Come far fronte al precipitare della crisi?

La notizia bucata, o comunque sottostimata, dai media in Italia sono i 1500 morti in Pakistan dove, dopo un’ondata di calore iniziata a maggio con temperature ai limiti della sopravvivenza (50°C a Jacobabad, una delle città più calde del mondo), 33 milioni di persone sono state colpite da alluvioni causate da una micidiale combinazione di piogge monsoniche e scioglimento dei ghiacciai, perdurata da luglio a fine agosto e che ha causato l’allagamento anche di regioni notoriamente aride, come gli altopiani del Belucistan pakistano.
In California la nuova normalità sta portando ondate di calore mai registrate prima: a Sacramento – ma è così in tutto l’est meridionale USA (California, Texas, Nevada, Arizona) – si sono registrati (fino a metà settembre) 43 giorni con temperature di 40°C, accompagnati dagli ormai stagionali e indomabili incendi regionali, da continue interruzioni di corrente elettrica causate da picchi dei consumi (il mercato delle batterie è infatti in espansione, afferma la rivista Wired) e da tempeste tropicali – dal Messico, quella denominata Kay si teme possa portare inondazioni e smottamenti in Arizona e California mentre si sposta verso nord ovest.
L’ultimo rapporto ONU sull’indice di sviluppo umano (settembre 2022), soprattutto a causa della pandemia, registra per la prima volta consecutivamente una riduzione per due anni: 2020 e 2021. Si tratta, secondo i funzionari ONU, di un “immenso declino” per il 90 % degli abitanti del pianeta – Stati Uniti compresi – la cui attesa di vita, l’istruzione e il PIL pro capite sono ritornati ai livelli del 2016.
Il dibattito politico-culturale
A giugno 2021, nell’incontro dei collaboratori degli Asini a Cenci, si era cercato di mettere a fuoco la complessità di una vera conversione ecologica dell’economia e della società, urgente di fronte all’aggravarsi della crisi. Poco più di un anno dopo dobbiamo registrare come la sola imprevista riduzione del gas russo, in seguito alla guerra in Ucraina, rischi di mettere in ginocchio settori importanti del sistema produttivo italiano ed europeo. Paradossalmente, da un punto di vista ecologico, potremmo gioire per una conseguente possibile riduzione di gas serra, però i sommovimenti tellurici sia sul piano produttivo che sociale ci inquietano e ci mostrano come liberarsi dei fossili, in realtà, sia impresa alquanto ardua. Nel contempo nella nuova situazione, per certi versi drammatica, appare sempre più chiaro che il precipitare della crisi è possibile a breve e che quindi sarebbe necessario mettere in campo una strategia al livello dell’urgenza del momento.
Scontato che il Pnrr, la gestione Cingolani ed in generale le leadership internazionali e sono a dir poco del tutto inadeguate, il tema è: quale forza d’urto possiamo sprigionare a livello di movimenti sociali e di conflitto per provocare la svolta necessaria?
Quando si affronta questo problema, che ad alcuni ambientalisti, appagati da personali pratiche virtuose, sembra neppure interessare, la prima cosa è recriminare sulla subalternità dei movimenti sindacali e sull’inadeguatezza dei loro gruppi dirigenti del tutto fuori gioco. Ma i nuovi movimenti ecologisti, che pure esprimono una radicalità apprezzabile e necessaria, non sembra siano in grado di esprimere una forza sufficiente a salvare il “futuro comune” e a contrastare le resistenze di un sistema neoliberista che, proprio perché traballante, si avvinghia ancor più all’illusione di sopravvivere, sprigionando, se possibile, ancor più distruttività, rinviando la questione ambientale a “tempi migliori”, che in realtà non verranno mai.
E non si comprende come si possa superare questo stallo.
Un piccolo contributo alla discussione, a questo proposito, potrebbe venire da due recenti elaborazioni e suggestioni che sembrano meritevoli di una certa attenzione
Secondo Paolo Geraudo, sociologo ed esperto di comunicazione politica, direttore del Centro di Ricerca sulla Cultura Digitale al King’s College di Londra, vi è un fattore nuovo, che appare come un clamoroso elemento di contraddizione: il neoliberismo è sempre più sfacciatamente “impuro”, se, per salvarsi dal baratro della crisi, dopo aver predicato per decenni “meno Stato e più mercato” oggi invoca il “ritorno dello Stato” (P. Gerbaudo, Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato, Nottetempo, Milano 2022) e addirittura il “Piano”, considerato fino a ieri, con orrore, un groviglio di “lacci e laccioli”, residuo del comunismo novecentesco, colpevole di mortificare le radiose prospettive della crescita capitalista. Dal neoliberismo siamo così transitati in un “neostatalismo”, corposamente rappresentato da centinaia di miliardi di finanziamenti pubblici. Ma questo “neostatalismo”, praticato e non dichiarato, non garantisce affatto che si perseguano gli obiettivi virtuosi di una riconversione del lavoro e della produzione all’insegna dell’ecologia e della salvaguardia dell’ambiente. In sostanza sono possibili diversi neostatalismi: quello che si preoccupa di salvaguardare i privilegi dei potenti e di conseguire nonostante tutto profitti nell’attuale sistema tentando di aggirare ancora i limiti naturali della crescita con ulteriore distruzione di risorse, oppure quello che si cura di garantire a tutti e tutte lavoro, diritti e dignità e che assume le leggi dell’ecologia come guida per riconvertire l’economia umana. Tra i due neostatalismi, come è evidente, vi sono contrapposti interessi di classe, come si diceva una volta. E se in questo scontro epocale i lavoratori continuassero ad essere assenti, avremmo sulla scena solo i potenti della finanza e dell’industria da un canto e, dall’altro, micro avanguardie ambientaliste, con belle idee ma inascoltate.
Un punto rilevante va comunque segnalato. Se questo è il nuovo contesto in cui ci troviamo, gli argomenti tradizionali (occorrono risorse pubbliche ingenti, si mortifica il mercato…) usati da cinquant’anni a questa parte per evitare una risposta positiva alla “primavera ecologica”, non reggerebbero più. E’ fin troppo evidente che un neostatalismo eco-sociale per imporsi deve reggersi non solo su forme di controllo e di partecipazione democratiche, ma sulla ricostruzione di un grande movimento di massa, autonomo e capace di iniziativa e cultura alternative, radicato nella società, nei cosiddetti corpi intermedi, sindacati, associazioni ambientaliste, organizzati su base democratica e popolare, con una potente forza d’urto e all’occorrenza di conflitto.
E torniamo quindi al ruolo del lavoro, dei lavoratori, dei sindacati nell’attuale fase. Il ricatto occupazione o ambiente, lavoro o salute, va smontato sottraendolo alla drammatica responsabilità del singolo lavoratore e caricandolo appunto sul “neostatalismo” virtuoso sopra indicato.
In questa direzione sembra andare il lavoro di ricerca e di elaborazione dell’antropologo economico Jason Hickel, professore presso l’Istituto di scienze e tecnologie ambientali dell’Università autonoma di Barcellona e collaboratore dell’International Inequalities Institute della London School of Economics (J. Hickel, Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta, Il saggiatore, Milano 2021). Il “neostatalismo” da lui indicato sembra muoversi nella direzione di uno Stato che si prende cura allo stesso tempo dei bisogni essenziali degli umani, quindi anche dei lavoratori, e della salvaguardia della natura.
Sarà difficile ritrovare equilibri fra pubblico e privato grazie a un neostatalismo che rimane per ora fondato su criteri di protezione e controllo dell’economia, apprezzati comunque anche dalla sinistra di governo. È difficile anche il contrario, rimettere lo Stato al servizio di una visione realmente progressista e solidarista, perché nei trent’anni di neoliberismo reale il settore pubblico è stato svuotato di competenze e ha comunque adottato un’organizzazione privatistica mentre il suo intervento è rimasto bloccato in una logica di emergenza subordinata ai bisogni del capitalismo finanziario, in particolare in Europa. Il vero modello-mercato di riferimento di questo neostatalismo è quello della sanità con la Lombardia in testa: un sistema – così è definito dai documenti regionali, non servizio – sanitario sperimentale a guida privata, come ribadisce la Legge regionale Moratti/Fontana dello scorso dicembre 2021, che prefigura un’assistenza sanitaria in realtà fallimentare, disattenta alle esigenze del territorio, incapace di programmazione, cresciuta a dismisura soprattutto per soddisfare bisogni prima indotti, ora reali, costretta a tamponare carenze di personale specializzato con frettolosi corsi per vice-infermieri (200 ore) e profumati contratti a prestazione per medici specialisti mentre non si trovano più medici di famiglia.
Il neostatalismo indicato da Jason Hickel innanzitutto si fa carico dell’obiezione che un’economia della decrescita, obbligata per rientrare nei limiti della biosfera, comporterebbe un ridimensionamento delle forme di produzione e quindi una riduzione dei posti di lavoro, argomento fondato perché non c’è dubbio che interi settori produttivi dovrebbero chiudere e altri, ridimensionati, nascere. La risposta sta nell’accorciare la settimana lavorativa e ripartire in modo più equo il lavoro necessario. Oltre a prevenire la disoccupazione, questo approccio avrebbe dimostrato di avere ripercussioni positive anche sulla salute, sul benessere mentale e sulla parità di genere. Un programma di garanzia del lavoro, finanziato dallo Stato, garantirebbe a ciascuno di formarsi per partecipare ad altri progetti collettivi – organizzati e gestiti a livello comunitario – sui temi più importanti della nostra epoca: ad esempio, costruire capacità energetica rinnovabile, isolare le case, impegnarsi nel lavoro di cura, produrre cibo locale e rigenerare gli ecosistemi. Questa misura metterebbe fine alla disoccupazione, eliminando la questione dell’accesso ai mezzi di sussistenza ed il ricatto occupazione o ambiente. In secondo luogo, consentirebbe di migliorare i salari, gli orari di lavoro e gli standard lavorativi. Se si fissa la garanzia del posto di lavoro a un salario di sussistenza, con 30 ore alla settimana e la democrazia sul posto di lavoro, i datori di lavoro privati saranno costretti a seguirne l’esempio, altrimenti i lavoratori li abbandoneranno. Terzo, la garanzia del posto di lavoro fornirebbe un meccanismo per mobilitare la manodopera e realizzare obiettivi sociali ed ecologici urgenti.
Altro punto cruciale è la garanzia di servizi pubblici universali, che sono il motore più importante del benessere sociale. Bisogna espandere i servizi pubblici essenziali: sanità, istruzione, alloggi, trasporti pubblici, energia, acqua, internet, cibo nutriente e molto altro. Occorre mobilitare le forze produttive per garantire che tutti abbiano ciò di cui hanno bisogno per vivere una buona vita. Sono politiche che assicurerebbero che le nostre risorse comuni e il nostro lavoro collettivo siano mobilitate non solo per produrre, ma per soddisfare i bisogni umani, prima di tutto. E migliorerebbero il potere contrattuale dei lavoratori, liberandoli dal ricatto occupazionale, il che ridurrebbe a sua volta le disuguaglianze e renderebbe sempre più difficile l’accumulo di capitale da parte di pochi, avviandoci verso un’economia post-capitalista. C’è dell’altro: queste politiche aboliscono la scarsità artificiale da cui dipende il capitalismo, per cui non si ha altra scelta che lavorare e competere con gli altri per essere sempre più produttivi, produrre per il bene della crescita aziendale e dell’accumulo di capitale, per la sopravvivenza e, se si fallisce, si perdono i mezzi di sostentamento, una paura che porta le persone e le imprese ad adottare strategie di sfruttamento brutali e spesso violente. Con i servizi pubblici universali e la garanzia di un posto di lavoro pubblico, invece, queste paure e costrizioni sarebbero eliminate e la produzione potrebbe perseguire valori sociali, piuttosto che inseguire la crescita. Al momento i nostri governi non riescono ad adottare nemmeno le misure climatiche più modeste, per timore che ciò possa avere un impatto negativo sui posti di lavoro e sui mezzi di sussistenza. Ma con la garanzia del posto di lavoro e i servizi universali si potrebbe avere una conversazione razionale sul rallentamento delle forme di produzione meno necessarie e avviare una giusta transizione. Come si vede si tratta di un’ipotesi di lavoro potenzialmente anche molto popolare, che potrebbe trovare ascolto anche nei sindacati. Gli ambientalisti avrebbero anche un argomento convincente da giocare, l’esempio concreto del Superbonus del 110 %, che fa bene all’ambiente ma anche all’occupazione ed al lavoro “buono”. Certo, avviare un simile confronto sembra un’impresa impossibile, ma in certi tornanti della storia i processi, per necessità, potrebbero maturare molto rapidamente.
Il dibattito scientifico
“Ogni arma fabbricata, ogni nave da guerra lanciata, ogni razzo sparato significa, in ultima istanza, un furto a chi ha fame e non si nutre, a chi ha freddo e non si veste. Questo mondo in armi non spende soldi da solo. Sta spendendo il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. Il costo di un moderno bombardiere pesante è questo: una moderna scuola di mattoni in più di 30 città. Si tratta di due centrali elettriche, ciascuna al servizio di una città di 60.000 abitanti. Sono due ottimi ospedali completamente attrezzati. Sono circa cinquanta miglia di pavimentazione in cemento. Paghiamo per un solo combattente con mezzo milione di staia di grano. Paghiamo per un solo cacciatorpediniere con nuove case che avrebbero potuto ospitare più di 8.000 persone. (…) Questo non è affatto uno stile di vita, in nessun vero senso. Sotto la nube di una guerra minacciosa, è l’umanità appesa a una croce di ferro”. Sono le parole di Dwight D. Eisenhower (il generale Ike della seconda guerra mondiale, 34° presidente USA) pronunciate il 4 aprile 1953, dopo la morte di Joseph Stalin, quando per un breve lasso di tempo sembrò aprirsi uno spiraglio di dialogo per il disarmo durante la guerra fredda.
Chissà cosa penserebbe di questo discorso Roberto Cingolani, uno dei più incompetenti ministri (della transizione ecologica) tecnici di sempre, già direttore dal 2005 al 2019 dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, poi responsabile del dipartimento tecnologia e innovazione del gruppo Leonardo, l’ex Finmeccanica e fra i principali responsabili in Italia della fagocitazione del sistema scientifico nei meccanismi del neo-statalismo. Da anni, non solo nel nostro paese, i progetti di ricerca, che devono soprattutto soddisfare richieste di mercato, contengono in parte o in toto moduli di marketing che trasformano i ricercatori in procacciatori di clienti per i propri studi, alimentando un circolo vizioso di sviluppo tecnologico fine a se stesso sostenuto da logiche di scambio economico con vista corta.
Paradossalmente, lo scarto fra realtà e immaginario – mentre scopriamo che i treni italiani vanno mediamente più lenti di cinquant’anni fa e guardiamo alla Luna o a Marte come luoghi dove impiantare future basi dis-umane – è più ampio ed evidente oggi proprio nel pensiero scientifico. La scienza e gli scienziati si ritengono estranei all’agone politico e ribadiscono la neutralità del sapere da essi costruito senza comprendere che la credibilità della scienza oggi è messa in discussione non dalle prese di posizione rispetto ai problemi dell’umanità, ma proprio dal rifiuto di prendersi responsabilità di scelta.
Ancor prima del problema dei finanziamenti scientifici e di chi li deve sostenere, gli scienziati devono risolvere il problema degli obiettivi e del senso della ricerca, facendo risuonare le loro conoscenze nel campo delle scienze umane. Perché gli obiettivi e il senso della scienza sono gli stessi che orientano ogni altro ambito la società. È questo il livello in cui nascono il tema del coinvolgimento degli scienziati – in guerra e in pace – e le maggiori differenze di opinioni e comportamento, non sul piano tecnologico. Gli artefici del progetto Manhattan iniziarono a separarsi subito dopo l’esplosione nucleare nel deserto di Los Alamos il 16 luglio 1945; mentre John Von Neumann si assicurava un posto con i militari che decisero quali città giapponesi colpire, Norbert Wiener, Robert Oppenheimer e altri si riunivano nella Associazione degli scienziati di Los Alamos, fondata prima che finisse quello stesso mese di agosto 1945 in cui caddero le bombe su Hiroshima e Nagasaki.
La vera domanda è perciò per quale progresso, per quale idea di futuro e di umanità e attraverso quali strumenti democratici, il mondo scientifico può partecipare insieme alla cultura umanista alle scelte per orientare il futuro. Di fronte alle catastrofi ambientali, climatiche, belliche dobbiamo chiederci quale ruolo e quali spazi ci sono per la scienza e gli scienziati così come per la cultura e l’educazione, mentre è chiaro che scienza e tecnologia mainstream sono corresponsabili della catastrofe ambientale e climatica direttamente, perché alcune attività scientifiche (per esempio l’aerospazio, il nucleare, le tecnologie per allevamenti e agricoltura intensivi) sono energivore, consumano materiali rari e – assieme a indubbi risultati positivi, come i vaccini o conoscenze mediche e biologiche – producono scorie tossiche e enormi quantità di rifiuti elettronici, come tutte le grandi produzioni industriali. Dobbiamo prendere coscienza che le effettive neutralità, libertà o autonomia delle attività scientifiche sono tutte da verificare. In questa prospettiva, una guida democratica e partecipata della ricerca è l’obiettivo minimo, comunque preferibile all’attuale pilotaggio politico-industriale, senza illudersi che lo sviluppo di nuove conoscenze sia di per sé foriero di vantaggi per l’umanità.