Vent’anni di guerra agli immigrati

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 45 del 2017 de “Gli asini”
Nell’afasia generalizzata di individui e società, conclamatasi nella sindrome del capo chino in ogni dove e in ogni momento, su monitor digitali in cui siamo noi stessi a produrre linguaggi di auto-asservimento, sembra che il campanello d’allarme sullo stato di salute della propria vita, delle democrazie e del pianeta sia stato suonato dalla minaccia delle migrazioni e del fanatismo dei terroristi. Minacciati non sono alti valori da difendere, ma la libertà di continuare a farsi gli affari propri a capo chino. Forse che le migrazioni, seppur in termini conflittuali, costringono a pensare e a cercare di capire come stanno le cose in una prospettiva globalizzata? Sarebbe una visione troppo ottimistica e generosa verso il genere umano. Un esempio per tutti: dei cambiamenti climatici non si parla e di fatto non si fa nulla seppure contiamo morti e dispersi dopo un temporale. Ma sono una minaccia come causa delle migrazioni, per cui è stato coniato il titolo di rifugiato ambientale. Se ne parla preoccupandosi più degli effetti per cui milioni di persone saranno costrette a spostarsi che come presa di coscienza di una catastrofe in atto che ci riguarda tutti e, soprattutto, le generazioni a venire. Per cui si pensa che cancellando dall’orizzonte le barche che trasportano immigrati e profughi si possa smettere di pensare ai cambiamenti climatici, a guerre e a dittature, alla povertà, al fanatismo e al terrorismo, alla globalizzazione di poteri sempre più capaci di dominio, di violenza, di persuasione e di asservimento, alle mutazioni in atto.
Per molti anni, l’immigrazione in Italia è stata un tema relegato a pochi specialisti e volontari. Ora che i poteri della globalizzazione sovrastano quelli nazionali, tutti sono costretti a confrontarcisi non capendo però che non è con l’immigrato e il rifugiato di turno che si può risolvere la questione, perché il discorso si sposta vertiginosamente su una scala infinitamente più grande e che riguarda cambiamenti dai tratti apocalittici da qui a non molti anni. L’immigrato e il profugo, al di là delle scelte personali che li spingono a muoversi, sono i portatori inconsapevoli dei cavalieri dell’apocalisse.
Ormai parecchi anni, fa Ivan Illich, in un saggio sui bisogni dove criticava il “culto della crescita e dello sviluppo” considerandole previsioni “controintuitive” di quello che avrebbero generato, accennò a ben più di quattro cavalieri dell’apocalisse: il cambiamento climatico, l’impoverimento genetico, l’inquinamento, le immunodeficienze, l’aumento del livello dei mari e, per concludere, profughi a milioni. Se l’immigrazione è la sola lente di ingrandimento del dibattito/conflitto pubblico si deve almeno sapere che principalmente è di molto altro che stiamo parlando e che riguarda tutti, non solo chi viene dal mare. Ed è per questo che è così difficile, forse impossibile, solo pensare a delle soluzioni che non siano temporanee, a favore o contro le persone che migrano.
Mi sembra che rispetto allo ieri di secoli di migrazioni, a scricchiolare e a cambiare oggi, non sia solo il potere temporale degli uomini su questa terra, ma la terra stessa come pianeta. Se questo è vero allora dovremmo cominciare a pensare a quelle barche che affondano nel Mediterraneo come un’arca del diluvio universale su cui tutti stiamo navigando. Prima dell’apocalisse però, per cercare di guarire dall’afasia che ci ha colpito e che non ci permette di capire la realtà né con i sensi e neppure con la ragione, rispetto all’immigrazione, nel contingente, è bene ripercorrere la sua evoluzione e come, in modo del tutto terra terra, di anno in anno, di evento in evento, abbiamo reagito.
Prima, gli effetti dell’accoglienza sulle persone e la sua crescente tecnicizzazione e corruzione erano per pochi; le morti in mare e le commemorazioni in piccole comunità riunite erano per pochi; il deserto e le carceri libiche erano per pochi; l’esternalizzazione delle frontiere era per pochi; le occupazioni abitative di centinaia di profughi in stabili abbandonati nelle periferie delle città erano per pochi; la migrazione interna di migliaia di stranieri verso le campagne e la loro riduzione in schiavitù nelle raccolte stagionali erano per pochi; la disumanizzazione e criminalizzazione verso una minoranza della popolazione, dal mare fin dentro le nostre scuole, erano per pochi; l’imposizione della soglia del 30% di bambini nati da genitori stranieri nelle scuole elementari era per pochi. Ora che il discorso pubblico sulle migrazioni si è aperto ed è trasversale alle classi sociali e alle appartenenze politiche o religiose e si tramuta sempre più velocemente in conflitto dentro la società, bisognerà trovare altre e più convincenti risposte e modi di operare.
1997 – 2017, vent’anni di guerra all’immigrazione
Il 28 marzo 1997 una motovedetta albanese omologata per 10 uomini di equipaggio parte da Valona. Il suo nome è Kater I Rades ed è stracarica: a bordo ci sono 120 profughi. Uomini, donne e bambini in fuga dall’Albania in piena rivolta. Raggiunta da due navi militari italiane, la Kater I Rades viene speronata nel Canale di Otranto dalla corvetta Sibilla che esegue manovre “dissuasive” per convincere gli scafisti a tornare indietro. La motovedetta affonda: muoiono 81 persone e 34 sono i superstiti.
Nel ’98 a Roma aprono i primi centri di accoglienza per profughi, nel 2000 si ha notizia delle prime imbarcazioni che tentano di attraversare il canale di Sicilia con a bordo i primi profughi subsahariani.
Nel 2004, a Roma, sotto la giunta Veltroni e la guida di Odevaine si inaugura la stagione di Mafia capitale. Intanto i viaggi e le stragi del mare continuano fino ai respingimenti nel 2008, per cui l’Italia viene condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Nel 2009 viene varato il pacchetto sicurezza in cui compare per la prima volta in Italia il reato di immigrazione clandestina. Anno dopo anno la corsa è inarrestabile e ripetitiva: deserto, carceri libiche, mare, naufragi, centri di accoglienza, commissioni territoriali, Cie, occupazioni abitative, flussi dall’Italia verso il Nord Europa, respingimenti per la convenzione di Dublino, blocchi alle frontiere, muri, recinti e “giungle”. È una corsa inarrestabile e nessuno ascolta il grido di dolore che si leva da un orizzonte di sofferenza che attraversa il mare e si impiglia nelle maglie dell’indifferenza e di un’accoglienza che comincia a fare i conti economici sui profughi. Era già tutto lì, nei primi dieci anni del nuovo millennio. Già si parlava di canali umanitari, di Libia, di cambiamenti climatici, di caporalato e nuovo schiavismo, delle scuole che cambiavano la propria popolazione per cui c’era bisogno di una legge sulla cittadinanza mentre si imponeva la soglia del 30% di bambini figli di immigrati. In questi anni di corsa continua la rappresentazione del fenomeno è schiacciante: immigrato/clandestino/ criminale.
Il 4 gennaio 2011 muore in Tunisia Mohamed Bouazizi. Un giovane tunisino, venditore ambulante vessato dalla polizia municipale, che per protesta si suicida in strada dandosi fuoco aprendo la strada alle rivolte delle primavere arabe al grido di degage contro i tiranni: “vattene”. Bouazizi muore a gennaio e ad aprile dello stesso anno in Italia viene varato il piano Emergenza Nord Africa per “assicurare la prima accoglienza, garantire l’equa distribuzione sul territorio italiano e provvedere all’assistenza dei profughi e dei migranti arrivati in Italia a seguito dell’intervento militare in Libia (19 marzo 2011) e la caduta di diversi regimi nei paesi del Nord Africa”. A luglio 2013 qualcosa cambia nella narrazione e rappresentazione pubblica dei migranti che attraversano il mare. Termini quali clandestino/criminale lasciano il posto a profughi, rifugiati e vittime; i viaggi diventano della speranza in mano ad aguzzini trafficanti di esseri umani.
È l’8 luglio 2013 quando papa Bergoglio visita Lampedusa e si scaglia contro “la globalizzazione dell’indifferenza” e la società “che ha dimenticato l’esperienza del piangere”. Due mesi dopo Lampedusa sarà teatro di uno dei più tragici naufragi di migranti: era il 3 ottobre 2013, morirono 368 persone. Nello stesso mese ha inizio l’operazione Mare nostrum, che nasce sotto il governo Letta come reazione al naufragio di Lampedusa. L’umanitarismo si militarizza trasformando il soccorso in mare in un campo di battaglia dal volto femminile. La Rai produce la web serie La scelta di Catia, 80 miglia a Sud di Lampedusa. È un successo, viene trasmessa in prima serata su Rai Tre e diventa un libro edito da Mondandori in cui la protagonista sintetizzerà così il suo percorso professionale: “Volevo arrivare al vertice, e ho lavorato per avere quello che più di ogni altra cosa desideravo: comandare un pattugliatore”.
Sono passati diciassette anni dallo speronamento della Kater I Rades a opera della marina militare che ora veste i panni di un umanitarismo prodigo nel salvare vite umane e in molti casi, ne siamo certi, da parte di marinai e ufficiali, con sincera commozione e partecipazione. Ma è la rappresentazione a cambiare: il discorso pubblico della politica e dei mass-media cerca di riumanizzare persone che fino a pochi anni prima venivano demonizzate, respinte e criminalizzate. Ora, per ragioni di natura capitalistica e demografica ancora tutte da analizzare, quella stessa popolazione diventa una massa inerme di vittime della guerra e della povertà che abbiamo l’obbligo di portare in salvo.
Gli stessi talk show cambiano registro e si lanciano in storytelling di viaggi nel deserto e nel mare. Sembra che a parlare siano esponenti delle associazioni che da anni cercano di rendere visibili i profughi e i loro viaggi, e invece sono giornalisti televisivi che, con lo stesso linguaggio, tono e retorica degli operatori umanitari, narrano le storie di chi è senza voce, portandole in prima serata direttamente sul palco di San Remo. Quando non sono le vittime a salire sul palco e a ricevere visibilità, sono i loro salvatori. Mare nostrum però si conclude dopo solo un anno di attività e viene sostituito da Triton Frontex, a guida europea. Una missione che non ha come obiettivo la ricerca e il soccorso in mare, ma il controllo delle frontiere.
L’anno di Triton, il 2014, sarà ricordato come “l’anno più mortale”, con il maggior numero di vittime mai registrato: oltre tremila persone. Intanto si riapre la rotta greca e balcanica suggellata dall’immagine del corpo disteso sulla spiaggia di Alan Curdi, un bambino curdo siriano di tre anni affogato mentre la barca su cui viaggiava, proveniente dalla Turchia, cercava di raggiungere l’isola greca di Coo.
A marzo 2016 gli accordi con la Turchia di fatto chiudono il canale balcanico e greco. Ad agosto 2017 gli accordi del governo italiano con la Libia chiudono invece la rotta attraverso il canale di Sicilia. Al momento abbiamo notizia di naufragi lungo la nuova rotta del Mar Nero verso la Romania dalle coste nord della Turchia, partenze di pescherecci dalla Tunisia verso la Sicilia e una maggiore pressione dei flussi sulla Spagna. Tutto è in divenire. Soprattutto il grande interrogativo è se gli accordi italo-libici reggeranno e a quale prezzo di vite e sofferenze.
Le ong, ricerca e soccorsi in mare
Dopo la fine della missione Mare nostrum e il fallimento europeo di Triton, un nuovo soggetto inedito si trova a operare nel canale di Sicilia come “cerotto” per far fronte alla situazione: sono le imbarcazioni di circa dieci ong che si attrezzano per la ricerca e il soccorso in mare. L’enorme quantità di morti per naufragi del 2014 spinge la società civile ad organizzarsi e tentare una risposta tampone di fronte all’incapacità dei governi europei.
A distanza di poco tempo tutto si richiude come un corpo che affonda nelle sabbie mobili: le attività in mare delle ong vengo criminalizzate fino a costringerle a ritirarsi dal campo, quelli che prima dovevano essere salvati ora devono essere “aiutati a casa loro” e, nel frattempo, chi si era messo in viaggio può marcire nelle carceri libiche.
Di questa lunga storia che dura da più di vent’anni restano tre grandi rimozioni. La prima riguarda da cosa e perché le persone si mettono in viaggio. E questa rimozione meglio non poteva essere rappresentata dall’idiozia dell’“aiutiamoli a casa loro”. La seconda è che l’Altro continua ad essere percepito come la principale minaccia e capro espiatorio di tutti i mali della società. La terza è il dopo lo sbarco, ovvero che ne sarà di loro, di chi arriva, a partire dalla qualità e dalle capacità strutturali del nostro sistema di accoglienza e inserimento fino alla predisposizione della società e dei suoi cittadini alla convivenza. Per non parlare della disponibilità di chi arriva di diventare e sentirsi popolazione insieme agli indigeni di un certo paese. Cosa per nulla scontata e ancora tutta da capire.
Su queste tre rimozioni la società civile, le persone in genere, possono fare poco sulla prima e molto sulle seconde due. Quello che più manca oggi all’umanitarismo universale e cosmopolita è la politica, lo stare dentro le contraddizioni senza la pettorina con il marchio di fabbrica, le telecamere per la comunicazione e il marketing societario. Da cittadini insieme ad altri cittadini. Il terreno su cui è stato battuto questo tipo di approccio ormai antropologico, culturale, e il motivo per cui ha subito un fuoco di diffamazione e una sconfitta, è tutto politico. Non si può fare intervento umanitario in una società così complessa schiacciando tutto il discorso sull’eroismo del soccorso in mare.
Lo hanno capito perfino Renzi e il Pd che, con Minniti, dalla “scelta di Catia” sono tornati alla politica, profondamente di destra, preferendo gli accordi con i trafficanti libici. Perché le ragioni di Stato, l’ordine delle cose, si muovono su altri piani e a tempo debito strumentalizzano il messaggio umanitario e lo trasformano velocemente a seconda delle convenienze politiche.
Davanti a persone che rischiano di annegare l’unico discorso legittimo è uno e uno solo: fare di tutto per salvare più vite umane possibili. Ma a mente fredda e fuori dalla dinamica triangolare del salvatore-persecutore-vittima, o degli schemi consolidati di aiuto, colpa, eroismo e redenzione tipici dell’azione umanitaria occidentale verso il resto del mondo, qualche domanda critica bisogna pur farsela.
I viaggi in mare sono dentro una situazione di mondo apocalittica: milioni di persone vivono in una fase “da zombie del capitalismo”, in cui l’alchimia economica rende intere nazioni né vive né morte. Chi parte non ha solo alle spalle dittature e guerre ma anche un’altra verità a cui sfuggire: non morire derubati della propria vita ma cercare di viverla. Una risposta inevitabile alla condizione di zombie. Questa parte di mondo alla ricerca di un’altra possibilità rappresenta una domanda globale che ha fatto diventare il traffico di esseri umani la terza economia illegale dopo la droga e le armi. L’Oim ha calcolato che il traffico di denaro accumulato dai “trafficanti di esseri umani” ammonta a circa 35 miliardi di dollari all’anno, la maggior parte dei quali guadagnati con i viaggi nel Mediterraneo.
La rete è fitta ed enormemente organizzata anche su internet. Solo una piccola parte di questa grande attività di promozione dei viaggi clandestini affiora sui network ufficiali come Facebook. Il resto è difficilmente rintracciabile. Chi osserva questi fenomeni afferma che la comunicazione via internet degli sponsor dei viaggi si preoccupa di farli apparire sicuri per aumentare la domanda. Si comportano come una vera e propria impresa economica, con un loro proprio marketing. Questi stessi ricercatori fanno notare che la presenza di navi della società civile che operano per la ricerca e il soccorso in mare viene utilizzata proprio per dare all’offerta dei viaggi più garanzie di successo. È evidente che da parte delle ong non c’era e non c’è nessuna volontà di essere partner nell’offerta dei trafficanti e un pull factor delle partenze; ma c’è da credere, o almeno domandarsi, se questo non avvenga al di là delle proprie intenzioni come effetto collaterale. I trafficanti non si curano affatto che i viaggi siano sicuri, ma se altri lo fanno per loro non possono che trarne vantaggi. Siamo dentro un meccanismo economico e criminale.
La dinamica vittima-salvatore-carnefice è piena di insidie difficili da prevedere. C’è chi, da una parte, fa profitti vendendo viaggi in cui si rischia di morire e di essere perseguitati. E chi, dall’altra parte, cerca donazioni per salvare le vite di chi è stato messo in pericolo con il viaggio o cerca di sfuggire, più che dal proprio paese dai suoi nuovi aguzzini. È un circolo infernale in cui sembra che in mezzo sia rimasto il vuoto totale, e questo è inaccettabile. Si tratta di un vuoto generato da una condizione di stallo e degradazione della politica, del vivere civile, del modo di operare dei vassalli del potere, il terzo settore, dal le associazioni alle cooperative, ma anche dal fatto che il potere contrattuale a livello economico delle grandi organizzazioni internazionali ha di fatto occupato lo spazio dell’azione politica e dell’intervento sociale, sostituendolo con l’advocacy e il marketing vittimario. Questo schema non costruisce società perché delega la possibilità di mettersi in gioco da parte del cittadino alla semplice indignazione da lontano che si traduce in donazione. Quello che dimostra la criminalizzazione dell’azione delle ong è proprio l’isolamento culturale e politico in cui avvenivano le operazioni di ricerca e soccorso. Un isolamento di cui sono responsabili la politica e la società, la coscienza collettiva, ma anche le ong per come nella loro storia hanno operato e operano.
La prima volta che ho incontrato sul campo gli operatori di Msf era il 2003, in una occupazione di rifugiati eritrei e sudanesi alla stazione ferroviaria di Tiburtina conosciuta come Hotel Africa. In quel contesto l’azione di piccole associazioni e comitati era cercare di costruire dal basso e lentamente una consapevolezza collettiva per rispondere a quelle condizioni abitative e trattare con la giunta Veltroni per l’apertura di centri di accoglienza adeguati alle esigenze delle persone e diversi dallo standard vigente. Una mattina, dal nulla, confondendo quell’occupazione con un ospedale da campo, apparì dentro i magazzini, con le pettorine siglate e la telecamera, un’equipe di Msf per uno screaning sanitario. Attraverso l’aiuto di un mediatore interno all’occupazione, misero tutti in fila per le visite. Il giorno dopo uscì su “Repubblica” un articolo in cui Msf si proponeva come soggetto di advocacy di quel campo profughi. Questo modo di agire non può che fare terra bruciata: non costruisce alleanze di tipo politico, schiaccia le persone dentro quello stato inerte di vittime, e non cerca la costruzione e condivisione di un’azione collettiva consapevole e responsabile.
Probabilmente, per i propri donatori i video e l’articolo di giornale sono quello che ci vuole, ma alla fine si è tutti più deboli. Quell’isolamento, quella frammentazione, quella debolezza, quell’assenza di confronto politico, sono le ragioni per cui poi in modo così facile a vincere è stata Mafia capitale. A vincere è stata quella politica così cinica, di fronte a cui le nostre pettorine, i nostri video, le nostre denunce ci fanno apparire oggi, con il senno di poi, così tragicamente naif. L’isolamento politico viene dal fatto che non si cercano mai alleanze strategiche e politiche, ma si fa marketing della sofferenza per sostenere le proprie attività a distanza. È vero che le agenzie umanitarie promuovono un immaginario morale che pone l’accento sulla vulnerabilità umana. Ma il punto è come, e con quali effetti sulla nostra capacità di reazione oltre l’indignazione.
Il marketing delle ong ha organizzato il nostro immaginario e percezione delle crisi attraverso una comunicazione del dolore a distanza, per cui il cittadino occidentale è semplicemente chiamato a rispondere pagando un aiuto a distanza, garantito dal fatto che fino a quando li aiuto a casa loro non possono disturbare più di tanto. Quindi l’umanitarismo cosmopolita è un operatore di visibilità che mostra le vittime e gli eroi, il mondo e le crisi secondo un suo preciso schema. Con la garanzia, a società e governi, che le vittime sono tenute a debita distanza. Il meccanismo che c’è dietro è che il credenziale morale e le donazioni aumentano nella misura in cui aumentano le vittime e le sofferenze di cui sono vittime.
Se il governo Renzi aveva bisogno di femminilizzare il campo di battaglia e offrire al popolo italiano un surplus di etica attraverso l’operato della marina militare e “la scelta di Catia”, dall’altra parte le ong, e in questo caso Msf ha avuto bisogno della “scelta di Erri De Luca”, invitato a stare su una delle loro navi per due settimane, per produrre un video a conferma del proprio credito morale. “La scelta di Catia” e “la scelta di Erri De Luca” sono la stessa faccia di una medaglia in crisi, al netto di quello che concretamente sono riusciti a fare con Mare nostrum e con l’attività di ricerca e soccorso in mare le ong. Un netto che non vuole dimenticare migliaia di persone salvate. Ma l’isolamento, la criminalizzazione e gli accordi poi in Libia, rispondono a un altro campo di battaglia di cui quel tipo di marketing, tutto dentro l’ideologia vittimaria, non ha tenuto conto: ovvero il conflitto che man mano esplodeva sulla terra ferma. Per cui, anche da posizioni in genere moderate e di “sinistra”, si è cominciato a dire che gli accordi con la Libia erano necessari e molti hanno tirato un sospiro di sollievo quando le ong, percepite in versione “taxi del mare” sono scomparse all’orizzonte tornando al loro status classico di rappresentazione del dolore a distanza, senza essere più colpevoli di sbarcare quel dolore proprio sulle nostre coste.
Gli operatori: tecnici senza pudore
C’è poi da dire qualcos’altro proprio su noi operatori sociali, umanitari, volontari, educatori, su chi siamo e cosa stiamo diventando. Due mi sembrano i pericoli più gravi che corriamo. Il primo è che gli operatori aspirano sempre più a diventare degli impiegati-tecnici dentro imprese sociali sempre più profit. E quindi anche loro non sono più degli attori sociali nel senso dell’aiutare la popolazione a rendersi consapevole e ad agire collettivamente per il bene di tutti. Ma invece sono, e aspirano a essere, uno degli elementi del controllo sociale secondo schemi non propri, dettati dal potere e accettati acriticamente. Il centro di accoglienza in cui si ospitano i migranti temporaneamente è un luogo isolato e scisso dalla realtà sociale circostante. Così viene pensato e gestito dagli enti secondo una cultura assistenzialistica che vede il migrante come utente e non come un nuovo cittadino generatore di inquietudini, ma anche di nuove relazioni e obblighi degli uni verso gli altri scambievolmente in un nuovo contratto sociale. Il centro di accoglienza così concepito crea intorno a sé un vuoto siderale per cui all’arrivo di un piccolo gruppo di donne, in un piccolo paese di provincia, la popolazione dal basso si organizza per respingerlo. C’è da esserne sicuri: se si fosse organizzata un’assemblea cittadina in cui presentare personalmente quelle donne, la maggioranza dei cittadini se ne sarebbe fatta carico e i conflitti si sarebbero potuti spostare su un piano di dialogo e non di istintivo e cieco rifiuto. Dal basso la popolazione si organizza spontaneamente soprattutto contro, dal basso verso il basso, mentre la mediazione dovrebbe essere capace di spingere a un movimento dal basso verso l’alto. Le associazioni, asserragliate ormai dietro deskfront con computer e telefono per professionisti, imprenditori, esperti e cercatori di finanziamenti, si sono ridotte a operazioni di sensibilizzazione per un pubblico già convinto con piccoli eventi culturali, sempre gli stessi, dal teatro alla squadra di calcio, alla mostra creativa del rifugiato/artista. Non fanno società, cioè non sono immerse e non agiscono dentro le contraddizioni dell’incontro/scontro tra nuovi arrivati e popolazione residente.
Il secondo pericolo che corriamo riguarda una sorta di mutazione antropologica: siamo sempre più vicini a degli esseri sociali che si indignano, denunciano, si mettono sul piedistallo a tempo debito sapendo che verrà l’ora dell’aperitivo, della movida e del turismo consapevole dove tutto annega in una birra artigianale. Annega perché abbiamo permesso al dolore degli altri non di cambiarci e cambiare il nostro modo di essere e agire, ma di farci salire su un piedistallo o un trampolino. Scriveva Camus nella prefazione di un bellissimo libro di Guilloux, La casa del popolo: “Chi non è cresciuto alla scuola del bisogno difficilmente impara il pudore che serve per stare di fronte alla sofferenza dell’altro e nulla gli impedirà di usarla come piedistallo e trampolino”. A questa costruzione del piedistallo, cui tanto contribuisce il marketing del dolore, non bisogna arrendersi. Bisogna trovare un pudore che è quello del medico di Fuocoammare ma non è quello di Catia, comandante di pattugliatore, e neppure di Erri De Luca e delle migliaia di umanitari cosmopoliti che non radicalizzano mai quello che vivono, ma si consolano della loro parte di buoni in un mondo di cattivi. I migranti del mare e del deserto sono le “grandi figure della compassione” dei nostri tempi, ma a questa compassione serve un’altra risposta, politica, e un altro pudore.
Individuiamo degli obiettivi comuni e perseguiamoli non solo con campagne di crowfunding ma con azioni politiche, smettiamola di essere e di essere percepiti come le lobby dei diseredati. Non chiediamo ai nuovi imprenditori del sociale il pedigree di tecnico dell’accoglienza, ma battaglie sociali e culturali da fare insieme a quelle persone che individuano nei migranti i loro nemici. Cerchiamo nell’altro il nostro vero alleato, non la vittima, ma il saltatore di muri contro ogni tipo di fanatismo, anche quello dell’altra parte, e la persona con cui occuparci di un oggetto terzo, qualunque esso sia e che sia di tutti e per tutti. Due sono le cose su cui concentrarsi: la corruzione morale prima, ed economica poi, dell’accoglienza in Italia e le carceri libiche. Facciamo la nostra parte come si deve e poi potremo giudicare gli altri per ciò che non riteniamo condivisibile, che pure c’è nel groviglio tra somiglianze e differenze. Scegliamo degli obiettivi e pratichiamoli dal basso verso l’alto senza piedistalli e non come trampolini mediatici per il nostro successo personale e borghese, senza eroi e senza vittime. Ritroviamo, o troviamo se non li abbiamo mai avuti, un pudore e una radicalità nell’azione come nella vita.
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