Crescere nell’assurdo
Il sociale riparte. Meglio starsene a casa?
Probabilmente il 2015 è stato l’anno in cui il sociale ha ricominciato a girare. La parabola discendente del welfare, più volte raccontata da noi e da altri (che aveva visto prima un’esternalizzazione/privatizzazione dei servizi sociali e poi il progressivo smantellamento anche di questo sistema per il venir meno di fondi pubblici: vedi Lavorare nel sociale, una professione da ripensare, curato per le Edizioni dell’Asino da Giulio Marcon, e per le stesse edizioni il mio Fare scuola fare città), quella parabola sembra aver cominciato a ritrovare un primo equilibrio. E come avevamo previsto, al ribasso, in ogni senso.
Se è vero che una minoranza di lavoratori del sociale è davvero riuscita a trarre i dovuti insegnamenti da questi anni di crisi (mettendo in moto quella trasformazione sopra accennata, che a volte ha coinciso col cambiare mestiere), dall’altro è andato consolidandosi un sistema inquietante. Se in quasi tutti i settori dell’economia è peggiorato il livello di trattamento giuridico ed economico dei lavoratori, nel mercato del lavoro del welfare, dove le cose già andavano malissimo, le condizioni degli operatori di base sono colate a picco. Nessun progresso sembrano aver fatto nemmeno legislazione e risistemazione di quei settori cruciali dello Stato che “vengono prima” del sociale: scuola, immigrazione, urbanistica e, più in generale, economia. Il tutto in un clima ancor più radicale di sfiducia, che ha travolto anche associazioni e cooperative del privato sociale a seguito dei ben noti scandali, con epicentro nella capitale.
Non mutando nulla del proprio sconfinato apparato burocratico amministrativo (i cui impiegati di prima linea si sono trovati iper stressati e del tutto impreparati all’implosione del sistema in cui avevano fino ad allora lavorato), nell’ultimo anno le pubbliche amministrazioni hanno tentato di riavviare un welfare minimo, pescando tra le macerie di associazioni e cooperative superstiti. Compiendo in alcuni casi, come a Napoli, svolte fino a poco fa impensabili, come riuscire a pagare i propri creditori con massimo un anno di attesa (fino ad alcuni anni fa il Comune di Napoli effettuava pagamenti anche a 3, 4 anni).
Eppure spiace dirlo (perché riguarda anche giunte che sentivamo vicine come quella del Comune di Napoli appunto), a fronte di conquiste che appena dieci anni fa nessuno avrebbe definito tali, tanto il dibattito quanto la qualità dei servizi sembrano aver fatto un balzo all’indietro di 50 anni. Appalti vinti al ribasso, servizi di sostegno ai compiti scolastici peggiori di un doposcuola improvvisato, politiche d’integrazione basate sulla logica delle classi speciali, assistenza sociale prestata da operatori sull’orlo di una crisi di nervi e senza nessun supporto psicologico/formativo. In assenza di un disegno unitario di città a cui aspirare e con l’esasperazione delle logiche di spartizione territoriale delle grandi associazioni e cooperative sopravvissute. Ci ha colpito ad esempio una clausola che sempre più il privato sociale sta imponendo a bambini e ragazzi che partecipano alle proprie attività ludico educative: se ti iscrivi da noi, non potrai frequentare nessun altro centro o attività educativa affini.
Nel sociale hanno ormai prevalso le esigenze del racconto burocratico/spettacolare, dove tutto si piega alle esigenze di marketing e del consenso politico. La “comunicazione” prima di tutto. E ovviamente non quella finalizzata a una migliore e più profonda intesa tra persone e gruppi. Comunicazione oggi, il più delle volte, significa “maggiore potenzialità di vendita del prodotto” o, nel migliore dei casi, nutrimento per narcisismi individuali e di gruppo.
Va da sé che la scienza (che Dewey dice essere piuttosto un’arte) che più di tutte dovrebbe sorreggere questo settore dell’organizzazione umana, l’educazione, ha tutta l’aria di aver abdicato alla propria vocazione di liberazione e sviluppo del vero sé, per farsi cane da guardia e formatrice di bravi cittadini della società del mercato e dello spettacolo.
Macrocefalo a distanza
Nell’Italia dei tagli è del resto stato il mercato e la finanza ad assicurare in molti casi la persistenza del lavoro sul campo, anche nel welfare. Nord compreso, dove molti dei servizi sociali sono garantiti dai finanziamenti di fondazioni private. Non c’è dunque da stupirsi se molte delle ong un tempo dedite alla cooperazione internazionale stiano sempre più ripiegando sull’Italia. Molte delle sperimentazioni più avanzate in ambito di lotta alla dispersione scolastica degli ultimi anni si sono attuate proprio grazie ad alcune di queste ong (ad esempio “Punti Luce” e il programma “Frequenza 200”, ricerche alle quali abbiamo preso parte anche noi).
Bei programmi, depotenziati dalla cultura che li produce, simile a quella che la peggiore cooperazione internazionale ha attuato in passato nel terzo mondo. Un ingente apparato di impiegati e funzionari (non di rado animati dalle migliori intenzioni e ricchi di sensibilità autentica), destinato allo studio di politiche di marketing capaci di stimolare e solleticare bisogni caritatevoli, attraverso la vendita di una visione della realtà fortemente deformata in funzione proprio di quei bisogni caritatevoli su cui si intende far leva. Un approccio di mercato tout court, all’insegna della distanza tra chi è durevolmente interno alla macchina dell’organizzazione benefica e chi dovrebbe fruire dei suoi benefici (distanza molto visibile per chiunque sia stato in un paese del sud del mondo, ad esempio l’Etiopia). Una macchina che ha costi notevoli per potersi autoalimentare e che può destinare solo piccole e sporadiche quote alle organizzazioni locali. Spostando campo e obiettivo ogni volta che gli analisti di mercato lo consigliano: se oggi “tira” la dispersione scolastica, domani tirerà di più il mercato della violenza sulle donne, e dunque il gruppo locale dovrà arrangiarsi: o riesce a farsi mercato anche lui, o muore.
Non cambia molto se negli uffici ci siano dipendenti pubblici al posto di quelli delle ong. In questo caso anzi le cose si fanno spesso semplicemente più squallide e paradossali perché burocraticamente complicate. Il concetto è lo stesso: il personale deputato al reperimento e alla gestione delle risorse umane e economiche se ne sta in ufficio, con trattamento economico e giuridico più o meno accettabile (con tutte le differenze rispetto al gradino gerarchico occupato), mentre sul campo vanno le risorse residuali e del tutto precarie.
Tanto lo stato quanto il libero mercato risultano incapaci di assicurare l’ingrediente essenziale ad un buon intervento sociale: lunga durata e stabilità. Nelle amministrazioni pubbliche come nelle organizzazioni private, si preferiscono le competenze manageriali a quelle proprie del settore a cui l’assessore o il dirigente sarebbe preposto. Con la conseguenza di una migliore sostenibilità economica dell’organizzazione, che però finisce per non avere più niente a che fare con la ragione sociale che ne costituiva la ragione prima di esistenza.
Giro di città e nuove resistenze
Sono queste alcune delle considerazioni messe insieme dopo il giro di presentazione del nostro Come far passare un Mammut attraverso una porta (ed. Barrito del Mammut), pubblicato l’estate scorsa come rapporto di fine ricerca di un biennio dedicato al collegamento tra didattica e salute. A Torino, Milano, Firenze, Bologna, Genova, Roma, Caserta, Napoli, Palermo e nelle altre città in cui ci siamo incontrati con operatori e insegnanti la situazione sembra confermare quanto fin qua raccontato: perdita dello slancio etico-politico che connotava l’intervento di base degli anni ‘70/’80; eccessiva sindacalizzazione degli operatori, a cui non corrisponde però alcun diritto minimo; crescita esponenziale della richiesta d’aiuto da parte dei territori, a cui non si sa come far fronte; desolazione delle politiche nazionali e locali; mercato come unica possibilità di portare avanti iniziative professionali. E in buona sostanza un grado talmente elevato di esasperazione per la propria sorte economica (nei capi come nella manovalanza delle organizzazioni no profit) che anche senza scomodare il buon Maslow e la sua piramide dei bisogni è facile immaginare quanto tutto ciò possa aver compromesso ogni slancio etico empatico, essenziali in ogni relazione d’aiuto minimamente valida.
Come dicevamo, cominciano però a farsi strada forme più attuali di resistenza, vaccinate alla retorica aziendale e centro-socialista degli anni ‘90. Esperienze nuove, come quella di Palermo, con la biblioteca autogestita Booq, nata all’interno di un locale occupato da genitori stanchi di lamentarsi di fronte ad un pubblico (e a un privato) incapace di assicurare servizi minimi per l’infanzia. Ma anche esperienze storiche, come quella delle Piagge, che ci ha fatto piacere ritrovare finalmente in piena forma. La Comunità delle Piagge di Firenze sembra forse l’unica (tra quelle finora visitate) ad aver trovato un buon equilibrio tra sociale finanziato e cittadinanza attiva gratuita. Il bibliotecario del piccolo prefabbricato da poco destinato a vendita e scambi libreschi, è tra i più competenti librai mai conosciuti, capace di scovare testi introvabili e farli diventare patrimonio di tutta la comunità. Eppure è un volontario. La Comunità delle Piagge, di cui Alessandro Santoro è inossidabile animatore, continua a fare cultura e politica per l’intera città.
Siamo rimasti emozionati dalla presentazione organizzata dalla nostra amica Francesca Traverso nella biblioteca “Don Gallo” di Genova. Mai ci saremmo aspettati di trovare così tanti insegnanti, studenti di medicina e di architettura, educatori e operatori culturali capaci di starsene un pomeriggio a ragionare attorno ai temi della “didattica salutare” che loro stessi mettevano in campo in quella città. A stupirci è stato il sistema della scuola che ospitava la biblioteca, basato su una didattica attiva e capace di farsi territorio, capace di riguadagnare la zona del porto alla dignità di territorio di pregio. Prova ne è che un tempo nessuno voleva andarci ad insegnare in quella scuola, mentre oggi pare che i docenti facciano a gara ottenere un posto.
Incontri ed esperienze che (insieme ad altre, come quella del Forum Tarsia nel Parco Ventaglieri a Napoli) ci hanno ridato fiato. Il limite resta il carattere prevalentemente marginale, l’impossibilità di “farsi città e scuola” (anche se spesso si trattava di organizzazioni ben collegate con gruppi e servizi locali e nazionali). Esperienze per lo più basate sullo sganciamento dal sistema dei finanziamenti (pubblici e privati), ma senza escluderli, come eventualità aggiuntiva.
Dal comitato popolare all’impopolarità
Nel nostro giro di presentazioni cercavamo anche spunti per il tentativo di costituzione di un comitato di gestione popolare capace di farsi carico della gestione dei locali del Mammut in piazza Giovanni Paolo II (così come raccontato nel libro). Non è forse un caso se in nessuno dei luoghi visitati abbiamo trovato qualcosa di simile. Ma solo la domanda sul come sia possibile che i cittadini di un territorio possano autonomizzarsi da chi ha dato vita a un’esperienza di animazione del territorio (come le Piagge, appunto).
Tra aprile e luglio 2015 al Mammut si sono succeduti animati incontri con genitori e ragazzi, con puntate nei palazzi comunali, alla ricerca di interlocutori disposti ad assecondare il processo di costituzione di un comitato popolare di gestione del Mammut. A luglio abbiamo dovuto rassegnarci al fallimento senza appello di questo tentativo. Portandoci però a casa un bel po’ di insegnamenti. Ad esempio che organizzazioni basate sul mutuo aiuto o sull’occupazione non possono essere create se non a partire dalla spinta autonoma di chi dovrà poi farsene carico. Abbiamo così dovuto confrontarci col demone del bravo genitore che lascerà l’eredità ai figli e con il mito del bravo fondatore che una volta dato vita alla città parte per nuove eroiche imprese. Di fronte a un’esperienza territoriale consolidata non ci sono alibi e vie di fuga: o ci stai e te ne fai carico, o te ne vai. La precarietà dipende anche da questo: quanto i responsabili di un’organizzazione sono disposti a garantire lunga durata a quella organizzazione?
E noi abbiamo deciso ancora una volta di starci. Provando a mettere in pratica gli insegnamenti di questo duro anno di lavoro:
1. Una didattica salutare è possibile. Ci sono molte insegnanti e molti educatori disposti a mettersi in gioco e a lavorare in questa direzione, perché molto forte è l’esigenza di ridare senso e dignità al proprio ruolo di educatori. E la ricerca di una didattica capace di potenziare la salute di persone e territori sembra la pista giusta.
2. Separare la sostenibilità dell’organizzazione da quella delle persone che ne fanno parte. Che come abbiamo detto non significa bardarsi in rigidità anti finanziamento, tutt’altro. Ma semplicemente non confondere se stessi con la propria organizzazione, permettendo ad entrambe di esistere al meglio. A trovare una fonte diversa di sostentamento economico è preferibile che sia proprio chi occupa ruoli di guida e coordinamento, permettendo così alle poche risorse economiche di far andare avanti l’organizzazione.
3. Non dare messaggi ambigui relativamente alla responsabilità/potere sulla propria organizzazione.
4. Fare comunità come possibilità di fare Comunità. Ovvero quanto dicevamo prima sulla capacità di passare dalla buona pratica isolata a un contagio positivo più allargato sul progetto politico che riguarda un territorio. Fare città facendo scuola.
È chiaro che non è possibile far finta di niente e continuare a giocare al gioco del “progetto pubblico” quando il pubblico ha abbandonato la nave. Non cambia però la nostra bussola, ovvero il lasciarsi guidare dalle domande di ricerca e dalle istanze etiche. Convinti che a guidarci debba essere una spinta “originaria”, verso qualcosa a cui tendere (anche utopica), e non “reazionaria”, nel senso di reazione a qualcosa che si intende combattere. E non abbiamo troppi dubbi che l’utopia verso cui oggi vale la pena più che mai tendere è quella che Langer e Capitini associavano a una conversione ecologica.
Perché se è vero che chi occupa posizioni di potere (dai vertici della finanza, ai gestori delle cooperative, ai professori universitari) ha scelto in maniera piuttosto omogenea di guidare o di giustificare i processi sopra descritti, una grossa fetta di responsabilità sta ovviamente in tutti gli altri. Anche in quella che a noi sembra la parte migliore (perché a noi più affine e più vicina) della società, quella che si batte per la giustizia sociale e che oggi sembra essersi appiattita sulla recriminazione dispettosa e lamentevole contro il potere, preferendo denuncia, vittimismo e ineluttabilità del male alla possibilità di cambiamento. È in questo senso che la chiave di volta sta nella capacità che il movimento per la liberazione e la giustizia sociale avrà di riconoscersi e riassumere su di sé la possibilità del cambiamento.
È insomma il momento di scelte radicali, di decidere senza più ambiguità e doppi giochi da quale parte della soglia stare: dalla parte della liberazione individuale e collettiva o da quella della sua colonizzazione da parte del mercato spettacolare. Diventando molto più cattivi verso chi ha optato per la seconda possibilità, fossimo anche noi stessi.