Crescere è un verbo intransitivo. In ricordo di Mario Lodi
Raccontare in poche pagine Mario Lodi è impossibile. L’eredità che lascia è immensa, a partire dai bambini e dalle bambine che hanno potuto usufruire della sua passione, divenuti uomini e donne di questo paese. Una vita radicata in un territorio amato e forse proprio per questo capace di spaziare ovunque, guidata da una generosa e affettuosa curiosità per tutto ciò che è reale, a partire dai bambini, che sono stati il centro indiscusso della sua vita. Nato a Vho di Piadena nel ’22, il paese dove poi insegnò per più di vent’anni, Mario Lodi è morto a Drizzona il 2 marzo di quest’anno: un raggio di tre chilometri racchiude una delle vite più lunghe e fertili del triste secolo breve. Vi spiccano, come pietre, i suoi punti fermi: l’orientamento socialista, il cristianesimo delle origini, la cura per gli altri, singoli e comunità, la scuola come enzima capace di trasformare un territorio, la scrittura. I bambini iniziarono a conoscerlo nel 1940, quando, dopo il diploma magistrale, iniziò ad insegnare. I più, all’uscita dei suoi libri, a partire da Il permesso, pubblicato una prima volta nel 1957e poi ripreso da Giunti nel 1968, nel quale troviamo la sua prima ferma presa di posizione contro la violenza e la sua sensibilità per la natura, per la sofferenza degli animali. Seguono il famosissimo Cipì, del 1961, tratto da un’esperienza di scuola, e, due anni dopo, C’è speranza se questo accade a Vho, pubblicato dalla casa editrice Avanti!. Un libro tutt’oggi rivoluzionario, disarmante nella sua sincerità: “Questa terza maschile, per diversi motivi, è particolarmente difficile: gli alunni sono sovente distratti, non si interessano alle lezioni che gli preparo scrupolosamente, “dimenticano” di far firmare ai genitori le ossevazioni sul comportamento, “dimenticano” persino di acquistare i quaderni… A volte, dalla finestra, li osservo quando escono sulla strada: oltrepassata la soglia è un libero volo, le bocche mute parlano e gridano: sono felici”. Sono gli appunti di un maestro che decide di osservare e di ascoltare per provare a capire come fare. Quel che ha imparato alle Magistrali (il diario inizia nel ’51) non gli basta. Il volo libero dei bambini lo interroga.
E’ questa una lezione che attraversa in modi diversi tutti coloro che si sono richiamati a un’educazione attiva, da Montessori a Korzack, da Freinet ai Cemea: qualunque sia la realtà esterna, qualunque siano i problemi che i bambini si portano appresso dalla loro vita in famiglia e dal quartiere o paese in cui abitano, la scuola non ha che una possibilità: interrogarsi di continuo sul come, fino ad arrivare a chiedersi se il problema non possa essere la sua stessa organizzazione. Mario Lodi intraprende questa strada e non smetterà mai di perseguirla: ascoltare, osservare, proporre, sostenere per trasformare insieme. Che l’amore non basti, lo comprende subito: occorre studio, approfondimento, confronto con altri maestri e maestre, che troverà grazie al Movimento di Cooperazione Educativa. Ma soprattutto occorre mettersi in discussione, rinunciare alla cattedra, non solo in termini reali (per far spazio ad altro), ma anche in termini simbolici: sedersi alla stessa altezza dei bambini, abolire i voti, sospendere il giudizio, dismettere il potere. E’ l’unica via per intavolare con loro un rapporto di fiducia, nella consapevolezza che crescere è un verbo intransitivo: agli adulti spetta solo creare le migliori condizioni.
Gli effetti non tardano a farsi sentire: nel nuovo clima di classe, a cui concorrono da subito la pittura libera, il teatro e la tipografia, il maestro quasi scompare: a fatica lo si trova nella restituzione puntuale delle discussioni via via più complesse che animano i bambini, nei dialoghi attorno all’autovalutazione severa che fanno del proprio lavoro, liberamente scelto di settimana in settimana. Nella scuola, tutto entra attraverso le loro parole e le loro pitture: c’è spazio e tempo per la vita individuale e per quella di gruppo, per i bisogni materiali e per quelli spirituali, per la poesia e per la politica, per la storia di adesso e la storia di ieri, per la geometria e per la matematica, per l’ortografia e la grammatica, strumenti e mai fini dell’attività educativa. Ma invece il maestro c’è, eccome, e gli spetta il difficilissimo compito di raccogliere, offrendo ai bambini i mezzi per portare a dignità quel che nessuno vuole ascoltare.
Le parole di Mari Lodi trovano all’epoca una grande eco. Sono anni di fervore pedagogico e l’editoria italiana ne dà conto con una certa sensibilità. Nel ’61, Editori Riuniti pubblica Le Nuove tecniche didattiche di Bruno Ciari, uno dei maestri del Movimento di Cooperazione Educativa con cui Lodi era in stretto contatto; nel ’63, Einaudi da alle stampe I Quaderni di San Gersolé, a cura di Maria Maltoni. Negli stessi anni, La Nuova Italia pubblica Freinet e la rivista Cooperazione Educativa, mentre Garzanti riedita le opere fondamentali di Maria Montessori. Si arriva così a Lettera a una professoressa di Lorenzo Milani (Libreria Editrice Fiorentina, 1967) e a un altro testo fondamentale di Mario Lodi, Il paese sbagliato (Einaudi 1970), a quello strettamente connesso: due uomini diversissimi, ma nei quali vibra un’insoddisfazione radicale per la struttura della società di cui la scuola è solo specchio. Entrambi vi vedono un luogo di trasformazione, non solo per i bambini, ma anche per gli adulti: “Difendere l’uomo significa mettersi dalla sua parte e rifare scuola e sistema e tutto”, scrive Lodi alla fine de Il paese sbagliato.
Territorio e scuola: il binomio continua, strettissimo. Per Mario Lodi “rifare” significa partire dalla discussione, dal dialogo, dal confronto continuo, dentro e fuori la scuola: sono le relazioni, la vita vera contrapposta alla finta, di cui ben parla, ormai vecchio, in A tv spenta (Einaudi 2002), un libro che da conto della bellezza del mondo reale contropposto a quello virtuale. Da una parte ecco allora i tanti libri scritti, in dialogo costante con tutti, il teatro, i burattini, il cineforum, l’attività politica, la raccolta delle fiabe e delle storie orali, la Biblioteca popolare, di cui si trova racconto a partire dai Quaderni di Piadena; dall’altra l’impegno democratico dentro la scuola, di cui è traccia impressionante Insieme. Giornale di una quinta elementare (Einaudi 1974), che racconta, numero dopo numero, un anno di tipografia scolastica di altissimo livello: l’impegno a far uscire pressoché tutti i giorni un giornale aperto a tutti, regolarmente venduto nell’edicola di paese o tramite abbonamento (il costo era di 2500 euro l’anno), per desrivere la vita dei bambini e della nostra gente e i problemi di tutti.
Apriva così, il numero 1: La nostra cooperativa. Il 2 ottobre 1972 abbiamo preparato il progetto di una cooperativa scolastica. Il 3 ottobre l’abbiamo discusso e approvato. Pubblichiamo lo Statuto e la discussione. Nel n. 5 il tema era la strage alle Olimpiadi di Monaco; il n. 10 era dedicato all’emigrazione italiana; il 15 alla guerra in Vietnam; il 17 e 18 al linguaggio degli animali; il 68 alla psicoanalisi… Insieme all’esplorazione del mondo, in tutta la sua complessità, grande rilievo hanno i racconti delle esperienze quotidiane dei bambini: una mucca morta di parto, lo sciopero di alcuni genitori operai, la cronica mancanza di denaro fra le famiglie più povere, l’entusiasmo per la neve, la storia di un Gesù dei nostri tempi. Il metodo di lavoro prevede interviste, approfondimenti, analisi storica e sociologica, statistiche, indagini, illustrazione; la cura, sempre alta; le decisioni, collettive; la cassa, gestita direttamente dai bambini.
E’ la democrazia vissuta, reale, fin dall’infanzia, che Mario Lodi ebbe sempre a cuore, fino alla fine della sua vita: non a caso, uno dei suoi ultimi libri è dedicato alla legge degli italiani, La Costituzione, letta per una volta non attraverso la complessità giuridica, ma con la semplice chiarezza di chi è abituato a usare le parole con parsimonia, in modo preciso, andando al cuore delle cose. A pubblicarlo, nel 2008 (nel 60° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione), è la “Casa delle arti e del Gioco”, da lui fondata nel 1989 e portata avanti insieme alla figlia Cosetta, ostetrica, a Drizzona, in una cascina riadattata grazie ai soldi avuti dal premio Lego: un luogo di sperimentazione ma anche di formazione permanente, tutt’ora attivo. E’ quindi sempre nella cornice affettiva della sua terra che Mario Lodi continua a voler conoscere e trasformare il mondo con gli altri, anche dopo essere andato in pensione (1978).
Premiato dall’Unicef e da una laurea honoris causa in pedagogia (Università di Bologna), presente nella mente di tanti, Mario Lodi non è mai entrato davvero nella scuola italiana, impermeabile ai cambiamenti radicali e profondi. Lui stesso lo disse con tono amaro in un’inervista rilasciata a La Repubblica in occasione del suo novantesimo compleanno. Una tristezza che accomuna tanti che, dalla fine della guerra in poi, radicalmente antifascisti e altrettanto radicalmente convinti che la cultura sia sempre costruzione, si impegnarono perché il paese diventasse quello immaginato dai Padri Costituenti. Così, la sua esperienza, che ha per altro potuto godere del supporto di una casa editrice quale Einaudi, rischia di diventare una delle tante “solenni ovvietà” di questo paese, per riprendere una formula usata da Gherardo Colombo in altro contesto (cfr. Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio, Einaudi 2013).
Invece no. Bisogna leggerlo e rileggerlo, Mario Lodi. Sostare nelle parole sue e dei suoi bambini. Farlo proprio. Ma senza nostalgia per il bel mondo antico, per quelle lucertole che scappano dalle dita, per quei campi di fango e quei furti di galline che incendiano la fantasia. Bisogna stare in ascolto di quest’uomo tanto fermo quanto nonviolento, che ogni volta riparte da zero, ogni volta ascolta, cerca di capire cosa celino gli occhi, i silenzi, le troppe parole. Soffermarsi sul diario puntuale, sulla riflessione e la ricerca costanti. Non sono ricette, quelle che riempiono i suoi libri. E’ una visione del mondo, un lavoro fatto con cura, una vita coerente. E viene una certa rabbia. Perchè tutto è scritto, tutto è detto, in italiano semplice, a misura di ognuno. Basterebbe leggere: vedere come insieme ai bambini trovasse i soldi per comprare i fogli cerati necessari alla stampa con il limografo; come si facesse prestare i caratteri di stampa da colleghi che ne avevano di più; come valorizzasse le parole poetiche dei bambini; come invitasse esperti a parlare con loro; come portasse a scuola, per condividerle, le lettere che riceveva. Invece, a dominare è sempre quello sguardo fintamente nostalgico, che ostruisce ogni porta di cambiamento: non ci sono più i bambini di una volta, adesso è tutto cambiato, metà sono stranieri, il nostro è un quartiere disagiato, questi bambini hanno tutto, ci trattano come domestici, i genitori li difendono sempre.
Già. Ogni tempo ha i suoi problemi. I nostri li ha ben messi in luce Stefano Laffi, in un libro arrabbiato quanto tenero (La congiura contro i giovani, Feltrinelli 2014). Alla rinfusa: la velocità, la frammentazione, l’intermediazione virtuale fra noi e la realtà, l’uso di due dita invece che di tutto il corpo, le relazioni a telecomando, la schedatura dei bambini secondo bisogni e difficoltà, il consumo sfrenato…. Violenza pedagogica delle cose, la chiama Laffi, chiarendo bene che non è vero che nessuno si occupi di pedagogia: il mercato se ne occupa eccome, facendosi aiutare dalla psicologia, dalle neuroscienze, da tutto quello che c’è a disposizione. Ma se esiste, floridissima, una pedagogia del consumo (delle persone oltre che degli oggetti), non potrebbe esisterne un’altra, ad essa straniera e oppositiva, di cui si facciano carico coloro che scelgono di diventare maestri, insegnanti, professori? La disobbedienza attuata da Lodi, sinteticamente descritta nella lettera a Katia che apre Il paese sbagliato (titolo tratto dallo scritto di un bambino) non dovette essere per lui meno complessa e difficile di quel che sarebbe per un maestro di oggi. Basta pensare alla scuola autoritaria degli anni ’50 e ’60 e se ne avverte tutto il rischio. E’ stato un volo senza paracadute, per liberarsi insieme. Unica rete, i bambini, i vicini di casa, i colleghi sparsi per l’Italia. Perché noi, adesso, non dovremmo averne il coraggio?