Amore
Traduzione di Gabor & Fabrizio Toth
Quando Tibor Déry (Budapest 1894-1977) scrive Szerelem, la storia di un uomo appena uscito di prigione dopo sei anni di carcere per motivi politici che con fatica cerca di riappropriarsi della sua vita, non può sapere che dopo la dura repressione dell’insurrezione del ‘56 ad opera dei sovietici toccherà a lui una sorte simile: quattro anni di reclusione per essere stato, con i suoi scritti, ispiratore e sostenitore della sollevazione armata antisovietica. Lo stesso anno Déry ha dato alle stampe Niki, storia di un cane che proprio di quegli eventi è testimonianza amara e fedele. Nato a Budapest da famiglia borghese Déry, autore prima di poesie surrealiste e poi sostenitore di un realismo di ampio respiro, conoscerà l’esilio all’epoca degli eventi di Béla Kun e poi la prigionia. Il nostro Goffredo Fofi reputa questo Amore uno dei più commoventi racconti del secolo scorso e “un episodio ‘immaginario’ di storia del comunismo, simile a milioni di altri non immaginari, che non vanno dimenticati. E, allo stesso tempo, valido per altri climi e altre dittature”. Speriamo che possa continuare a commuovere ed emozionare anche in questa nuova traduzione.
La porta della cella si aprì e il secondino buttò dentro qualcosa.
“Prenda,” disse.
Era un sacco, con sopra un numero. Cadde a terra, proprio davanti ai piedi del prigioniero. B. si alzò, respirò profondamente e guardò il secondino.
“Il suo abito civile,” disse questi. “Si cambi! A breve le faranno la barba.”
Nel sacco c’erano i vestiti che si era tolto sette anni prima, e le sue scarpe. Il vestito era così sgualcito che neanche un brandello di stoffa era rimasto integro, le scarpe ammuffite. Spiegò la camicia, anche quella era ammuffita. Appena finì di vestirsi, entrò il detenuto barbiere e lo rasò. Un’ora dopo lo portarono al piccolo ufficio del carcere. Nel corridoio già otto o dieci detenuti aspettavano rivestiti con gli abiti civili, ma fu lui il primo ad essere invitato a entrare non appena davanti alla porta. Alla scrivania era seduto un sergente, vicino a lui un altro era in piedi, e davanti a loro un capitano camminava lentamente avanti e indietro nella stretta stanza. “Venga qui” disse il sergente seduto alla scrivania. “Nome?… Nome della madre?… Dove è diretto?…”
“Non lo so,” disse B.
“Come?” chiese il sergente “Non sa dove andare?”
“No,” disse B. “Non so dove mi stanno portando”.
Il sergente, di malumore, gli lanciò un’occhiataccia.
“Non la portano da nessuna parte,” disse torvo “può andare a casa a pranzare con sua moglie. Di notte potrà anche usare il suo attrezzo. Ha capito?”
Il prigioniero non rispose.
“Allora, dove è diretto?” chiese il sergente.
“Via Szilfa 17”
“Budapest. Quale distretto?”
“Secondo,” disse B. “Perché mi lasciano uscire?”
“Perché fai tante domande?” ringhiò il sergente. “La lasciano andare, basta. Sia contento che si libera di noi”.
Dalla stanza vicina portarono i suoi oggetti di valore: un orologio da polso in nichel, una penna stilografica e un portafoglio consumato verde e nero che aveva ereditato da suo padre. Il portafoglio era vuoto.
“Firmi qui sotto,” disse il sergente.
Era una ricevuta per l’orologio di nichel, la penna stilografica, il portafoglio.
“Anche questa!”
Anche questa era una ricevuta, centoquarantasei fiorini di salario. Contarono i soldi davanti a lui, sul tavolo.
“Li metta via,” disse il sergente.
B. tirò fuori dalla tasca il portafoglio e riempì uno scomparto con le banconote e le monete. Anche il portafoglio sapeva di muffa. Per ultimo gli diedero la lettera di scarcerazione. La riga punteggiata che cominciava con “motivi dell’arresto” era rimasta vuota. Rimase in piedi per circa un’ora nel corridoio, poi, insieme ad altri tre lo accompagnarono al portone principale del carcere. Ma appena prima di raggiungerlo un sergente corse verso di loro e li fermò. Un uomo fu prelevato dal gruppo dei quattro e due guardie armate di mitra lo riaccompagnarono nel palazzo della prigione. Il viso appena rasato dell’uomo improvvisamente divenne giallo, come se avesse avuto un eccesso di bile, i suoi occhi divennero come di gelatina. In tre continuarono ad avanzare verso il portone.
“Lì c’è il tram, salga su” disse a B. la guardia dopo aver riesaminato il foglio e averglielo riconsegnato. B. si fermò e guardò per terra davanti a sé.
“Cosa aspetta?” chiese il sergente.
B. continuò a stare fermo e guardava per terra.
“Vada al diavolo,” disse la guardia “cosa aspetta?”
“Vado,” disse B. “allora posso andare?”
La guardia non rispose. B. si mise in tasca il foglio di scarcerazione e oltrepassò il portone. Dopo qualche passo avrebbe voluto guardare indietro, ma si fece forza e proseguì. Tese l’orecchio ma non sentì passi dietro di sé. Pensò che se avesse raggiunto il tram senza che una mano da dietro gli si fosse posata sulla spalla o che lo avessero chiamato per nome, allora probabilmente lo stavano lasciano libero. Definitivamente?
Quando arrivò alla fermata del tram improvvisamente si voltò: nessuno gli era venuto dietro. Frugò nella tasca dei pantaloni ma non c’era un fazzoletto col quale potesse asciugarsi il sudore della fronte. Salì sulla prima carrozza del cigolante tram. Proprio allora un secondino scese dalla seconda carrozza e passando davanti alla prima, con la faccia tutta butterata e i suoi piccoli occhi guardò a lungo B. con aria di sfida. Questi non lo salutò. Il tram partì.
In quel momento – dalla frazione di secondo in cui non aveva salutato il secondino e il tram era partito – in quel momento il mondo cominciò a parlargli. Aveva la sensazione come quando al cinema per un malfunzionamento il film veniva proiettato senza audio per un po’ e all’improvviso, nel mezzo di una frase, di una parola, ritornava la voce a riempire la bocca degli attori e la sala sordomuta, dove anche il pubblico sembrava avesse perso la terza dimensione, improvvisamente, in un millesimo di secondo, si riempiva di musica ad alto volume, di canti, di dialoghi. Tutto intorno, tutti i colori cominciarono a esplodere. Il tram che veniva nell’altra direzione era giallo, così giallo come non ne aveva mai visti in vita sua e una vistosa casa grigia, a un piano, sfrecciò così velocemente davanti a lui che B. ebbe paura che non si sarebbe più potuto fermarla. Dall’altra parte della strada, due cavalli rosso papavero galoppavano davanti a un carretto vuoto, e il loro allegro galoppo faceva muovere le nuvole a pecorelle che nuotavano nel cielo. Un giardino verde bottiglia passò via ondeggiando, poi due globi di vetro fiammeggianti e dietro di loro la finestra aperta di una cucina. Sui marciapiedi camminavano molti milioni di persone, tutte in abiti civili, una più bella dell’altra e tutte diverse tra loro. Molti erano di statura sorprendentemente bassa, alcuni arrivavano solo alle ginocchia dei passanti, molti dovevano essere portati in braccio. E le donne! Non appena sentì gli occhi inumidirsi di lacrime, si addentrò nel tram. La bigliettaia aveva una bella voce dolcemente squillante, che parlava al cuore. B. prese il biglietto e si sedette alla fine del vagone in un sedile singolo d’angolo. Si chiuse. Aveva paura che se non l’avesse fatto avrebbe perso il controllo. Quando per una volta guardò dal finestrino, vide un uomo che accarezzava il viso di una giovane donna davanti al cancello di una birreria. Di nuovo si toccò la tasca del pantalone e ancora una volta non trovò il fazzoletto col quale avrebbe voluto asciugarsi il sudore freddo. Un operaio si sedette nei posti vuoti di fronte a lui con dieci bottiglie di birra nella borsa aperta. La bigliettaia rise.
“Non sarà troppa?”
“Ho famiglia, compagna” disse l’operaio. “A mia moglie piace vedere il marito bere”
La bigliettaia rise.
“Vedere?”
“Sì.”
“Birra scura?”
“Scura.”
“É più buona la chiara.”
“A mia moglie piace vedere la scura” disse l’operaio.
La bigliettaia rise.
“Ne potrebbe lasciare una bottiglia qui da me?”
“Scura?”
“Sì, scura.”
“Perché?”
La bigliettaia rise.
“La porterei a casa da mio marito.”
“Perché portargli la scura se preferisce la chiara?”
La bigliettaia rise. Giunti alla fermata, B. scese e salì su un taxi. L’autista abbassò l’insegna su occupato.
“Dove desidera andare?” domandò dopo un po’ l’autista, dato che il passeggero non aveva parlato.
“A Buda,” disse B.
L’autista si voltò, guardò il passeggero.
“Su quale ponte?”
B. Guardò davanti a sé.
“Come su quale ponte?”
“Non conosce Pest?” chiese ancora l’autista.
“Il ponte Margit,” disse B.
La macchina partì. B. sedeva dritto, senza appoggiarsi allo schienale. Il finestrino aperto dell’auto lasciava entrare l’odore della benzina, la polvere della strada bruciata dal sole e il rumore dei tram.
A destra e a sinistra, il sole splendeva sui due marciapiedi in ugual misura. Così tante ombre si incrociavano sull’asfalto, davanti alle scarpe dei passanti, che quasi raddoppiavano il traffico. Una giovane donna stava fumando una sigaretta all’ombra rossastra di una tenda a strisce arancioni di una pasticceria. Più in là, all’angolo del marciapiede, un giovane castagno stava germogliando e sotto di lui brillava tremolante qua e là un’ombra luccicante.
“Se vede un tabaccaio…” disse B. all’autista.
Tre edifici più avanti si fermarono. B. guardò fuori dal finestrino: c’erano davanti alla porta aperta del negozio una montagna di ravanelli rossi e una di insalata verde davanti a una montagna di mele rosse Jonathan. Più in là, la stretta porta di un tabaccaio.
“Rimanga pure seduto” disse l’autista, voltandosi, “gliele porto io, quali preferisce?”
B. guardava i ravanelli rossi. Le mani gli tremavano.
“Kossuth?”
“Sì” disse B. “E una scatola di fiammiferi”.
L’autista scese – “Lasci stare, poi li aggiungeremo alla corsa. Un pacchetto?”
“Sì grazie” disse B.
“Vuole accendere?” chiese l’autista quando ritornò.
“Anche mio cognato è stato dentro due anni e anche per lui la prima sosta è stata da un tabaccaio. Prima si fumò due Kossuth una dopo l’altra, e solo dopo andò a casa dalla famiglia.
“Si vede molto?” domandò B. dopo un po’.
“Be’, forse un po’ si vede” disse l’autista. “Mio cognato aveva lo stesso colore malaticcio. Certo, potresti venire dall’ospedale, ma lì i vestiti non si sgualciscono così.
“Quanto tempo è stato dentro?”
“Sette anni” disse B.
L’autista fischiò.
“Politica?”
“Sì,” disse B. “Un anno e mezzo nel braccio della morte”
“E adesso l’hanno liberata?”
“Così pare” disse B. “Si vede molto?”
L’autista fece spallucce.
“Sette anni” ripeté. “Non c’è da meravigliarsi”
B. scese alla ferrovia a cremagliera, voleva fare a piedi l’ultimo tratto di strada per riabituarsi a muoversi liberamente, prima di incontrare sua moglie. L’autista non accettò la mancia.
“Avrà bisogno di soldi, compagno” disse. “Li spenda tutti per la sua salute. Carne tutti i giorni, mezzo litro di vino buono e si rimetterà in fretta” .
“Arrivederci,” disse B.
Dall’altra parte della strada, un po’ più indietro, si fermò davanti alla vetrina di un negozio di moda dove aveva intravisto un piccolo specchio. Per un po’ di tempo ci si fermò davanti, poi proseguì. Dato che c’era tanta gente a via Pasaréti, una via di passeggio, tagliò per via Herman Ottó passando accanto a un campo da tennis. Qui invece la piazza era vuota, con appezzamenti di terreno non edificati che si affacciavano direttamente sulle colline di fronte. Gli girò la testa e si sedette sull’erba. Tanto sua moglie non lo aspettava, aveva tutto il tempo di starsene seduto, pensò. Davanti a lui, dietro uno steccato, un melo in fiore. B. lo guardò per un po’, poi si alzò e andò verso il recinto. I grandi fiori bianchi, brillanti di resina, che sedevano sui rami erano talmente spessi che se si guardava dal basso verso l’alto la loro corona, bianca come la neve, si poteva a malapena vedere la tremula superficie blu del cielo. Se si guardava nel calice dei fiori, alla base dei petali – larghi in alto e stretti in basso – si poteva notare in ciascuno un respiro rosa che colorava teneramente la luce nuziale delle corolle. C’erano tante api che ronzavano sui fiori, piccoli fili dorati che vibravano nel tessuto bianco dei petali, e tutto l’albero sembrava ondeggiare, come un velo gettato nel vento. B. si fermò ad ascoltare la voce dell’albero. Trovò due rami tra i quali si poteva scorgere il cielo e oltre, più lontano, una nuvola come di lana, ferma, che sembrava a distanza un altro melo in fiore, irraggiungibile, sopra l’altro albero. Guardò i due alberi, quello tangibile e quello intangibile, fin quando non ebbe un capogiro. Siccome aveva dimenticato di caricare il suo orologio e non sapeva quanto tempo era trascorso da quando era sceso dal taxi, svoltò a un angolo e si incamminò verso casa. Dopo pochi passi si fermò dietro un cespuglio e vomitò: subito si sentì più leggero. Dopo una mezz’ora di camminata attraverso strade laterali battute dal sole, ed alberi da frutto in fiore sparsi lungo la collina, si fermò davanti alla casa. Abitavano al primo piano. Nel giardino, ai due lati del portone c’era un cespuglio di bianchi lillà. Salì le scale. Allo scampanellio non gli aprirono. Sulla porta non c’era la targhetta col nome. Scese nel seminterrato, dal portiere, bussò. “Buongiorno”, disse alla donna che gli aveva aperto la porta. Anche lei era dimagrita, invecchiata. “Chi sta cercando?” “Sono B.” disse B. “Mia moglie abita ancora qui?” “Mio Dio” disse la donna. B. chinò il capo “Mia moglie abita ancora qui?” “Mio Dio” disse la donna ancora una volta “È tornato a casa?” “Casa” disse B. “Mia moglie abita ancora qui?” La donna lasciò la maniglia e si appoggiò al muro “È tornato a casa?” ripetè “Mio Dio! Certo che abita qui. Neanche lei sapeva che sarebbe tornato? Buon Dio! Certo che abita qui”. “Anche mio figlio?” chiese B. “È in buona salute” disse “In buona salute, non ha nessun guaio, è robusto, bello, è diventato un gran bel ragazzo. Buon Dio!” B. stava in silenzio. “Prego, entri da noi” disse la donna, con voce tremante. “prego, entri! Lo sapevo che era innocente. Lo sapevo, che un giorno o l’altro sarebbe tornato”. “Non mi hanno aperto” disse B. “eppure ho suonato tre volte”. “Prego entri da noi” ripetè la donna. “Non c’è nessuno a casa. Anche i coinquilini sono usciti”. B. ascoltava, a capo chino. “Sua moglie va a lavorare, il piccolo Gyuri va ancora a scuola” disse la donna ”Non vuole entrare? Nel pomeriggio torneranno”. “Ci sono coinquilini?” chiese B. “Gente molto perbene” disse la donna “Sua moglie ci va d’accordo. Buon Dio, finalmente è tornato a casa?” B. stava in silenzio. “Io ho le chiavi di casa”, disse la donna dopo un po’ “Vada su a riposare, finché non torna sua moglie.” Sul muro, in un angolo penzolavano due chiavi, la donna ne prese una e chiuse la porta dietro di sé. La prego, vada su a riposare” disse. B. guardò a terra davanti a sé “Viene anche lei? Chiese. “Certo” disse la donna. “Le faccio vedere in quale stanza vive sua moglie.” “In che stanza vive?” chiese B. “I coinquilini sono quattro” disse la donna “a loro hanno dato le due stanze. Sua moglie con il piccolo Gyuri si è trasferita nella stanza di servizio. Ma la cucina ed il bagno sono rimasti in comune. B. non rispose. “Andiamo su” chiese la donna “o preferisce aspettare da noi, finché non tornano a casa?” “La cucina ed il bagno sono in comune?” chiese B. “Certo che sono in comune” disse la donna. B. alzò la testa, e guardò in faccia la donna. “Allora ho il diritto di farmi un bagno?”
“Certo” disse la donna sorridendo, e teneramente prese col palmo della mano i gomiti di B., come per sostenerlo, “certo che ha il diritto di farsi un bagno, come no. Quella è anche la vostra casa, e ripeto la cucina ed il bagno sono in comune. Le preparerei volentieri un bagno caldo con la legna della cantina avanzata dall’inverno, ma credo che i coinquilini di giorno chiudano la stanza”. B. tacque e di nuovo chinò il capo. “Andiamo su o preferisce venire da noi?” chiese la donna. “Venga pure da noi! Io sto in cucina, non la disturbo, si sdraia sul divano, forse riesce pure ad addormentarsi”. “Grazie” disse B. “piuttosto salirei”. La piccola finestra della stanza di servizio era esposta verso nord, come solitamente lo sono le stanze di servizio; davanti c’era un frassino ornamentale, a sinistra era visibile dal bosco di abeti la cima nera del monte Gugger. La stanza era verde scuro per il fogliame del frassino. Quando rimase solo, ed il suo animo si fu un po’ rasserenato, riconobbe l’odore di sua moglie. Si sedette vicino alla finestra, e trasse un respiro. Guardò il frassino. Seduto sospirava totalmente immerso nell’odore di sua moglie. Nella piccola stanza alla rinfusa c’erano un logoro armadio bianco, un letto in ferro, un tavolo, una sedia; per poter arrivare al letto, bisognava spostare la sedia. Non si sdraiò sul letto, ma si sedette e sospirò. Il tavolo era pieno di cose di ogni specie, libri, vestiti, giocattoli per bambini; c’era in mezzo anche uno specchietto; ci si guardò: mostrava la stessa immagine dello specchio della vetrina del negozio di moda. Posò lo specchio voltato a faccia in giù. Non frugò fra le cose di sua moglie sul tavolo. Nel portacenere c’era una palla rossa a pois. Anche sul tavolo c’era l’odore di sua moglie. Appena si sedette vicino alla finestra, la portiera gli portò una tazza di caffelatte e due belle fette di pane. Le mangiò quando rimase solo. Poco più tardi, la moglie dell’inquilino del piano terra suonò, anche lei con una tazza di caffè, pane imburrato, salsiccia, ed una mela Jonathan uguale a quelle che aveva visto nelle vetrine di Kozert. Posò la tazza sul tavolo, gli occhi gli si riempirono di lacrime, che sparirono solo dopo alcuni minuti. Quando B. rimase solo mangiò tutto. Ancora non aveva caricato il suo orologio, e non sapeva da quanto tempo stava seduto vicino alla finestra. La finestra dava sul giardino posteriore, dove nessuno passava. Tra le foglie bordate di bianco del frassino verde brillante, ogni tanto il vento spirava e scuoteva la luce sui muri imbiancati a calce della stanza. Quando ebbe inspirato tutto l’odore di sua moglie, scese in strada, davanti al cancello del giardino. Dopo un po’ di tempo, sua moglie girò l’angolo, attorniata da quattro–cinque bambini. Si avvicinò verso il portone, i passi della donna improvvisamente rallentarono, per un momento si fermò, poi di corsa gli andò incontro. Anche B. senza rendersene conto cominciò a correre. Quando ormai erano vicini uno all’altro, la donna si fermò, come se fosse indecisa sul da farsi; poi di nuovo si mise a correre. B. riconobbe il maglione di lana, grigio a strisce nere, a maniche lunghe, che proprio prima dell’arresto le aveva comprato in un negozio al centro. Sua moglie era un misto incredibile di spirito e di carne, un complesso unico nel suo genere. Superiore a tutto quello che in carcere per sette anni aveva ricordato di lei. Quando si separarono l’un l’altro dall’abbraccio, B. si appoggiò al recinto. Qualche passo dietro la donna, quattro–cinque bambini le stavano attorno, con gli sguardi curiosi, ma anche un po’ meravigliati. Potevano avere sette, otto, nove anni. Non erano cinque, ma solo quattro. B. appoggiato alla recinzione li esaminava uno a uno. “Qual è il mio?” chiese. La donna allora si mise a piangere. “Andiamo su!” disse piangendo. B. fece spallucce. “Non piangere!” “Andiamo su!” disse la donna, piangendo ad alta voce. “Non piangere!” disse B. “Qual è il mio?” La donna spinse il cancello del giardino e di corsa andò verso casa, e sparì nel portone tra i due bianchi cespugli di lillà. Era snella così come quando si erano separati, e correva con gli stessi lunghi passi elastici, come quando una volta da ragazza aveva avuto per la paura incontrollati movimenti nelle gambe davanti a una mucca recalcitrante. Ma quando B. salito al piano arrivò davanti alla porta di casa, già si era calmata; solo i seni, i seni di ragazza ondeggiavano sotto il maglione a strisce nere. Ormai non piangeva più, ma il fondo degli occhi era ancora umido sotto le lacrime asciugate. “Mio unico amore” sussurrava “Mio unico amore!”. Così sussurrava, che si sarebbe voluto tirar fuori le parole di bocca, una a una. “Entriamo!” disse B. “In casa ora abitano anche altri”. “Lo so” disse B. “Entriamo!” “Già sei entrato?” “Si” disse B. “Qual è mio figlio?” Nella stanza la donna gli si inginocchiò davanti, piegò la testa sul petto, piangeva. “Mio unico amore” disse “Ti ho aspettato. Mio unico amore”. B. le accarezzò la testa “ È stato difficile?” “Mio unico amore” sussurrò la donna. B. continuò ad accarezzarle i capelli. “Sono invecchiato molto?” La donna in ginocchio lo strinse. “Per me sei come quando ci hanno separato. “Sono invecchiato molto?” chiese B. “Finché vivrò, ti amerò sempre” sussurrò la donna. “Mi ami?” chiese B. Alla donna tremò un po’ il capo, e pianse forte. B. le tolse le mani dalla testa “Ti potrai abituare di nuovo?” chiese “Potrai di nuovo abituarti a me?” “Non ho mai amato nessun altro” disse la donna “Ti amo”.
“Mi hai aspettato?” chiese B.
“Ho vissuto con te” disse la donna, “Non c’è stato un giorno che non ho pensato a te. Sapevo che saresti tornato. Ma se non fossi tornato, allora sarei morta da sola. Avresti vissuto in tuo figlio”
“Mi ami?” chiese B.
“Non ho mai amato nessun altro” disse la donna. “Sei rimasto lo stesso, non posso che amarti”
“Sono cambiato.” disse B. “Sono invecchiato”.
La donna piangendo strinse a sé la gamba del marito. B. di nuovo prese a carezzarle la testa.
“Possiamo avere ancora bambini?” chiese la donna.
“Forse” disse l’uomo, “se mi ami. Alzati!”. La donna si alzò.
“Lo chiamo su?”
“Ancora no”, disse B. “voglio stare ancora con te. Lui è ancora un estraneo per me. È rimasto in giardino?”
“Scendo giù da lui” disse la donna “e gli dico di aspettare”.
Quando tornò B. era in piedi alla finestra e le dava le spalle. La schiena era attorcigliata e contratta. Non si girò. La donna rimase ferma un momento sulla porta “Gli ho detto di raccogliere fiori per il suo papà” disse con la voce rauca per l’emozione “stanno sbocciando dei lillà nel terreno del vicino. Gli ho detto di raccoglierne un grande mazzo per il padre”
“Mi ami?” chiese B.
La donna gli si avvicinò di corsa, gli mise le braccia intorno alle spalle e lo strinse con tutto il corpo. “Unico amore mio” sussurrò.
“Ti potrai abituare di nuovo?” chiese B.
“Non ho mai amato nessun altro” disse la donna. “Giorno e notte ero con te. Ogni giorno parlavo di te a tuo figlio”.
B. si voltò, la abbracciò e le guardò attentamente il viso. Alla luce del crepuscolo che entrava dalla finestra fu sollevato nel vedere che anche lei era invecchiata, ma era più bella di come se la era immaginata giorno dopo giorno per sette anni. Gli occhi erano chiusi, la bocca socchiusa, e B. sentì il suo respiro caldo attraverso i denti brillanti. Sotto le folte ciglia che poggiavano sulla pelle pallida, la parte inferiore dei suoi occhi brillava scura e bagnata. Era la devozione personificata. B. le baciò gli occhi, poi la spinse via delicatamente da sé. “Ama anche nostro figlio!” sussurrò ancora con gli occhi socchiusi. “Sì” disse B. ”Mi abituerò. Mi abituerò”. “Tuo figlio!” “E il tuo” disse B. La donna gli mise le braccia al collo “Ti lavo” disse. “Va bene”. Si spogliò. La donna rifece il letto, distese il corpo nudo del marito su un lenzuolo. Portò dell’acqua calda in una bacinella di latta, sapone e due asciugamani. Uno, ripiegato, lo bagnò e lo insaponò. Gli lavò tutto il corpo dalla testa ai piedi. Cambiò l’acqua due volte. A tratti a B. tremavano le mani, ma il suo viso ormai si era rasserenato. “Riuscirai ad abituarti?” chiese. “Mio unico amore” disse la donna. “Dormirai con me questa notte?” “Sì” disse la donna. “Il bambino dove dorme?” “ Gli preparerò un letto per terra” disse la donna “dorme molto profondamente” “Rimani con me tutta la notte?” “Sì” disse la donna “tutte le notti, finché vivremo”.
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