Writing back: narrazioni postcoloniali

A partire dagli anni Settanta e Ottanta un vero e proprio fermento ha caratterizzato il panorama culturale, sociale e politico dei territori delle ex Metropoli coloniali. Le sempre più significative migrazioni transnazionali in tali paesi hanno dato avvio a una presa di parola – un writing back di quelle soggettività a lungo silenziate dal dominio e dalla violenza imposta dal colonialismo, violenza materiale ma anche narrativa ed epistemica. Un occhio critico e dissidente quindi che, attraverso lo strumento letterario, quale mezzo di rivendicazione soggettiva e collettiva di pratiche di decolonizzazione, propone una visione alternativa del passato coloniale e del contemporaneo fenomeno migratorio.
In Italia, con alcuni decenni di ritardo rispetto a paesi quali l’Inghilterra e la Francia, la definizione di letteratura postcoloniale come oggi convenzionalmente viene definito il movimento letterario di autori con un background migratorio, dopo molteplici e incerte categorizzazioni su cui torneremo più avanti, è diventata negli ultimi anni predominante. Va detto che in Italia dal dopoguerra fino a tempi recenti si sono letti scrittori post-coloniali anglofoni e in minor misura francofoni, rimuovendo però a piè pari l’esistenza di un passato coloniale nostro, perché considerato breve e poco efferato per essere davvero preso in considerazione. Bisognerà aspettare il triennio 1989-1991 per assistere a una svolta nel rapporto dell’Italia con le migrazioni transnazionali, sia a livello pubblico che accademico. Notizie e discussioni sul tema dell’immigrazione iniziarono in quegli anni ad assumere un ruolo sempre più predominante nel dibattito pubblico. Molteplici violenti fatti di cronaca – tra i più noti vanno ricordati l’uccisione di Jerry Essan Masslo il 25 agosto 1989 e l’approdo a Bari nell’agosto 1991 della nave Vlora con a bordo quasi 18mila profughi albanesi – contribuirono infatti al riconoscimento del fenomeno migratorio come elemento caratterizzante della vita sociale italiana, annunciando la presenza sul territorio di nuove e impreviste soggettività politiche. È proprio in quegli anni che un crescente numero di scrittori proveniente dall’esperienza della migrazione inizia a prendere parola nel panorama culturale italiano. Tali testi, nei primi tempi ancora a cavallo tra l’opera letteraria e il reportage giornalistico, consistevano prevalentemente in scritti autobiografici che ripercorrevano il proprio percorso migratorio e l’esperienza “italiana” degli autori: tra i più noti vi furono Io, venditore di elefanti di Pap Khouma (in collaborazione con Oreste Pivetta) e Immigrato di Salah Methnani (in collaborazione con Mario Fortunato). Nel corso dei decenni successivi tale movimento letterario ottenne una sempre maggiore diffusione e qualche riconoscimento. Autori e autrici come Igiaba Scego, Cristina Ali Farah, Amara Lakhous, Tahar Lamri, Gabriella Ghermandi hanno raccontato la loro esperienza di migrazione sfuggendo però al registro della semplice testimonianza individuale riuscendo a intrecciare il contenuto e la forma della loro doppia appartenenza nella nostra lingua, forzandola e rinnovandola, stentando però a imporsi nel mercato editoriale italiano, forse ancora non pronto a ricevere e offrire ai lettori una visione speculare di sé in cui venivano declinate altre esperienze del nostro vivere ormai comune. Queste narrazioni vengono così a incidere su una visione omogenea, compatta e bianca di italianità scardinandola e aprendosi a una serie di possibili implicazioni politiche, nel senso più ampio del termine, legate alla presenza di soggettività complesse che, rivendicando i diritti e la legittimità della propria voce obbligano a ripensare il concetto stesso di corpo nazionale. A questo movimento corrisponde sul piano accademico un sempre più ampio consolidamento del pensiero postcoloniale italiano e del suo impegno nel sottolineare le continuità tra passato coloniale e le presenti migrazioni transnazionali dal quale emerge la chiara correlazione tra razzismo strutturale e le condizioni materiali e simboliche di gerarchizzazione dell’idea di cittadinanza intesa troppo spesso come una premialità e non un diritto. Da qui la difficoltà di definire ancora oggi questa letteratura come letteratura italiana, allargando così una visione di patrimonio culturale diffuso e legato al contemporaneo e non solo a una vaga idea di tradizione declinata attraverso il tempo, relegandola invece nello stretto recinto di letteratura migrante o italofona, anche quando alcuni degli autori a cui ci siamo riferiti erano nati e cresciuti in Italia e avevano come lingua materna l’italiano e soprattutto erano soggetti che vivevano, consumavano, pensavano nel nostro paese.
Va detto che il problema della definizione non è un dettaglio. Siamo abituati a leggere definizioni come “seconde generazioni” (di cosa? Rispetto a cosa? A un’idea di razza che via via si scolorisce e che diluisce via via lo stigma di una origine diversa fino a diventare definitivamente italiana?), afroitaliani/afrodiscendenti (che rivela un immaginario secondo cui vagamente tutte le seconde generazioni sono di origine africana, rimandando peraltro a un’idea di Africa come un’identità continentale generica e astratta, ricalcando l’immaginario del termine afroamericano dimenticando che però quel termine ha la sua matrice nell’esperienza della tratta come ci ricorda brillantemente Djarah Kan qui) o ancora meticcia o la definizione “nuovi italiani”, che rimanda ancora una volta a un’idea granitica della nostra nazionalità.
Eppure qualcosa si muove: nonostante, come ricorda Igiaba Scego nell’introduzione all’antologia Future (Effequ, 2019), la legge Bossi-Fini sia ancora lì e la legge per la cittadinanza sia ancora un miraggio, in tempi molto recenti anche il mercato editoriale sembra aver scoperto questo filone di autrici. Proprio Future sembra essere un cambiamento di passo perché nella staticità e nell’immobilismo italiano il libro dimostra come negli ultimi anni stia emergendo una nuova generazione di voci e soggettività che, attraverso mezzi e formati variegati, ci raccontano di razzismo e militanza antirazzista, di disuguaglianze di genere e di classe nel paese dei Decreti Sicurezza e di Traini. Si tratta prevalentemente di giovani donne di origine africana ma non solo, dalle molteplici e differenti esperienze, che lavorano fianco a fianco su lotte comuni. Ripercorrendo l’esperienza di Pecore Nere, un’antologia di testi di Igiaba Scego, Ingy Mubiayi e Gabriella Kuruvilla, e Leila Waida nel lontano 2005, originarie di diverse città italiane, queste scrittrici espongono però le proprie vite personali in relazione a una collettività nazionale e internazionale, denunciando disuguaglianze e rivendicando la necessità di azione costruendo un rinnovato rapporto tra voce individuale e collettiva che si mischiano costantemente. Si tratta di narrazioni molto spesso in prima persona che sono frutto di scambi di esperienze serrati, nate dalla frequentazione costante dei social, che creano un dialogo costante anche con quello che emerge in Italia a livello musicale (l’afrobeat di Tommy Kuti e Fula, ma anche esperienze meno conosciute come quelle di Nema Ezza, Sacky, Philip nella zona di San Siro a Milano) dimostrando che esiste un circuito anche a livello di consumi finalmente trasversale che sembra essere uscito con forza nelle nuovi generazioni dall’esperienza dei margini.
Tra queste esperienze vale la pena ricordare il lavoro portato avanti da Espérance Hakuzwimana Ripanti e Djarah Kan, entrambe co-autrici di Future (Effequ 2019) ed entrambe appena pubblicate dalla casa editrice People (in ordine E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana e Ladri di denti), di Oiza Q. Obasuyi, collaboratrice di The Vision. Nel corso degli ultimi mesi le tre attiviste attraverso articoli, dirette e interventi online hanno portato avanti le loro istanze, nel tentativo di far dialogare tra loro temi e questioni strettamente interrelati: razzismo, sessismo, differenze di classe, diritti negati, pandemia e vittime di Covid-19. Un lavoro dal carattere intersezionale il loro, in cui coscienza di classe, movimento antirazzista e femminismo convergono per contrastare disuguaglianze e gerarchizzazioni. Attiviste militanti che facendo riferimento anche a più ampie mobilitazioni internazionali, da Black Lives Matter a Non Una di Meno, si impegnano nel creare convergenze tra locale e globale, pur tenendo conto di contesti culturali e sociali tra loro diversi, così da alimentare un “antirazzismo di rottura”, come lo definisce Miguel Mellino, specifico del contesto italiano. Un antirazzismo che riconosca il carattere sistemico e strutturale del fenomeno attraverso uno sguardo storico e trasversale. E che si impone sfuggendo alla trappola buonista del racconto del viaggio, dell’infanzia disgraziata, del dilemma tra tradizione e modernità vissuta nella famiglia di origine che non si “integra”, superando così la narrativa del migrante costantemente infantile, così caro alla narrativa di buona parte del giornalismo italiano e della televisione. Una scrittura dal carattere performativo che rivendica la presenza e la voce di soggettività politiche troppo a lungo silenziate, espressioni soggettive (quanto collettive) che tratteggiano uno sguardo alternativo sulla realtà sociale che ci circonda. Vere e proprie contro-narrazioni che grattano via quella patina di umanitarismo benevolo caratteristica del multiculturalismo liberale, sottolineando invece la presenza quotidiana di pregiudizi, stereotipi e discriminazioni razziali che, fin dall’epoca coloniale, le società europee hanno inciso nei corpi, e nelle storie, di chi si è trovato sul loro cammino. Scrivere diventa quindi una vera e propria esigenza per contrastare tali narrative: “Per me le parole sono la vita”, afferma Espérance Hakuzwimana Ripanti, “io ho scelto di dare la mia vita alle parole”. Narrazioni non indulgenti anche nei confronti dei professionisti dell’accoglienza, che ci dicono in prima persona quanto sia razzista il nostro paese. E sono narrative che hanno un sapore globale in un mondo in cui la questione razziale rimane centrale e che forse aiuteranno l’Italia ad aprire il suo sguardo oltre i propri confini.
Speriamo che una volta raggiunto un pubblico più ampio esse non vengano consumate e stritolate dal sistema di produzione di fenomeni a cui spesso si riduce il mercato, anche quello editoriale, come spesso succede alle cose che diventano la moda del momento e si svuotano di senso mantenendo solo la facciata della rottura. Ma le istanze portate avanti da questa generazione sono forse, e ce lo auguriamo, troppo urgenti perché questo possa accadere.