e indietreggia o tace instancabilmente.
Amorale? – In ogni caso assolutamente non partigiano della morale «corrente», come si dice in borsa.
Asociale? – Certamente non estraneo a questo ipocrita sfruttamento dell’uomo sull’uomo, a questa eruzione di noia, ad ogni gerarchia prestabilita.
Ma risento l’egoismo come una acrobazia mentale che, alla prima esitazione, vi lascia con le reni rotte al fondo della vostra angoscia.
Allora io cerco in compagnia di coloro che non hanno trovato.