Bravi maestri?
Libro d’esordio di un professore siciliano, Mario Fillioley, classe 1973, Lotta di classe è il diario narrativo di un anno scolastico trascorso in una scuola media di San Gemini in provincia di Terni. Il genere del diario scolastico non è nuovo; specie negli ultimi anni ne sono stati scritti tanti, tutti uguali. I professori amano scrivere di scuola, ma soprattutto amano parlare di sé, e gli editori sanno che un libro sulla scuola è sempre un investimento sicuro, specialmente in tempi di riforme. Lotta di classe, però, è un bel libro, che non annoia mai il lettore: la cronaca dell’attività scolastica è continuamente interrotta dai ricordi personali del narratore, della sua vita da studente e di una precedente esperienza lavorativa presso un centro di formazione professionale a Siracusa, costantemente assunta come controcanto. È un libro divertente, pieno di vita e di calore umano, che per una volta riesce a parlare della scuola senza fare appello ai soliti cliché sulla crisi di un’istituzione eternamente in crisi. D’altronde l’autore non ha alcun intento documentaristico o di denuncia: più che un libro sulla scuola, Lotta di classe è un libro sulle relazioni umane.
Interessante è il modo in cui si presenta la figura del docente, spesso descritta nel dibattito contemporaneo come una figura in crisi – “evaporata” direbbe qualche psicanalista – che avrebbe perso il prestigio e l’autorevolezza di cui godeva un tempo. Una confusione tra autorevolezza e autoritarismo che fa rimpiangere forse ad alcuni il periodo in cui il professore terrorizzava i suoi studenti con un fischietto in bocca, come ne I 400 colpi di Truffaut. Inutile osservare quanto questa visione delle cose rischi di indurre al vittimismo, all’autocommiserazione e probabilmente anche a un certo revisionismo storico. Esiste anche il problema opposto: l’atteggiamento seduttivo di quei docenti che cercano l’ammirazione dei propri studenti. Ma tra il docente stronzo e quello leccaculo tertium non datur: “Il dilemma è questo: non voglio essere uno che rimprovera la classe (…) perché qualcuno ha lanciato una carta verso il cestino. Voglio essere uno che la stoppa col tacco, se la fa rimbalzare in mano e riscuote una standing ovation, con la classe che canta la canzone di Fedez. Però, ancora più di questo, voglio che durante la lezione a nessuno venga in mente di lanciare una carta verso il cestino: un po’ perché voglio che siano avvinti dalla cosa interessante che stiamo facendo insieme, e un po’ perché anche se ho sollevato il tacco al momento giusto sono un anziano insegnante brontolone e ‘Non voglio assolutamente che si tirino carte durante la mia lezione. mi sono spiegato? Altrimenti qua dentro cominciano a fioccare i quattro. E non ve lo voglio ripetere più. È chiaro?’”
Qualcuno potrebbe legittimamente chiedersi se il professore che stoppa la pallina di carta col tacco sminuisca il proprio ruolo o se, al contrario, questo gesto possa aiutare a trasformare rapporti e ruoli già fissati all’interno della classe. Difficile rispondere. In tempi in cui la didattica pretende di essere riconosciuta come scienza, spingendo verso una spersonalizzazione della figura del docente, Fillioley ci ricorda che ogni professore è innanzitutto un uomo o una donna che, per lavoro, passa diverse ore della sua giornata con ragazzi e ragazze di diversi anni più giovani di lui, e che, come in ogni relazione umana, l’empatia, la sorpresa, l’imprevedibilità e il caso giocano (per fortuna) un ruolo fondamentale.
L’understatement è la qualità fondamentale del professore di Lotta di classe, il quale non crede di essere il depositario del “Sapere” né di trovarsi dietro la cattedra per un riconoscimento dovutogli dopo anni di studio; anzi a volte se la prende con “questo fatto che i professori hanno fatto l’università e conoscono il commento del Tommaseo (…) bisogna pigliare uno che un attimo prima stava smontando un carburatore a iniezione e metterlo seduto sul banco accanto a un ragazzo che sta leggendo un verso come ‘Or va tu su che se’ valente’, e poi mettersi là a osservare tutti e due che piano piano vengono a capo di un sacco di cose”. Viene in mente Joseph Jacotot, il fondatore del “metodo di insegnamento universale”, basato sul rifiuto del maestro che spiega e sull’idea che occorra insegnare solo quello che si ignora. Una figura di educatore popolare, vissuta negli anni burrascosi successivi alla Rivoluzione francese, a cui il filosofo Jacques Rancière ha dedicato una trentina di anni fa un bel libro, intitolato Il maestro ignorante. Questo prendersi poco sul serio, questo autorappresentarsi come qualcuno sempre un po’ fuori posto, ricorda direttamente scrittori emiliani come Ermanno Cavazzoni, Paolo Nori e Ugo Cornia. Si tratta ovviamente di una maschera. Una maschera che però ribalta con ironia una serie di posture e di discorsi sempre più diffusi nel ceto pedagogico. Sebbene abbia seguito la trafila dei corsi di abilitazione all’insegnamento di ultimissima generazione, il professore di Lotta di classe non fa sfoggio alcuno della sua “cultura pedagogica”. Un’ingenuità (apparente) che emerge anche a livello stilistico: la lingua del professor Fillioley non è lo “scuolese” parlato e scritto dai professori. Fillioley scrive quasi come si parla, quando si parla bene.
Chi supponesse che il protagonista del libro incarni il nuovo modello di docente della Buona Scuola sbaglierebbe di grosso. Il professore Fillioley non è sicuramente una specie diffusa oggi nella scuola italiana. La postura tradizionale del professore (del maître explicateur direbbe Jacotot), che cita le massime di Manzoni e tormenta i suoi studenti con la “musicalità dell’endecasillabo dantesco” – senza magari aver mai letto un rigo di letteratura contemporanea – è affiancata adesso da quella, ugualmente detestabile, del docente-esperto di didattica, capace di padroneggiare un linguaggio specialistico e fumoso composto di parole come Jigsaw, Osa e Uda (o Udl, a seconda delle stagioni). È questo il nuovo ordine del discorso della scuola contemporanea, un linguaggio fatto di parole d’ordine da imparare per superare test di ammissione, concorsi, stilare relazioni. La realtà della scuola, salvo rare e inefficaci eccezioni, sopporta a testa bassa queste imposizioni, alle quali corrisponde però – basta farsi un giro per verificarlo – un reale tentativo da parte di molti docenti di modificare i metodi di insegnamento, ragionare sui cambiamenti della società, ripensare la relazione educativa e il proprio ruolo. È su questo sfondo allora che deve essere letto Lotta di classe: le assunzioni immediate di docenti a condizione di rispondere alla volontà di un algoritmo ministeriale (quella che in molti, esagerando, hanno definito una deportazione, ma che ha effettivamente creato scompiglio nella vita di persone e nuclei familiari da tempo assuefatti a una prospettiva legata a un territorio e a un ciclo fatto di assunzione-licenziamento-disoccupazione, stabilmente precario), il progressivo rafforzamento della figura del dirigente scolastico, il paravento di una meritocrazia fondata sempre più su iniziative al di fuori della classe (reperimento di fondi, progetti extrascolastici, disponibilità non meglio identificate e così via) piuttosto che sul lavoro con i ragazzi nelle ore curriculari, o ancora gli improvvisati e indifferenziati progetti di alternanza scuola-lavoro nelle scuole superiori.
Qual è il risultato di tutto questo sulla vita degli studenti all’interno della scuola? Pur tenendo conto delle dovute differenze tra le scuole medie e le scuole superiori, la rincorsa alla monetizzazione del sapere in termini di crediti formativi fa ormai parte della vita ordinaria di studenti e docenti. Programmare attività per acquisire crediti utili all’accumulazione di esperienze funzionali all’acquisizione di un punteggio: un meccanismo psicologico kafkiano, perverso e ormai completamente organico alla scuola (nonché all’università) contemporanea. L’apologia dell’inutilità dello studio presente nel libro di Fillioley può essere letta allora come un grimaldello provocatorio – ma pieno di senso – per rovesciare questo dispositivo linguistico e restituire una temporalità adeguata al mondo della scuola. Perché perdere tre giorni a leggere un libro sulla vita di Cartesio invece di preparare l’esame che ho la settimana prossima? Perché studiare il latino se poi farò il muratore? “Ma perché un muratore laureato lavora molto meglio di uno non laureato!”, racconta il professore ai genitori che non vogliono mandare il figlio al liceo. È una balla, è evidente. Ma è anche una proposta concreta di insubordinazione. Esistono dei tempi e dei luoghi, delle disposizioni e dei costumi, tutti ben scanditi e ben regolati. Forse il compito di una scuola democratica, e di docenti e studenti al suo interno, può anche essere quello di rompere con l’accettazione di quei tempi, di quei luoghi, di quelle disposizioni e di quei costumi per immaginare, cooperare e costruire insieme tempi diversi, luoghi di altro tipo, disposizioni meno adoperabili, costumi meno invalsi.