Fuori i soldi! Lavoro, welfare, reddito
“Oggi lavorare meno è un traguardo che, forse a differenza di un tempo, non si può raggiungere ex lege normando la durata della giornata lavorativa, ma richiede una trasformazione radicale che va ben oltre i confini del mercato del lavoro. Le caratteristiche del lavoro sono quindi condizioni sì necessarie, ma non sufficienti. È infatti indispensabile un cambiamento di paradigma che crei innanzitutto spazi di legittimità politica per questa opzione al di là della sua mera sostenibilità economica. Una trasformazione verso un modello di società in cui il lavoro rivesta un ruolo meno centrale non solo in termini di organizzazione della vita quotidiana e gestione del tempo, ma anche in termini di costruzione delle identità individuali, politiche e sociali”.
Il libro di Sandro Busso “Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche” uscito per le edizioni del Gruppo Abele nel 2023 trae il suo titolo da una canzone popolare di autore o autrice sconosciuti, diventata un inno di lotta fra le mondine. Non è un caso che l’autore abbia scelto di richiamare il canto di quelle lavoratrici che tra ’800 e ’900 vivevano condizioni di lavoro ancora oggi diffuse, nonostante la conquista della giornata lavorativa di otto ore, ottenuta per prime proprio dalle mondine vercellesi nel 1906. E queste condizioni erano e sono: la precarietà dell’impiego, in quel caso stagionale e sottopagato per le donne; il controllo nei campi dei ritmi di lavoro da parte dei sorveglianti, oggi sostituiti da tecnologie digitali che servono per organizzare i processi produttivi ma anche per sorvegliare la forza lavoro; le insalubri condizioni di lavoro nella risaia per le donne esposte a infezioni, malaria, reumatismi, tubercolosi, le stesse di chi oggi lavora esposto alle condizioni ambientali estreme dovute al cambio climatico nelle campagne e nelle città. Il lavoro delle mondine finì grazie all’introduzione dei diserbanti e della meccanizzazione dei campi; ma il lavoro tribolato delle donne non si è esaurito lì.
Nonostante le promesse dell’automazione e del progresso tecnologico, ci ricorda Sandro Busso, il lavoro non è finito soprattutto perché la tecnologia non ha agito per liberare l’uomo dal lavoro, come molti ingenuamente speravano. La tecnologia non è neutrale, è frutto di una scienza del capitale che l’ha pensata invece per spogliare la forza lavoro di ogni forma di controllo sui processi produttivi, rendendo il lavoro sempre più segnato dallo “spettro dell’inutilità”: lavorare non riuscendo più a separare il tempo di lavoro dal tempo del non lavoro, in modo discontinuo, con salari insufficienti a sopravvivere, in modo frammentato e solitario, come “sorveglianti delle macchine” o al servizio delle economie delle piattaforme che hanno permesso la costruzione di una società del consumo di beni e servizi per 24 ore al giorno sette giorni a settimana. Siamo tutti lavoratori a tempo infinito e simultaneamente consumatori a tempo infinito: in definitiva vittime, agenti e riproduttori della nostra rovina.
Il pregio del libro di Busso sta nel partire dall’analisi delle condizioni del lavoro per ragionare su una proposta come quella del reddito di base universale, ancorandola non al non-lavoro o alla disoccupazione, ma ad una indagine sul lavoro contemporaneo e sulla sua insostenibilità sociale. Questo approccio permette all’autore di riflettere criticamente sull’utilizzo del reddito di cittadinanza come strumento di un welfare che ha l’obiettivo non di combattere la povertà ma di regolare i poveri, di piegarli ad una morale del lavoro che è di fatto la medicina amara nascosta dietro l’offerta di un reddito ancorato non alla media dei salari ma alla soglia della povertà, che lo rende quindi meno preferibile del lavoro.
L’obiettivo di questa misura di welfare diventa in questo modo non proteggere le persone dal non-lavoro, ma instaurare una certa pace sociale ed educare al desiderio del lavoro rendendo il reddito di fatto un “galleggiante”, mentre si nuota alla ricerca della terraferma del lavoro.
In questa ottica il welfare non è uno strumento di emancipazione ma una politica attiva di assoggettamento al mercato e come tale utile al rafforzamento del potere dei datori di lavoro e quindi al mantenimento di equilibri di forza a favore dei possessori dei mezzi di produzione.
Spiega Busso: “Gli strumenti attraverso cui questo avviene sono molteplici. Innanzitutto, la temporaneità degli interventi ne costituisce un cardine. Il passaggio da misure pensate per durare finché i bisogni permangono (il famoso slogan «dalla culla alla tomba» che caratterizzava il welfare beveridgiano del dopoguerra) a forme di intervento su un arco temporale definito a priori ha una doppia valenza pratica e simbolica. Da un lato, infatti, de-mercifica le persone per un breve intervallo di tempo per poi restituirle al mercato in una posizione di estrema debolezza. Dall’altro, trasmette il messaggio che le politiche sociali non sono qualcosa su cui si possa fare affidamento in modo stabile, e che dunque poveri e disoccupati devono responsabilizzarsi rispetto alla propria condizione, non rimanendo in attesa di uno «Stato-mamma» che provveda a loro. Altro elemento cruciale è l’idea di attivazione e di potenziamento del capitale umano. Il presupposto, in questo caso, è che le persone non trovino lavoro per una loro mancanza di volontà o capacità (e non per mancanza del lavoro stesso), a cui sopperire attraverso corsi di formazione, tirocini, percorsi volti a potenziare l’occupabilità”.
Seguendo questi spunti viene allora da ragionare sulla vicenda attuale del reddito di cittadinanza. In Italia il criterio della minore preferibilità del reddito di cittadinanza rispetto al lavoro è stato difficile da mantenere, essendo il salario medio in certi settori del mondo del lavoro – quelli più dequalificati in cui sono impiegati maggiormente gli aspiranti a questa misura – pericolosamente vicino alla soglia della povertà garantita dal reddito e potendo le persone anche ricorrere ad un mercato del lavoro informale e nero capace di fungere da integrazione salariale sotterranea. Insomma, poiché reddito di cittadinanza e salario da lavoro sono arrivati quasi ad equivalere abbiamo visto molti coraggiosi imprenditori “che si sono fatti da sé” sia richiedere a gran voce allo stato l’abolizione del reddito sia costruire barricate contro qualsiasi seppur modesto discorso sull’innalzamento a 9 euro del salario minimo (complici sindacati incapaci di vedere che c’è vita e lavoro, purtroppo precario, oltre i contratti collettivi del lavoro) organizzando una sorta di crociata morale contro i “fannulloni”.
[Un breve nota biografica: quando ero cameriera la mia paga oraria secondo regolare contratto era di 5 euro l’ora. Naturalmente le ore lavorate non erano quelle dichiarate in busta paga, e nemmeno quelle pagate: 6 ore di fatto al posto di 4 ore sulla carta a turno. In quel caso il salario minimo a 9 euro avrebbe aiutato, ma forse cambiando gli addendi il risultato sarebbe stato uguale e in busta paga sarebbero arrivate solo due ore di lavoro. Senza controlli sul lavoro e senza solidarietà tra lavoratori ogni discorso non vale].De-mercificare il welfare è la proposta che fa Busso seguendo Gøsta Esping-Andersen, ancorando cioè i suoi servizi al riconoscimento di diritti e non a condizioni di “merito” individuale, come quello del formarsi alla flessibilità e alla prontezza a dire sì a qualsiasi lavoro attraverso il lifelong learning o sottrarsi al ludibrio del non lavoro salariato attraverso la pubblica confessione del proprio desiderio di lavorare.
Fra i tanti nodi che il libro affronta rispetto alla triade lavoro-reddito-welfare continuamente intrecciata nell’argomentazione, due aspetti – tempo e utopia – costituiscono lanci per future riflessioni e mobilitazioni.
La questione del tempo viene infatti posta in modo originale: “Cosa significa, dunque, riprendere il controllo del tempo in una società flessibile e precaria? La durata della giornata lavorativa non sembra più un dato sufficiente a rendere la complessità e le molteplici sfaccettature che l’idea di lavorare meno assume in questa configurazione. Riprendersi il tempo significa poter esercitare un controllo sul quanto, ma anche sul quando lavorare. Quanto nella giornata o nella settimana, quando il lavoro è relativamente stabile, ma anche quanto nell’anno o negli anni quando il lavoro diventa precario o intermittente. Significa però anche una ragionevole previsione del per quanto tempo, operazione necessaria a circoscrivere un’incertezza del futuro i cui esiti possono essere paralizzanti o patologici. È però necessario che questa mole di lavoro da contenere possa anche essere distribuita in modo ragionevole. Decidere il quando non ha solo a che fare con gli orari notturni o concentrati oppure con i turni, ma anche con un orizzonte temporale più lungo che riguarda l’intero corso di vita. Se nel principio del «lavorare meno, lavorare tutti» è implicita una redistribuzione orizzontale del lavoro, appare altrettanto importante la possibilità per ogni individuo di una «redistribuzione verticale» del lavoro nel tempo, per correggere le asimmetrie di un’entrata tardiva nel mercato del lavoro, di periodi di intensità elevata che spesso coincidono con il periodo riproduttivo o di maggior salute, o dalla mobilità e incertezza dell’età di pensionamento”.
In questo senso la lotta per sganciare il diritto alla riproduzione della propria vita singola e collettiva dal lavoro, dalla produttività e dal monopolio di un capitale che accentra la ricchezza sociale e naturale nelle mani di pochi rappresenta sì una utopia, ma una utopia che mette in moto riflessioni radicali su come sono organizzate le nostre società. Le alleanze fra le generazioni, come quelle viste nelle lotte contro la riforma delle pensioni in Francia; la possibilità di decidere collettivamente gli usi della ricchezza e delle risorse non nel consumo generalizzato di massa ma ad esempio nella tutela delle condizioni di riproduzione della vita degli umani e dei non umani sulla terra, portata avanti dai movimenti ambientali e per la cura; la possibilità di non pensare l’operosità e l’azione umana tutta inglobata all’interno del lavoro salariato, come avviene nelle rivendicazioni sul reddito di base incondizionato, rappresentano piste concrete di una utopia che aspira a divenire futuro.
Diritto al tempo e utopia quindi vanno rilegittimate culturalmente per poter essere pensabili, enunciabili e ridiventare operativamente nuovi ambiti di lotta.
Sciur padrun da li béli braghi bianchi,
fora li palanchi, fora li palanchi,
sciur padrun da li béli braghi bianchi,
fora li palanchi ch’anduma a cà.
Signor padrone dalle belle braghe bianche,
fuori i soldi, fuori i soldi,
signor padrone dalle belle braghe bianche,
fuori i soldi che andiamo a casa.
Cantavano le mondine. Dove per casa si intende il luogo non del nostro ritiro nel privato ma del nostro fare per noi, un sito di resistenza, dove dedicarsi al vivere, al crescere, alla costruzione della comunità e anche al morire in modo degno.