Giuseppe De Rita: torneremo continuisti?
Giuseppe De Rita, classe 1932, è tra i decani della sociologia italiana. Nel 1964 ha fondato il Censis (Centro studi investimenti sociali) di cui è presidente, uno tra più importanti centri indipendenti di ricerca socio-economico del nostro paese, che quest’anno pubblicherà il suo 55° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese. Nel corso della sua lunga attività, De Rita ha rappresentato il meglio della classe dirigente di questo paese, è stato funzionario dello Svimez (Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno) e presidente del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro). La sua militanza istituzionale lo ha portato a sostenere le esperienze civili più interessanti di studio e sviluppo del nostro paese, tanto da essere considerato uno dei più autorevoli opinionisti della situazione sociale e politica italiana.
Tra i suoi libri ricordiamo i più recenti, Come cambia l’Italia. Discontinuità e continuismo (edizioni e/o), un saggio sulla contingenza politica del nostro paese, e Il lungo Mezzogiorno (Laterza), una raccolta di interventi sul Meridione pubblicati nell’arco di sessant’anni. Oltre a essere un collaboratore della nostra rivista (si legga il suo articolo sul numero 77 Lento all’ira. L’Italia nei giorni del coronavirus), è ospite fisso come editorialista al “Corriere della sera”. La sua autorevolezza di analista e osservatore del presente è condivisa e apprezzata in senso trasversale, al punto tale che qualche anno fa, prima dell’elezione a presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano, circolò il suo nome tra i possibili candidati al Colle.
In effetti, andare a incontrarlo nella sede del Censis, non lontano dal parco romano di Villa Ada, equivale quasi a una “salita al Colle”: l’impressione è di intervistare un capo di Stato. Sulla scrivania del suo ampio e luminoso ufficio, tra le carte e i documenti, è ben visibile L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione di Giulio Bollati, una sorta di guida, di Bibbia laica, come l’ha definita De Rita.
Siamo nel pieno della crisi di governo scatenata dall’uscita di Italia Viva e da Matteo Renzi. Il mandato esplorativo del presidente della Camera è destinato a fallire e tutti parlano del ruolo di Mattarella come risolutore della crisi. È il primo febbraio del 2021.
Subito De Rita mette le mani avanti, “Sono fazioso. Fate la tara quando parlo”, ma poi alla domanda diretta sulla crisi della politica italiana non ha dubbi, e riprende le categorie del continuismo e della discontinuità che usa dal 2018 per spiegare la transizione italiana, per interpretare le diverse fasi che hanno contrassegnato l’evoluzione della storia del nostro paese: “Abbiamo avuto dieci, quindici anni di discontinuità, e ora dobbiamo riprenderci. Pensate solo a due anni fa, quando c’era il governo Salvini-Di Maio, con Conte presidente, che era tutto discontinuità: la volontà di buttare a mare tutto il discorso dei decenni passati, di distruggere l’establishment precedente. Questo era il senso del ‘vaffa’ di Grillo e della campagna dei grillini. Oggi mi sembra che la politica che rifiuta la crisi debba difendere il suo periodo di discontinuità. In fondo, tutti gli anni Duemila sono stati anni di discontinuità. Dopotutto, anche quello che sembrava il ritorno all’establishment, il governo Monti, è stato un governo di discontinuità, con l’unica differenza che a questa discontinuità si cercava di dare ordine”.
Prosegue De Rita: “Oggi per avere spazio, dialogo, un programma di governo dobbiamo tornare a essere continuisti, dobbiamo eliminare la discontinuità. È strano, ma è così. Adesso, dico per dire, ritorna in auge il governo tecnico con i ministri tecnici. E come mai? I tecnici sono praticamente da sempre in ombra, come Paola Severino e Fabio Panetta. Per esempio, Panetta è stato vicedirettore della Banca d’Italia, non certo un innovatore. Finora ha ubbidito a tutte le decisioni e i bonus di Conte. Però il ritorno dei tecnici dà il senso che qualcuno voglia riprendere il discorso di ‘continuità’. Quasi costretta, la politica ora sembra alzare le braccia e accettare di essere aiutata dai tecnici a fare i piani per Bruxelles, il programma di vaccinazione, in maniera meno altalenante e labile, per affrontare il demone del debito, perché in discontinuità è stato fatto il debito per la prima volta”.
Fino a qui il palazzo, ma anche la società, sembrano rispecchiare questa rottura della discontinuità, come spiega il professore: “È chiaro come il sole che la gente, questo paese, chiede continuità. La pandemia è stata presentata come l’ennesima svolta della discontinuità, anzi, il suo punto massimo. La pandemia ha addirittura creato una psicologia distorta: un popolo che sta in trance. Se si gira nel centro di Roma, ora che ci sono i saldi, si vedono le persone che passeggiano senza sapere cosa vogliono, neanche guardano le vetrine. Se non è in trance è un popolo in letargo: aspettiamo che passi, intanto ci riposiamo, facciamo anche un po’ di risparmio in più. Ma poi vogliamo continuità”.
Sulla pandemia e l’emergenza sanitaria prosegue: “Addirittura hanno creato una situazione di internamento: gli orari prefissati, le zone rosse, possiamo spostarci solo a determinate condizioni, dobbiamo usare i dispositivi, queste cose hanno creato un bisogno enorme di continuità, di calma. La continuità diventa quindi un bisogno collettivo di ritrovata normalità nella vita di tutti i giorni. Quando c’è questa domanda, la politica o capisce che la discontinuità la sta portando alla rovina, oppure resta nella discontinuità come ultima forma di resistenza”. E si giunge a una sorta di vicolo cieco, un dilemma insolvibile: “Se un rappresentante politico oggi dicesse che è per il ritorno alla normalità avrebbe sicuramente un grande successo di consenso, ma verrebbe attaccato da tutti gli altri, che farebbero presente l’emergenza sanitaria, i 100mila morti, la curva che riesplode, la terza ondata”.
Interrogato sulla figura di Conte, De Rita afferma: “Conte ha esasperato la discontinuità, facendo tutti i governi possibili, prima con Salvini e poi col Pd, ha aggiunto una sua personale discontinuità sulla pandemia. L’ha saputa interpretare lui: il Comitato tecnico scientifico è una sua invenzione, gestita da lui, insieme con i bonus e la politica di assistenza economica. Conte ha fatto comodo a tutti perché non ci sono state alternative: qualcuno che ha gestito onda dopo onda la discontinuità a destra e a sinistra, dei conti e del debito a oltranza. Adesso viene agitato come uno spauracchio il danno secondario di una lista Conte. Nessuno ci crede a una lista Conte, ma meglio non correre quel rischio, per carità!, meglio un governo Draghi”.
De Rita si spinge in profondità nell’analisi della gestione della pandemia di Covid-19 da parte di Giuseppe Conte, facendo luce sul fattore chiave del suo consenso, ma anche, dall’altro lato della medaglia, sulle implicazioni gravi delle sue politiche: “La mancanza di informazione è la cosa più significativa di questo periodo. Perché la politica della discontinuità è stata una politica di comunicazione, che è un concetto molto diverso da quello di informazione. Non si è mai realmente informati su nulla. Il vaccino, ad esempio? Non sappiamo chi lo fa, chi non lo fa, se io 89enne devo fare la domanda alla Asl, oppure col medico di base, oppure se debba rivolgermi al privato, per esempio al Campus biomedico di Roma, di proprietà dell’Opus Dei, che pare abbia comprato una partita di vaccini da Israele. Qualunque sia il giudizio che diamo su Conte, lui ha al suo fianco un genio della comunicazione, Rocco Casalino, il quale ha gestito solo la sua comunicazione. Torniamo indietro al momento in cui si è creata questa frattura fra comunicazione e informazione. Le conferenze stampa della Protezione civile all’inizio della pandemia erano una cosa orribile: il commissario dava il conto dei decessi, dei contagiati e dei guariti. Dati molto opinabili, peraltro, perché anche all’interno del Comitato tecnico-scientifico alcune persone, come il dott. Bernabei, hanno detto chiaramente che i morti avevano tutti patologie pregresse. L’informazione si è fermata a queste cifre difficilmente interpretabili. Il resto, i messaggi televisivi di Conte, i report, è stato solo comunicazione. E la comunicazione, come è facile immaginare, si presta all’emozione. La comunicazione crea emozione. L’informazione no, perché ha una funzione che fa appello alla razionalità. Se scegli la comunicazione esalti la dimensione emozionale, non crei nessuna razionalità politica, ma punti tutto sull’emozione. E questo è stato un elemento su cui Conte, credo non scientemente, ha spinto e ha basato gran parte del suo lavoro”.
Secondo De Rita si sarebbe potuto fare meglio, soprattutto sul versante della scientificità dei dati disponibili: “Avevo suggerito, all’inizio della pandemia con grande prudenza, di affidarsi all’Istat, che è l’autorità dell’informazione per antonomasia, perché l’Istat sa fare una tabella, una serie storica, una comparazione internazionale, una comparazione tra anni. L’Istat è stato da subito scartato. Le spiegazioni che mi hanno dato sono due, ma sono concorrenti: da una parte l’Istat si è tirato fuori, perché il presidente è un demografo ed è molto cauto nel dare letture univoche ai numeri che riguardano la popolazione; la seconda è che l’Istituto superiore di sanità ha detto che i dati erano relativi a questioni strettamente sanitarie, di loro competenza, e non li avrebbe condivisi con l’Istat. Quale che sia stata la vera causa non si è saputo, ma l’effetto è che la maggiore istituzione statistica del paese non ha contribuito all’informazione dei cittadini”.
Il risultato è che a oggi abbiamo dati alla rinfusa e pochissime informazioni, ad esempio, prosegue De Rita: “Nella stessa pandemia non si è mai riusciti a capire chi siano i guariti: sono guariti in ospedale? A casa? Sono stati curati da medici che andavano a visitarli con lo scafandro? Abbiamo un esercito di guariti, il triplo dei contagiati, ma le informazioni che possiamo trarne rimangono intrappolate nel rimbombo della comunicazione della tragedia. La paura è stata diffusa a piene mani, ed è giusto che ci sia attenzione in una pandemia, ma non con questa dimensione emotiva così prevaricante. Non ci sono state informazioni adeguate. L’unica cosa certa è che non bisognava andare in ospedale sennò ci saremmo presi il Covid. Non intendo dire che il Comitato tecnico scientifico è fatto da virologi incompetenti, semplicemente non hanno fatto informazione”.
Tornando alle categorie di continuità e discontinuità, il professore conclude la sua analisi affermando che “recuperare la continuità è una faccenda nera – perché la discontinuità si difende, non è più trionfante, gli riesce meglio giocare in difesa – il paese vuole ritornare alla sua chimica della normalità, non vuole essere più bombardato dalla comunicazione”.
Concluso questo capitolo, ci spingiamo verso le proiezioni sull’immediato futuro, a cui De Rita collega la sua visione ben chiara di ciò che ha fatto la politica in questi anni: “Ha seguito l’andazzo sociale. A questo proposito ho sempre in mente un dibattito Moro-Andreotti. Moro nel 1969-70 non era più presidente del Consiglio, non aveva più la sua corrente, ma gli era rimasta una rivistina, che si chiamava ‘Progetto’. Fece scrivere, credo, da Leopoldo Elia con sua firma, che la politica doveva rivendicare la sua funzione di guida della società, doveva avere un disegno e guidare la società verso quel disegno. Un concetto banale. Gli rispose Andreotti a stretto giro dalla sua rivista ‘Concretezza’ con un testo bellissimo: in democrazia la politica non deve guidare la società, ma rassomigliarle. Questo significa costruire una politica che rincorre il contagio della demagogia: la rabbia contro la casta, la voglia di pulizia, onestà, trasparenza. E dunque il vero problema che abbiamo è questo, che non c’è più la capacità di fare politica, perché da Andreotti in poi la politica ha rincorso la società, le ha rassomigliato. Nel 2018 qualcuno ha votato al 35% il M5s. Ricordo sempre che nel collegio uninominale di Roma Collatino, un sobborgo di Roma, si presentarono in tre: Renata Polverini per la destra, ex governatore della regione, per la sinistra il noto avvocato Sammarco, e per i grillini il tabacchino del Collatino. Chi ha vinto secondo voi? In parlamento ci è andato il tabacchino del Collatino. Se non c’è questo scatto che la politica ritorni a essere ‘morotea’, sarà sempre il tempo della discontinuità”.
Giuseppe De Rita è scettico, crede ancora nella strenua resistenza della discontinuità, e infatti quando chiediamo previsioni più a breve termine, la sua impressione è questa: “Non lo so come andrà. Non credo che Sergio Mattarella farà un’operazione di governo tecnico. Magari per provocare offrirà l’incarico a Draghi, ma il presidente della Repubblica ha rispetto totale per la dialettica tra le forze politiche. Mi sorprenderebbe molto se lo facesse se non per fini strumentali. Il problema vero è che nessuno rompe. Renzi minaccia ma non rompe, non può difendere la disintermediazione perché è stata la sua discontinuità”.
“Che cosa potrebbe avvenire? Potrebbe avvenire che la preoccupazione di Mattarella si sommi all’arrivo della Troika, persone che non conosciamo, che hanno una cultura totalmente diversa dalla nostra, che ci considerano degli spiccia-faccende da quattro soldi, che hanno le loro scalette mentali con i loro parametri”.
Ci salutiamo su queste previsioni che solo la cronaca politica di questi giorni, quando già la rivista sarà in stampa, avrà già confermato o smentito. Concludiamo il discorso sulle cariche istituzionali salutandoci su note ironiche, ricordando il momento in cui il professore si ritrovò nella rosa dei candidati al Quirinale. “Effettivamente è vero – conferma De Rita – ma il mio nome cadde subito: nel segreto dell’urna, i mastelliani lo usarono per contarsi, e così ne ottenni venti, cosa che ancora mi imbarazza”.
Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini.
