Cronache da un terremoto durante una guerra
La narrativa umanitaria racconta sempre, in pieno stile coloniale, che ci sono Ong internazionali al lavoro. Ed eclissa invece il lavoro senza sosta dei siriani che hanno cominciato subito a scavare a mani nude nelle macerie di Aleppo e delle altre città colpite dal sisma. Un diario di Domenico Chirico, di ritorno dalla Siria
Alle 4,20 del mattino ora siriana, il 6 febbraio 2023, un terribile terremoto con epicentro nella Turchia sud orientale ha scosso anche la Siria del nord ovest e in parte quella del nord est. Mi trovavo in Siria, al confine con la Turchia, per un periodo di volontariato e, come tutti, sono stato risvegliato nel cuore della notte da un terremoto forte, lungo, intenso.
In territorio siriano il sisma ha colpito un Paese già allo stremo, dopo 12 anni di conflitto. Avvicinandosi l’anniversario dell’inizio della rivoluzione siriana è bene ricordare che nel 2022 sono censiti, dalle Nazioni Unite, circa 14,6 milioni di persone in stato di bisogno su una popolazione ante guerra di circa 22 milioni. Il bilancio della tragedia si ripete ogni anno, peggiorando. Acnur, l’Ufficio delle Nazioni Unite per i rifugiati, stima che siano almeno 6,8 milioni i rifugiati siriani all’estero e 6,9 gli sfollati interni. In questo contesto i dati dell’Onu restituiscono un dato drammatico per la sanità: il 50% del personale sanitario ha abbandonato il paese, continuano gli attacchi alle strutture sanitarie, solo il 58% degli ospedali e il 53% dei centri sanitari di base funzionano. I dati sono simili e drammatici per le scuole e in genere per le infrastrutture pubbliche.
Fragilità si aggiunge a fragilità. Molte persone in Siria si sono svegliate nel cuore della notte il 6 febbraio cercando di capire se erano bombe o un terremoto. Poi hanno fatto i conti con la terra che tremava e le case, in maggioranza fatiscenti, da abbandonare velocemente. L’area più colpita è stata quella del nord ovest. Un’area divisa e in guerra. La città di Aleppo è controllata dal regime di Damasco ma ha due quartieri, gravemente colpiti dal sisma, dove l’amministrazione autonoma del nord est ha accesso per portare aiuti e fornire servizi socio-sanitari. L’area di Idleb è divisa tra regime e milizie islamiste legate alla Turchia. L’area di Afrin è occupata in parte dai turchi e dalle milizie, salvo un’area controllata dall’esercito del nord est guidate dai kurdi.
Sostanzialmente nel giro di poche centinaia di chilometri ci sono tutte le contraddizioni del conflitto siriano. Contraddizioni che sono emerse subito nella distribuzione degli aiuti, nonostante più di 5000 vittime e i molti palazzi crollati. Solo nell’area di Afrin sotto il controllo kurdo (Shaba e Tal Rifaet), molto vicina all’epicentro del sisma, si contano 10.000 sfollati. Nei quartieri di Aleppo di al-Sheikh Maqsoud e al-Ashrafiya, sono state ad esempio censite 150 abitazioni fortemente danneggiate e inagibili e più di 50.000 persone stanno subendo in generale le conseguenze del terremoto.
La questione degli aiuti è molto complessa in Siria, ma è importante da conoscere perché, molto prima dell’Ucraina, ha segnato il totale fallimento delle Nazioni Unite come forza di mediazione e di pace. Fallimento peraltro certificato da diverse analisi a livello internazionale come quella tragica apparsa alcuni anni fa sulla rivista Foreign Affairs. Sostanzialmente le Nazioni Unite possono avere rapporti solo con il regime di Damasco, che ha il suo seggio all’Onu. Il regime però costringe Onu e tutte le Ong internazionali a lavorare esclusivamente attraverso la Syrian Arab Red Crescent (la locale croce rossa, emanazione diretta del governo) che dirotta sistematicamente tutti gli aiuti su aree e persone di fiducia. Il che significa che gli aiuti Onu raggiungono solo una parte del paese e che dalle distribuzioni e dai programmi umanitari vengono escluse almeno 10 milioni di persone residenti nel nord ovest e nel nord est.
Per ovviare a questo – evidente – problema le Nazioni Unite approvano ogni anno o ogni 6 mesi una risoluzione sul cosiddetto cross border che autorizza l’accesso di aiuti Onu dai due valichi di frontiera verso nord ovest, dalla Turchia, e nord est dall’Iraq e non controllati in Siria dal regime. Per l’opposizione dei turchi, che ostacolano in tutti i modi qualsiasi forma di sostegno al nord est egemonizzato dai kurdi, il cross border dall’Iraq è bloccato ufficialmente da tempo. Solo un valico non riconosciuto dal Kurdistan iracheno permette di far arrivare aiuti all’area del nord est. L’ultima risoluzione delle Nazioni Unite approvata per il 2023, la 2672, autorizza invece il valico di Bab al-Hawa tra Turchia e nord ovest come passaggio di aiuti, ma per soli 6 mesi. Così l’accesso umanitario alle aree più colpite è di fatto limitato e orientato dalle fazioni in lotta. Gli aiuti sono di fronte a qualsiasi tragedia uno strumento di guerra.
In mezzo, come sempre, le persone. Che cercano disperatamente di sopravvivere a questa ennesima tragedia. Persone e solidarietà che sono bloccate dalle forze in campo. La Mezzaluna Rossa Kurda (Heyva Sor a Kurd il nome tradotto in kurdo della consociata locale) è la principale Ong locale del nord est e lavora nelle aree del nord ovest di Afrin e in alcuni quartieri di Aleppo. Conta più di 2.000 persone sul campo ed ha immediatamente verificato l’esigenza di costruire tendopoli per gli sfollati del terremoto con tende, offrire assistenza sanitaria e distribuire aiuti. Ora sta costruendo un centro sanitario di emergenza ad Aleppo. Ha subito inviato dei team nel nord ovest che hanno raggiunto gli operatori già presenti per dare risposte immediate. Poi ha svuotato i suoi magazzini per portare ambulanze e aiuti. Ma al posto di blocco con le aree controllata dal regime di Assad sono stati bloccati. La richiesta del regime è stata “dateci mezzo carico e un’ambulanza e passate”. È partita quindi una settimana di lunghissima trattativa, con interventi anche italiani e vari articoli pubblicati sulla stampa internazionale. Alla fine ha prevalso il buon senso e lo spirito di mediazione. Il carico è passato e con esso tanti aiuti necessari. Ma si procede una trattativa alla volta e ci sono sempre delle contropartite da pagare. Non c’è un canale umanitario aperto. I governi più forti sostengono i loro interessi e le loro posizioni, la gente muore dal freddo e sotto le macerie.
Paradossalmente è partita subito una campagna, soprattutto in Italia, per togliere le sanzioni dell’Unione Europea al regime di Damasco. Sanzioni che però sono soprattutto rivolte nello specifico a 283 persone, con congelamento dei beni e divieto di viaggio, e a 70 imprese (legate al regime). Le misure restrittive includono anche un embargo sulle importazioni di petrolio, restrizioni su alcuni investimenti, il congelamento dei beni della banca centrale siriana detenuti nell’Ue e restrizioni all’esportazione di attrezzature e tecnologie che potrebbero essere usate a fini di repressione interna, nonché di attrezzature e tecnologie per il monitoraggio o l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche o online. Sono sanzioni Ue e americane, mentre russi, cinesi e tanti altri paesi, inclusi alcuni de Golfo, non le hanno mai adottate. Il che di fatto vanifica qualsiasi regime sanzionatorio perché arriva di tutto nelle aree controllate dal regime.
Al di là del giudizio sulle sanzioni il discorso è completamente strumentale. C’è un regime che blocca gli aiuti e li usa a suo uso e consumo. Il consiglio di sicurezza Onu non autorizza l’invio di aiuti in tutte le aree di bisogno in Siria. E il problema sarebbe quello di tutelare 283 oligarchi siriani. L’unica campagna da fare sarebbe quella per rendere stabili e non temporanee le risoluzioni dell’Onu che permetterebbero di far arrivare gli aiuti a tutti i soggetti sul campo.
In realtà il popolo siriano dopo 12 anni meriterebbe molto di più che la solidarietà pelosa del resto del mondo e delle varie potenze. Meriterebbe intanto di essere riconosciuto come un popolo che ha avuto la forza di resistere in questi anni terribili a ogni genere di angheria. E meriterebbe un processo di pace reale che facesse dialogare tutte le parti in conflitto. Mentre oggi sembra che l’unico processo in corso sia la riammissione del regime di Assad nel contesto internazionale. Senza contare le sofferenze, la corruzione e che intere comunità si sono rese autonome dalla dittatura in questi anni. E senza considerare che una forte società civile esiste sia nella diaspora sia all’interno del paese.
Non è un caso che ho potuto vedere con i miei occhi non solo come in 48 ore nel nord est si sia subito costruita una risposta umanitaria, ma come questa si sia velocemente tradotta in programmi e progetti umanitari. E quindi accoglienza agli sfollati, acqua pulita e ambienti caldi e ancora protezione dei più fragili, a cominciare dai minori che continuano a crescere in un paese con troppe poche scuole e troppi pochi ospedali. E non è un caso che mentre i funzionari di molte Ong internazionali erano chiusi nelle loro residenze protette all’interno della Siria per l’allarme terremoto, i siriani per primi sono corsi a fare donazioni di ciò che potevano a chi era nelle tendopoli. Solidarietà popolare.
La narrativa umanitaria racconta infatti sempre, in pieno stile coloniale, che ci sono Ong internazionali al lavoro. Ed eclissa invece il lavoro senza sosta dei siriani che hanno cominciato subito a scavare a mani nude nelle macerie di Aleppo e delle altre città colpite dal sisma. È noto l’impegno nel nord ovest dei White Helmets e la loro capacità di operare come protezione civile in tutta quell’area.
Forse riconoscere le soggettività in campo, come l’esperimento sociale molto complesso del Rojava o Siria del nord est, sarebbe una delle strade da percorrere per ricominciare a pensare a un paese con un futuro. Del resto i siriani sono i primi ad aver imparato, in 12 anni di guerra, epidemie e disastri naturali, che si devono aiutare da soli e che possono contare sulla solidarietà popolare che, per fortuna, a livello locale e internazionale non manca. E continua a sostenerli, per il terremoto, per la guerra e per la costruzione della pace perduta.