Forza, coraggio e gioia. La scelta dei No Tav

Carlo Bachschmidt, architetto e documentarista, è il regista di La Scelta, un film che racconta la storia del Movimento No Tav attraverso lo specchio di alcuni attivisti della Val di Susa. Lo abbiamo incontrato in occasione del 40° Torino Film Festival dove il film è stato presentato fuori concorso, lo scorso 26 novembre. Bachschmidt aveva già collaborato all’organizzazione del Genoa Social Forum nel luglio 2001 ed è poi stato perito per l’analisi delle registrazioni video nei processi successivi per le violenze subite dai manifestanti. Da quel materiale ha tratto Black Block, un film prodotto da Fandango con il patrocinio di Amnesty International e presentato a Venezia nel 2011, che ricostruisce le violentissime vicende di quei giorni attraverso il racconto di sette testimoni; il film è accompagnato da un libro omonimo Black Block. La costruzione del nemico (Fandango 2011). Bachschmidt ha messo a disposizione le proprie competenze anche per ricostruire, grazie ai filmati, la realtà dei fatti rispetto alle accuse della Procura nei processi tenuti nell’aula bunker del tribunale di Torino contro diversi militanti No Tav.
Oltre a Bachschmidt, La Scelta ha come co-autori e co-produttori Michele Ruvioli e Stefano Barabino, quest’ultimo ha curato anche la fotografia. È un lavoro autoprodotto – con fatica, sottolinea il regista – che segue le vicende del movimento dall’interno, nell’arco degli ultimi 10 anni. Suddiviso in tre parti: forza, coraggio e gioia il film riprende gli attivisti in momenti di quotidianità e riflessione personale mentre vivono il loro territorio, o di lotta collettiva durante proteste, assemblee, processi e passeggiate verso i cantieri che da decenni sorgono in valle senza avere mai scavato un metro del tunnel di base. Quest’opera alza il livello di riflessione sulla lotta della Val di Susa: non si tratta di una battaglia locale o di uno scontro fra visioni economiche e sociali diverse; in discussione c’è l’incapacità della politica di rappresentare altro se non se stessa in contrapposizione con le forme di soggettività e partecipazione che, nonostante la repressione, il movimento è ancora capace di esprimere e condividere (E.F.).
Abbiamo voluto seguire il movimento in diverse fasi. Quella iniziale per noi è stata subito dopo gli espropri e l’installazione del cantiere a Chiomonte nel 2011, con i blocchi autostradali a Chianocco, quando Luca Abbà è caduto dal traliccio e c’è poi stata una sorta di chiamata nazionale che ha risvegliato molti. Io ero a Genova, avevo appena finito di lavorare al decennale del Social Forum e stavo promuovendo Black Block. Insieme a Stefano e Michele abbiamo deciso di salire in valle perché ci sembrava che questa lotta avesse caratteri diversi da quelle precedenti. Un po’ lo sapevamo, perché i No Tav erano stati a Genova dieci anni prima. La loro storia è più antica di quella di molti altri movimenti che sono stati protagonisti a Genova. Sapevamo che era una lotta di territorio, intergenerazionale, trasversale a molte realtà. Ci incuriosiva. Osservando le reazioni che passavano su internet e la campagna mediatica montata contro di loro abbiamo immaginato che queste persone fossero interessanti dal punto di vista politico e umano. Volevamo conoscerle perché forti dell’esperienza precedente avevamo presenti i meccanismi interni ai movimenti, avevamo la percezione che questo fosse diverso. Ci siamo stabiliti in valle per circa un anno. La prima persona che abbiamo conosciuto è stata Nicoletta Dosio, che ci ha accolti nella trattoria La Credenza di Bussoleno. Lì è stato possibile conoscere moltissime persone e le tante sfaccettature di questa lotta, durante le manifestazioni o le passeggiate al cantiere e in tutte le occasioni di incontro, dai Cattolici per la vita della valle agli anarchici a singole famiglie o persone interne al movimento.
Abbiamo seguito le loro storie finché non si sono tramutate in vicende processuali che hanno sorpreso gli stessi valsusini: non era mai capitato che centinaia, addirittura più di mille No Tav, venissero indagati e moltissimi mandati a processo più volte. Io stesso, che conosco parte degli avvocati difensori perché erano presenti già a Genova, ho lavorato con loro come consulente entrando nelle aule del tribunale come perito e ho seguito alcuni procedimenti tra i più importanti e ho potuto conoscere l’impianto accusatorio, le prove e il lavoro che veniva svolto dalla Procura di Torino, ho visto la tenacia con la quale si lavora a ritmi serratissimi sui fatti della valle e questo mi ha colpito perché a differenza di Genova ci sono un’organizzazione e un impegno economico assai più consistenti.
Siamo rimasti coinvolti e un po’ travolti anche noi ma non eravamo già più in Val di Susa. Tornati a Genova, salivamo periodicamente per capire come si evolveva la lotta. Abbiamo seguito alcune persone, molte più di quelle rappresentate nel film; abbiamo voluto condividere anche aspetti personali, vivendo insieme a loro. Questo per un documentarista è fondamentale.
Abbiamo incrociato l’esperienza di Davide Grasso, che è stato combattente volontario con lo YPG, l’unità di protezione popolare del Kurdistan siriano. Abbiamo inserito nel film la sua storia che porta oltre la Val di Susa perché al suo rientro aveva cambiato visione su alcune questioni ideologiche, perché in quel contesto aveva dovuto misurarsi direttamente con una realtà ben più impegnativa dello stare sotto le reti di un cantiere. Ci interessava capire la risposta della Val di Susa anche su questo, sono diversi i No Tav andati in Kurdistan e ci interessava il loro riscontro.
Il percorso del film è stato lungo. Abbiamo dovuto fermarci per il Covid, le ultime sequenze sono quelle dell’arresto di Nicoletta Dosio a fine 2019. Nell’estate 2020 abbiamo fatto ancora un’intervista a Luca Abbà, poi abbiamo deciso che era tempo di ricomporre il racconto. Dal materiale raccolto, avendo vissuto anni con i protagonisti, si vede che siamo cambiati sia noi, sia loro come anche il contesto: ora trovi i giovani che frequentano la valle, il campeggio organizzato ogni anno in occasione del Festival ad Alta Felicità è molto diverso dal primo campeggio di Chiomonte del 2012. Occorreva fare il punto, il materiale era sufficiente non per documentare un cambiamento in questo arco temporale e fare la cronaca dei fatti ma per raccontare come le scelte di queste persone hanno modificato la loro esistenza. La loro è una lotta di territorio ed essendo militanti non fanno differenza tra vita privata e dimensione politica. È una questione che va oltre la questione del TAV – che infatti il film non affronta direttamente – e della valle. Era importante raccontare l’esigenza di chiarire e discutere le decisioni loro imposte da parte di persone convinte delle proprie ragioni e della necessità di confrontarsi. Volevamo riportare l’esperienza di chi ha vissuto questa condizione e, non accettando a priori decisioni imposte, chiede di discuterle. È quello che i No Tav hanno fatto in trent’anni di lotta con tentativi, richieste di tavoli istituzionali che coinvolgessero chi abita il territorio, ricevendo però sostanzialmente una manifestazione di disinteresse da parte della politica. Un disinteresse che poi, come è successo anche a Genova, passa la risposta alle forze di polizia che assumono un ruolo che non compete loro: gestire le questioni politiche con l’ordine pubblico. È evidente che nasce un conflitto e che c’è urgenza di discuterlo. Purtroppo, ogni volta che si parla di No Tav come di altri temi conflittuali tutto è ridotto a una questione di bianco o nero, giusto o sbagliato, soprattutto in relazione ai reati che queste persone possono commettere manifestando. Non si affrontano mai le loro ragioni, mentre in uno stato democratico dovrebbe essere una delle principali sfide: misurarsi con le minoranze e cercare di capire come gestirle politicamente.
Paradossalmente, nonostante la repressione, a Genova nel 2001 c’era una situazione più aperta: c’era ancora uno spazio dove si poteva dissentire, purché si rimanesse in quel contesto. Passando gli anni ci siamo accorti che questo spazio si riduceva sempre più mentre la politica ha continuato a manifestare in più occasioni il proprio disinteresse al dialogo con le minoranze.
Il movimento valsusino è una di queste minoranze ma è trasversale, ricco di percorsi politici e di movimento anche umanamente diversi. Ti trovi di fronte a persone di 70 o 80 anni provenienti dal mondo cattolico che, soprattutto quelli un po’ più radicali, in certi aspetti sono affini al mondo anarchico. Oppure trovi persone che hanno votato tutta la vita confidando che il partito potesse farsi portatore di una soluzione rispetto alle questioni conflittuali e alla fine, constatando che così non è, hanno sciolto anche quel vincolo di delega che è la croce sulla scheda elettorale. Ci siamo trovati con persone che non intravedevano più nessun canale di dialogo.
Quando una parte del mondo No Tav ha guardato favorevolmente ai 5Stelle è stata l’ultima occasione, tradita, in cui alcuni hanno creduto che la politica potesse dare risposte. Accenniamo anche a quella situazione con un intervento di Luca Abbà che suggerisce di prenderne atto: è scritto nella storia dei No Tav e non è la prima volta che accade di trovarsi soli; quando si chiude una fase se ne apre poi un’altra; il movimento ne ha viste tante di fasi, occorre comunque procedere, andare avanti.
In questo percorso si inseriscono i singoli protagonisti che ci fanno conoscere un’identità che supera la questione No Tav e raggiunge la dimensione dell’umano che ama la vita, ha voglia di confrontarsi, conoscere, discutere e vedendosi negata questa possibilità resiste, consapevole anche di dover andare in carcere se occorre, come il film racconta con l’arresto di Nicoletta Dosio.
Avevamo l’intenzione di rivolgerci a un pubblico ampio, non ai militanti che conoscono la situazione, sperando che attraverso le storie di queste persone altri possano riconoscersi, non nelle questioni del Tav ma nella condizione di chi ogni giorno cerca di realizzare un desiderio che invece gli viene negato. Sappiamo che possiamo tentare lo stesso di realizzarlo, ma anche che il tentativo potrebbe costarci molto e dunque quasi sempre rinunciamo a intraprendere quel percorso. Il film suggerisce che è vero, c’è un costo da pagare, però c’è anche l’occasione di trovare forza e dignità come il compromesso, quell’altra condizione, non potrà mai dare. La dignità che hanno i nostri protagonisti è preziosa perché permette di essere lucidi e sinceri con se stessi e preserva all’essere umano la possibilità di essere protagonista di se stesso e della comunità. Anche dal punto di vista politico, ci sembra un modo di fare necessario, urgente da discutere. Vale anche per altre questioni, in altri movimenti troviamo forme e capacità di resistenza simili. Sanno che ci si deve misurare con un limite oltrepassato il quale non si può tornare indietro. Ogni volta che si conosce una realtà nuova, questa può cambiarci la vita; ci dobbiamo posizionare, dobbiamo decidere se proseguire o fermarci, non c’è alternativa. Il film dice che chi non si ferma scopre qualcosa di bello.
Abbiamo suddiviso le riprese in tre parti: la forza, il coraggio e la gioia. Sono tre concetti espressi nel preambolo, quando si cita la lettera che Luca Abbà aveva scritto dopo la caduta dal traliccio, ancora ricoverato, per rassicurare sulle proprie condizioni. La lettera si chiude con l’augurio di forza, coraggio e gioia. Abbiamo ripreso questi tre concetti – che non vogliono incorniciare dei capitoli anche se ci sono elementi per sostenerli – perché usualmente dai movimenti emergono altri sentimenti: rancore, rabbia, sofferenza. Invece forza, coraggio e gioia ribaltano i sentimenti in positivo, non attenuano la capacità del movimento di resistere e continuare ad agire come accade con i sentimenti negativi che limitano l’azione e soprattutto la condivisione. Forza, coraggio e gioia erano già patrimonio dei No Tav. Luca Abbà ha riassunto con quei termini i caratteri peculiari del movimento, ma potrebbero valere anche per altre lotte per definire in positivo quell’agire, quella presenza fisica, non solo all’interno della lotta No Tav.
Come forza intendiamo quella del non perdersi d’animo, la forza che nasce dalla consapevolezza che quando si vive intensamente un desiderio, andandogli incontro e superando i vari ostacoli, ci si rafforza, non ci si indebolisce, in un continuo procedere con se stessi. Il film parla di collettività ma parla anche della dimensione individuale. Luca Abbà nel film ci ha raccontato la sua condizione di carcerato – perché deve rientrare ogni sera al carcere delle Vallette – in un periodo di solitudine e per lui difficile anche affettivamente. La comunità è una grande famiglia solidale che può dare una mano, ma chi veramente può riscattarci, aiutarci a darci risposte e a superare le difficoltà non possiamo essere che noi stessi. Serve molta forza. Le difficoltà allo stesso tempo non sono solo personali ma sono condivisibili nella dimensione più collettiva e politica che i No Tav vivono: ho partecipato a incontri in cui ci si chiedeva l’un l’altro che cos’altro si potesse fare visti i risultati molto scoraggianti. Sono passaggi importanti perché nel momento in cui non si retrocede e nemmeno si fa il passo troppo lungo verso qualcosa che non è possibile realizzare, se si mantengono la posizione e il percorso, superato quel momento e quell’ostacolo, si comprendono cose di noi stessi che di riflesso poi si trasmetteranno al collettivo e che rafforzano sia l’individuo sia il contesto delle persone affini.
La forza, insomma, non è quella fisica, materiale, è la forza interiore che l’essere umano può generare con se stesso. È la forza del convincimento, la consapevolezza che ciascuno è potente, non nel senso di poter danneggiare o far del male ad altri ma nel senso che può fare, può agire. Ti dicono che non puoi agire, non puoi permetterti di affrontare alcune questioni, non puoi discutere certi temi perché c’è qualcuno che sa più di te, che decide per te e tu devi essere solo colui che lo delega. La forza è una delle componenti che ti permette di dire che probabilmente sarà anche così ma nonostante questo vuoi lo stesso partecipare alla discussione di queste scelte senza lasciare in bianco la delega.
Coraggio e gioia si collegano alla forza e sono necessari nei momenti di scoramento, una condizione che tutti gli esseri umani vivono ma che è anche occasione di formazione importante se viene superata, perché ci permette di essere più lucidi nel percorso che successivamente potremo, se lo vorremo, intraprendere. Il coraggio ci serve quando dobbiamo fare i conti con noi stessi, affrontare le nostre contraddizioni e paure e vedere se siamo in grado di superarle. Questo percorso individuale nella dimensione dei No Tav diventa anche collettivo perché nonostante le loro diversità devono per forza ritrovarsi insieme per condividere le urgenze, per cui si nutrono vicendevolmente anche delle diversità. Questo è molto prezioso. La diversità che uno non prendeva in considerazione diventa un pezzo del suo patrimonio. Ognuno mantiene la propria identità ma comprende meglio perché altri sono diversi da lui e non solo può rispettarli ma acquisisce una conoscenza maggiore di sé e degli altri. Questo è un meccanismo che si è generato nei No Tav e non in altri movimenti che abbiamo conosciuto. Più sovente accade che ognuno si fa portatore della propria identità, va intorno a un tavolo si confronta e scontra per farla emergere e alla fine ottiene un compromesso. Nei No Tav c’è qualcosa di diverso, c’è una contaminazione che non è quella politica, non è che cattolici e anarchici diventano un unico gruppo di neo-cattolici-anarchici, accade invece che al di là dell’ideologia da cui provengono nasce fra loro una complicità di intenti che prima era impossibile immaginare.
È difficile spiegare la gioia per chi non ha vissuto questo genere di esperienze. Un militante potrebbe non essere d’accordo: se hai subito manganellate, se ti sbattono in carcere, perché mai dovresti mostrare gioia; ma il sorriso non è la risposta alla manganellata o al carcere. Dana Lauriola, la militante che il carcere l’ha conosciuto, i processi li ha subiti, le restrizioni le ha vissute, quando si presenta afferma con sicurezza e determinazione la propria posizione. Gli ostacoli e le difficoltà del suo percorso non l’hanno fatta indietreggiare. Il suo approccio è positivo, non urla e non insulta: è coerente con quanto ci ha raccontato in La Scelta. Ci sono persone che riescono a parlare di cose gravi che hanno vissuto con il sorriso nel senso che hanno sofferto quella condizione di repressione e impotenza ma evidentemente hanno fatto un percorso e hanno superato un limite che ha permesso loro di ritrovare un’altra dimensione di sé. Per questo sono sereni, non perché sorridono a chi gli dà la manganellata ma perché sono forti della loro scelta e non hanno bisogno di urlarla. Chi urla e usa violenza mostra solo e sempre debolezza. Quando ci si scontra la violenza è necessaria solo per chi vuole predominare, è la via più facile per l’insicurezza, i forti non hanno bisogno di violenza. E questi No Tav, dopo tutto quello che hanno vissuto, mantengono una posizione che trasmette forza perché quando intervengono non urlano la loro rabbia come potrebbero fare alle reti dei cantieri ma affermano la loro posizione e il loro convincimento come singoli e come comunità.