Vittime e vittimisti
Leggere “Critica della vittima” di Giglioli mi ha fatto tornare alla mente tanti momenti, sensazioni, visi, corpi, parole, discorsi fatti negli ultimi quindici anni intorno a rifugiati e richiedenti asilo con cui ho condiviso un pezzo fondamentale della mia vita e della mia formazione. Un mondo e un’umanità, è bene dirlo subito, che oggi non appartengono più in modo diretto alla mia quotidianità, al mio agire, avendo scelto di fare anche altro e di non diventare uno specialista dell’immigrazione. E quindi leggere questo libro è stato un po’ come avere trovato una chiave di lettura attraverso cui tirare delle somme. E se considero ciò che so oggi e quello che sapevo più di dieci anni fa mi rendo conto che in un certo modo poco chiaro allora stavo cercando qualcosa che capisco meglio solo ora e che il libro di Giglioli mi aiuta a ripensare.
E’ un libro che fin dalle prime pagine ho sentito riguardare i presupposti di un lavoro che abbiamo chiamato in tanti modi: di cura, di assistenza, di alfabetizzazione, di intervento sociale e politico, di costruzione identitaria, di ricerca dei contorni e delle radici di un fenomeno che ha investito l’Italia soprattutto a partire dai primi anni del nuovo millennio fino ad arrivare oggi all’operazione “Mare Nostrum”. Dico questo per definire da subito il punto di vista particolare attraverso cui ho letto questo libro. E quindi non posso far altro che parlarne sulla scorta dell’esperienza, degli incontri e delle conoscenze maturate attraverso pratiche sociali ed educative portate avanti con adulti stranieri.
In questo percorso che è stato soprattutto fatto di incontri e scoperte attraverso persone provenienti da tutto il mondo, un certo mondo, quello delle dittature, delle guerre e delle carestie, delle vittime, ci sono stati tanti compagni di strada con cui si è cercato di abbozzare un discorso pubblico a partire, con e intorno a queste persone, ai rifugiati. Ecco perché “Critica della vittima” ha risuonato in me anche con dolore, quello che provi davanti a certe verità che hanno provocato negli anni poi una certa disillusione. Più o meno tutti siamo infatti caduti nell’ideologia vittimaria, in quel brodo culturale che scansava il difficile nascondendo le proprie mancanze con la figura rassicurante, inattaccabile e passiva della vittima. Infatti la vittima come costruzione identitaria del gruppo che agisce e dei suoi utenti diventa un agente normalizzatore, uno schema facile di interpretazione del mondo e delle persone e senz’altro non permette di riconoscere che molto spesso quello che si fa si fonda su una comprensione assolutamente parziale delle realtà sociali e umane con cui interagiamo. Leggere con onestà questo libro mi ha costretto a riflettere sulla natura intrinseca, sulle motivazioni sostanziali, su quello che c’è dentro e dietro le persone, e quindi le azioni di gruppi e associazioni che portano avanti pratiche sociali con le vittime, che ne diventano gli specialisti e quindi misura. Vittima è la parola chiave, la parola scandalo, l’inciampo, la parola ameba, troppo spesso la parola facile che scansa il difficile. La parola dietro la quale tutti ci si rifugia, rifugiati compresi, per ripararsi essendo senza casa noi e loro, in crisi e quindi costruendo un mondo fatto di una crisi dentro un’altra crisi. Casa è l’altra parola. Sì perché i rifugiati prima di tutto sono senza casa, quella home di cui tanto bene ci ha spiegato Colin Ward, non nel senso di abitazione (house) ma nel senso affettivo di portare dentro di sé quel fascio di sentimenti che ti fanno sentire di appartenere. Non basta avere una casa ma poi bisogna renderla home. Ma anche noi, giovani educatori, operatori, viaggiatori più o meno voyeuristici, guardoni della camera della morte per spiare l’intimità violentata degli altri bevendo un cocktail ghiacciato, eravamo e siamo senza casa. E ora sempre di più senza casa, senza paese, senza popolo, senza cultura, senza formazione, senza lavoro, senza orizzonti. Quindi il meccanismo era che dei senza casa e abitazione come i rifugiati trovavano casa (affettiva) stando vicino a persone pure senza casa che cercavano in loro una casa, cioè un’identità individuale, di gruppo, di associazione e poi di progetti, di stipendio, di organizzazione, di comunicazione, di produzione culturale. I rifugiati come rifugio, per noi. Ma non c’è da stupirsene né da scandalizzarsene perché il miele di cui queste persone erano e sono portatori è tra i più dolci che si possono trovare, è il miele sano che può guarire dall’alienazione, dalla frammentazione, dall’atomizzazione, e ricostruisce casa, focolare, festa, villaggio, comunità, riti di passaggio, orizzonti di conflitti politici, di lotta per il cambiamento e la giustizia. Offre oltre al calore umano anche un imperativo morale ed etico, dà senso alla propria esistenza. Dopo anni insensati di scuola frustrante, di inutili studi universitari e master specialistici ti può sembrare di essere finalmente catapultato, grazie a loro, in un mondo corporeo, materico, nella vita. Tutti questi passaggi elencati non sono simbolici ma effettivi, concreti. Non a caso a distanza di tempo ci è venuto da dire: “in fondo la nostra umanità vestita da assistenti è stata assistita dagli assistiti”. In tutto questo, fatto anche di egoismo, potere e sicuramente narcisismo, non vedo ancora il male, ma una debolezza, una fragilità nostra sì, molto confusiva, forse molto adolescenziale, di chi stenta a crescere e trovare i modi e le strade, i compagni. Ma ancora niente del male come poi si è nel tempo sempre più affermato e ha normalizzato, burocratizzato, questo magma di bisogno di crescita psichica e culturale che non trovava altri luoghi e altri referenti, in relazioni di potere, in assistenza spersonalizzante, in agency senza potenza né conflitto. La mitologia della vittima è stata il salto di qualità in negativo. Però anche in questo quegli operatori senza casa e in cerca di identità non hanno tutte le colpe. Gli uni e gli altri, ovvero gli operatori e gli assistiti ci sono stati costretti dalla sordità e cecità, dalla tenaglia stritolatrice di come i discorsi sull’immigrazione prendevano corpo nell’opinione pubblica, nella politica, nel giornalismo di massa, nell’indifferenza di tutte le istituzioni più neutrali come per esempio la scuola, le università che non si sono mai fatte sponda e rilancio di certe urgenze sociali al di fuori delle loro rivendicazioni specifiche. Nelle pratiche dell’intervento sociale il risultato però è stato il peggio che ci si poteva aspettare: scomparsa di un progetto, trasformazione dell’azione sociale in mera organizzazione utilitaristica dettata dal senso di emergenza, scomparsa di un orizzonte temporale pubblico entro cui muoversi, scomparsa della volontà e della decisione di essere agenti in uno spazio pubblico, programmazione di un’assistenza passivizzante delle vittime, partecipazione al declino del discorso pubblico su importanti temi sociali. Questo in particolare dovuto all’incapacità di formulare rivendicazioni declinate in modo diverso rispetto a quelle che veicolano i gruppi di interessi specifici riferendosi in particolare alle loro vittime. “Questo fenomeno, scriveva Lash, rimanda in particolare all’esaltazione morale della figura della vittima e al crescente ricorso alla vittimizzazione come unico criterio di giustizia in grado di ottenere un riconsocimento”. Sarebbe stato diverso se invece che con le vittime si solidarizzasse con gli sfruttati, gli esclusi, gli oppressi, dice Giglioli, perché con loro potremmo avere qualcosa di più in comune che parlare al loro posto lasciandoli comunque disarmati.
La scelta, come unica strada percorribile, di affermare quelle voci interrate attraverso una rivendicazione identitaria di vittime e null’altro, ha dato spazio in modi più o meno indiretti a forme di controllo totalitario, come quelle che vengono imposte oggi tramite l’accoglienza spersonalizzante e le procedure legali per il rilascio dei documenti, dall’asilo politico, al permesso di soggiorno per motivi di lavoro, alla cittadinanza.
Leggendo il libro di Giglioli mi sono ricordato esattamente quando, nella mia esperienza, è avvenuto questo passaggio. Dieci anni fa, nel 2004, a Roma sotto la giunta Veltroni, un cospicuo gruppo di rifugiati provenienti dal Darfur, insieme a operatori, militanti dei centri sociali ecc. ecc., furono convocati in Campidoglio dal gabinetto del Sindaco. Motivo di questo incontro, pienamente dentro la logica Veltroniana, era quello di far finta di ascoltare (televisivamente) la voce degli oppressi per procedere poi con più morbidezza al loro annientamento, fasi di lubrificazione del conflitto. L’oggetto del contendere erano i magazzini occupati da centinaia di loro, sudanesi, eritrei ed etiopi alla stazione Tiburtina, quella del futuro milionario A.D. di Trenitalia Moretti e della cultura dei treni ad alta velocità. Questa umanità sconosciuta infatti impediva la realizzazione della più grande stazione d’Europa per cui bisogna sgomberare. Ma era Veltroni il sindaco e la cosa doveva indossare una certa maschera solidaristica e non poliziesca. Fummo noi però, da questa parte del tavolo a offrire loro le mani di Pilato e la loro furbizia politica non si fece scappare l’occasione. Durante l’incontro non si parlò in nessun modo di un interesse comune, di un progetto, di cambiamento, dell’accoglienza in un orizzonte pubblico e politico. Non si disse che i magazzini erano occupati proprio perché centinaia di persone avevano scelto quella fatiscenza senza bagni, acqua e riscaldamento, ricreando però, in tutto e per tutto, un villaggio di commercio, ristoranti, stanze come case e quindi tante home, una vicino all’altra, un interno, una privacy, in polemica proprio contro il sistema di accoglienza che da persone nel pieno delle proprie forze creative e produttive li trasformava in inermi assistiti-vittime. Forse la sordità, il cinismo di quegli interlocutori burocrati, quei loro vestiti, quelle facce grasse e algide spinsero noi e soprattutto i rifugiati non a fare una battaglia politica su qualcosa che ci riguardava tutti così da vicino come l’accoglienza, ma si promossero e si presentarono come vittime in una sequenza di lamentele senza fine in cui Roma non c’entrava e non poteva niente. Furono loro, i rifugiati a scegliere il gruppo di contatto e fecero venire apposta per l’occasione reduci di guerra senza una gamba, vittime di tortura con segni evidenti su tutto il corpo sfuggiti dalle carceri eritree. Uno di loro che diceva di essere un oppositore politico al regime di Isaias Afewerki arrivò dall’Olanda e sfruttò l’incontro per attaccare il regime eritreo mentre mostrava ai membri del gabinetto del sindaco le cicatrici tra cui una sul capo in cui affermava fosse stato inserito un micro-cip per controllarlo (alcuni dicevano però che in realtà era una spia e la cicatrice era dovuta a un’operazione per un tumore al cervello). E noi a dar manforte gridando e io con gli altri: “sono vittime, vittime di tortura, sono rifugiati, bisogna assisterli, dovete ascoltarli”. E loro li ascoltavano sul piatto d’argento dell’ideologia vittimaria assumendo in pieno la possibilità che gli avevamo offerto di una totale deresponsabilizzazione di fronte a quanto vedevano e ascoltavano. E infatti da vittime inermi li trattarono trasportandoli con i pullman in centri di accoglienza assistiti al minimo delle possibilità ma da vittime, quindi da esseri inermi, come pazienti in ospedale. In fondo il risultato finale fu quello ordinario ovvero di sottometterli al controllo dello stato mediato da organizzazioni più neutrali che però agivano direttamente deformandoli su alcuni fatti sostanziali della vita di una persona a partire dal controllo e dalla passivizzazione della loro autonomia. L’esistenza dei magazzini stava lì a dimostrare quanto fosse immotivato il ricorso a una gestione e un controllo sociale in modo utilitaristico ed emergenziale. Questo fu però possibile non solo grazie alla mano del potere diretto dello Stato ma di organizzazioni più neutrali in cui viene celata la violenza politica esercitata attraverso di loro. Tutto il contrario di quello che si voleva fare a partire da quello straordinario esempio di autorganizzazione che erano stati i magazzini di Tiburtina, un attività immensamente creativa nel senso di Chomsky quando dice che la creatività è un’attività umana ordinaria, senza un’aura particolare. Il risultato di questa sconfitta fu poi, sempre grazie alla giunta Veltroni, la creazione del grande abisso dell’assistenza romana che furono gli hangar di Castel nuovo di porto gestito dalla croce rossa e dall’esercito in guanti di lattice a 40 km da Roma sull’autostrada Roma Firenze. E poi a seguire negli anni fino alla realtà di quelle agenzie del welfare privato che hanno scandalizzato l’opinione pubblica per i fatti del centro di Lampedusa, in realtà normale amministrazione da molti anni. Quello che abbiamo visto ripreso di nascosto dal telefonino di uno degli “ospiti” è figlio di quella gestione emergenziale dell’accoglienza, è un fatto estremo ma ordinario allo stesso tempo e frutto di una precisa cultura. La stessa cultura che di certe realtà umane e contesti sociali fa il nutrimento del proprio marketing per la ricerca di fondi con al centro del messaggio pubblicitario la creazione, protezione e salvezza delle vittime. I magazzini come ambito appetitoso per la promozione e giustificazione della propria esistenza di salvatori venne infatti scoperto anche da Medici senza frontiere. E così lo scivolone nell’ideologia vittimaria si compì definitivamente. Tre furono gli approcci a quella realtà che contribuirono a edificare questa mitologia. Le vittime dovevano essere registrate e visitate. Una mattina, vestiti in modo riconoscibile con il logo ben in mostra, con un’organizzazione militaresca, fecero una vera e propria irruzione con tanto di telecamera dentro i magazzini, radunarono le persone e le misero in fila indiana per lo screening sanitario. E loro i rifugiati avendo ormai assunto in tutto e per tutto il ruolo di vittime, obbedienti e silenziosi parteciparono al rito. Solo qualcuno con qualche postumo di sbronza o ubriaco di prima mattina urlava e protestava per questa intrusione. I leader, nominati qui in Italia come rappresentanti della comunità dai dirigenti dei movimenti di liberazione nel paese d’origine, facevano da mediatori, come navigati politici che alla perdita di dignità dei loro fratelli anteponevano una certa ragione di stato. E così furono schedati e diagnosticati, assistenzializzati. Ora gli infanti senza parola avevano qualcuno che parlava in loro nome, mentre loro, le vittime, potevamo continuare a marcire lì dove erano senza poter o dover far nulla. Medici senza frontiere poi mandò nei magazzini un tecnico che si occupava di logistica, un giovane francese che aveva lavorato nei grandi campi di emergenza umanitaria in cui l’organizzazione era presente e il suo compito era quello di dare una logica organizzativa agli enormi magazzini con standard sanitari e di vivibilità più accettabili, dentro certe norme. Si aggirava per i locali nell’indifferenza di tutti tranne di quei mediatori individuati e pagati dall’organizzazione che poi avevano potuto godere di qualche privilegio tra cui la sera essere invitati in qualche cena nelle belle case della Roma bene dove vivevano gli operatori umanitari e magari togliersi anche qualche soddisfazione in più. Così andavano le cose. Ma i magazzini erano perfettamente funzionanti, avevano bar, ristoranti, lavanderie, il barbiere, stanze perfettamente ammobiliate, generatori, qualcuno addirittura l’acqua corrente in camera, un biliardino il cui proprietario era il più ricco di tutti. E c’era anche Saleh un eritreo che si era inventato un servizio ristorante del tutto particolare. Molti degli ospiti dei magazzini lavoravano di giorno alle bancarelle in giro per Roma. La sera Saleh prendeva le ordinazioni e dalla mattina presto preparava loro il pranzo con un menù diverso giorno per giorno. Verso le 11 usciva dal magazzino con i contenitori pieni e li portava di persona ai suoi clienti. Altro che vittima inerme, Saleh era stato capace di sviluppare un’economia di sussistenza in una fase particolarissima della sua vita: il momento dell’arrivo. Nessun progetto di assistenza avrebbe saputo meglio di lui affrontare quel momento particolare, il bisogno d lavorare, di essere attivo su stesso, di guadagnare e di essere uno snodo sociale, avere relazioni sociali vere. Infatti aveva reso le circostanze favorevoli e non solo per sé ma per molti altri. Nessuna organizzazione umanitaria ha la cultura per riconoscere in questa capacità imprenditoriale uno slancio di vita per quello che è e valorizzarlo, ma solo annientarlo riportando Saleh dentro la logica vittimaria. La terza cosa e così il cerchio si chiuse, fu l’uso della comunicazione per denunciare lo scandalo dei magazzini nella Roma veltroniana. Quelli che sempre erano stati i magazzini di Tiburtina diventarono in un articolo comparso sul settimanale di repubblica “Hotel Africa” e sotto il titolo campeggiava la foto di un africano che trasportava immerso nell’immondizia un carrello con delle taniche dell’acqua. Questa era la denuncia che voleva svelare dentro Roma quello scandalo d’umanità e giustificare il loro impegno di Medici senza frontiere che avevano pagato la pagina e l’articolo. Davanti a ciò però ci fu l’indignazione generale di tutti gli occupanti, anche dei leader imposti dai paesi di origine, qualcuno si indignò per l’uso della parola Africa vicino all’immagine dell’immondizia, qualcuno per la parola Hotel non cogliendo la sottile ironia, qualcuno, la maggior parte, preoccupato che l’immagine venisse vista dalle loro famiglie e li incorniciasse in una emigrazione fallita. Nessuno o forse molti ma non mi capitò di percepirlo, capì quanto quel titolo, quell’articolo e quell’immagine li stigmatizzasse dentro un ghetto, cristallizzando la loro umanità tutta dentro dei canoni utili a far soldi e pubblicità a qualcun altro. I magazzini non erano il paradiso ma un punto di partenza pieno zeppo di risorse umane e creative il cui esempio avrebbe potuto rivoluzionare l’idea e il sistema di accoglienza per come veniva gestito in città e quindi in Italia, se solo loro non fossero diventati delle inermi vittime e avessimo trovato il nostro interesse comune, la nostra azione politica comune. L’ideologia vittimaria vinse dentro e fuori i magazzini e quello che a me rimane di quell’esperienza è la scoperta e quindi la fiducia che dentro a grandissime contraddizioni l’uomo sa operare autonomamente e trovare le proprie strade dai tratti istintivamente solidaristici di umana vicinanza. In quelle condizioni e più che in un centro di accoglienza sopravviveva un qualche anelito di giustizia, di dignità, di amore e di generosità e armonia che quella realtà mi ha fatto conoscere come reali. Così come ho potuto sperimentare come possono essere cancellati dal controllo dello Stato mediato da istituzioni solo apparentemente più neutrali ma portatrici di un ideologia vittimaria.
Anni prima di scoprire i magazzini di Tiburtina mi imbattei in uno scritto che non centrava nulla con il mondo dei rifugiati e che invece mi offrì una chiave di lettura che ora ritrovo anche in “Critica della vittima”. E furono gli scritti sul teatro di Nicola Chiaromonte. Parlando del dramma e di Ibsen, scriveva:
“È diverso contemplare il destino di un uomo come dramma o come problema. Un dramma è un seguito necessario di azioni irreparabili, in quanto la vita dell’individuo è una, e unico ciò che gli accade; un problema invece è un affare impersonale suscettibile di soluzione appunto perché lo si può formulare in termini impersonali. Protagonista del dramma non è semplicemente l’individuo ma un certo stato delle cose, un certo ordine o disordine del mondo”1
Mi sembrò questo assunto una rivoluzione per un punto di vista possibile attraverso cui affrontare la sofferenza che incontravo. E soprattutto trovarci un punto di comunione: il destino, un certo stato delle cose, un certo ordine e disordine del mondo, che riguarda tutti, tutti sulla stessa barca e non più solo vittime e salvatori. Cambiare la prospettiva mi ha permesso di imparare tramite loro la vulnerabilità dell’esistenza e sempre da questa nuova prospettiva ho imparato che si impara a vivere dagli altri e dalla vita, non si impara da soli. E attraverso di loro ho potuto vedere qualcosa che riguarda tutti, un altro punto di comunione, quello di camminare su un bordo interno e su un bordo esterno, la vita e la morte. Bisognava fuggire dall’aspettativa del non ancora, di qualcuno di impersonale che arriva a risolvere i problemi, ma bisognava in questo destino comune provare a cambiare la propria vita, insieme.
Non bisogna pensare che in “Critica della vittima” si neghino le vittime e la sofferenza e l’ingiustizia. Le vittime esistono eccome. La maggior parte delle persone che ho conosciuto provenienti da diversi paesi hanno alle spalle una storia violenta di persecuzione, di guerra, di carcere, di soprusi, di familiari e amici uccisi o sterminati insieme a centinaia di altri come loro. Il punto però non è cosa è successo lì ma cosa diventa qui. Come noi lo trasformiamo e lo utilizziamo nel qui ed ora. “La trasformazione, scrive Giglioli, dell’immaginario della vittima in instrumentum regni e lo stigma di impotenza e irresponsabilità che esso include sui dominati”. Non ho mai conosciuto nessuno che nell’intimo desiderasse essere riconosciuto in quanto vittima. Se ci si pensa nessuno di noi lo vorrebbe, cioè vorrebbe essere letto solo sotto una certa lenta di ingrandimento ma vorrebbe essere conosciuto e accolto nel marasma di tutte le proprie tonalità di chiari e scuri, di contraddizioni, di incertezze. E allora perchè loro invece dovrebbero volere solo questo tipo di lente di ingrandimento? Non è questa una forma di potere e di imposizione e costrizione dall’esterno?
Noi abbiamo bisogno della vittima e la vittima finisce per avere bisogno di esserlo per costruirsi un’identità inattaccabile o comunque da cui avere profitto perché ci è costretto. Tutti quelli che non riescono a definirsi o essere definiti rifugiati sono la massa di reietti irriconoscibili da gettare in mare o in galera. Ecco che la retorica vittimaria crea l’immigrato di serie a e di serie b. E chi lavora con i rifugiati spesso è anche molto snob o totalmente indifferente agli immigrati economici che non emanano quell’aura vittimaria. Perché la vittima ha anche un potere estetizzante di cui la borghesia non riesce a far a meno quando vuole essere buona. In quanti libri, articoli, saggi abbiamo letto a firma di accademici, psichiatri, e operatori dell’intervento sociale, leader di organizzazioni e associazioni, in modo esaltante ed esaltato “questa è l’epoca della vittima, l’epoca del testimone, l’epoca del trauma” e via dicendo. E tutti dietro ad autoincensarsi e autoammantarsi di quella stessa aura come se la violenza subita da chi si assiste di per sé ci definisse eroi, i super buoni, i super giusti. Teatro e cinema, archivi storici, interventi sociali si sono ammantati di questo come se l’affermazione della violenza subita fungesse da elemento purificatore di tutte le contraddizioni e sgombrasse il campo da tutto il resto. E il resto è proprio la persona singola e la sua irriducibilità a un particolare stigma. L’essere vittima è come un fuoco che purifica e rende santi.
Un giorno sentii dire da un medico di un’associazione che lavorava per la cura dei rifugiati: “E’ notevole il numero di rifugiati che si dichiarano vittime di tortura da quando abbiamo cominciato a certificarla per le commissioni territoriali per il diritto di asilo”. In questa affermazione c’è una contraddizione feroce su cui mi sono interrogato spesso. Secondo il medico la certificazione portava alla luce un mondo nascosto e questo era il suo merito e soprattutto aveva il merito di poter scrivere sui report di aver curato centinaia di vittime di tortura e in funzione di questo chiedere finanziamenti. Per me invece, non volendo assolutamente negare l’esistenza tra i rifugiati di un alto numero di torturati, la certificazione diventava quella stortura per cui si diventava delle vittime anche quando non lo si era pur di avere una pezza d’appoggio durante l’audizione in commissione. Oppure lo si diventava di professione, la si incorporava come essenza assoluta di se stessi per poter sopravvivere in una reiterazione continua del passato e della violenza subita. Forse c’erano entrambe le cose, fatto sta che con la certificazione i numeri delle persone vittime di tortura si moltiplicarono fin tanto che quelle certificazioni non valsero più nulla in commissione perché considerate uno strumento messo appunto per mascherare richieste di asilo indebite. E così divennero controproducenti per gli assistiti. Ma la cosa peggiore era che poi le persone sempre alla ricerca di un beneficio, di una scappatoia di fronte un sistema che tendeva a rigettarli e li faceva veramente vittime dei documenti e dei limbi legali, incorporavano dentro di sé la figura della vittima fino all’autoconvincimento, fino a trasformare il proprio corpo e renderlo incapace di resilienza cioè di ritornare, lì dove violenza c’era stata, a una condizione originaria. I corpi e le psicologie oltre che le narrazioni autobiografiche si trasformavano in un ricettacolo di falsità e costruzione di nuove identità vittimarie. Un caro amico di cui non svelo né paese di provenienza né nome ha fatto per molto tempo il traduttore nelle commissioni per il riconoscimento dello status di rifugiato e amaramente sorride di fronte alla storie inventate dai richiedenti, come pure lui fu e fece, per rendersi credibili di persecuzione personale davanti alla commissione. Ma a parte questa mostruosa costruzione di falsità normalizzata e burocratizzata purché si venga riconosciuti, nel sistema vittimario ancora più grave è quanto questo poi venga introiettato nei corpi e nelle menti delle persone. Questa logica ci trasforma tutti. Sempre all’inizio della mia esperienza lavoravo in un centro di accoglienza a piazza Vittorio. In quegli anni, era il ’98 arrivavano soprattutto curdi dalla Turchia, dall’Irak e dall’Iran. Tra loro c’era una persona che poi è diventata un caro amico. Per anni, nonostante condividessimo gran parte del tempo e degli spazi sia pubblici che privati, non ho conosciuto la sua vera identità ma quella di vittima. Persino il suo vero nome mi fu svelato molti anni dopo. E dire che quando i tempi di permanenza al centro scaddero e lui si trovò per strada venne per un periodo a dormire a casa mia e avendo solo un letto matrimoniale lo condividevamo dormendo vestiti fuori dalle lenzuola e avvoltolati nelle coperte. Anche io mi ero trasformato e vivevo in casa mia nell’emergenza di un giaciglio per la notte. Eppure lui non aveva avuto ancora i documenti e anzi era stato rigettata la sua domanda di asilo per cui era cominciata una vera via crucis. L’unica soluzione era diventare una vittima di tortura e lo diventò a tutti gli effetti. Raccolsi la sua storia, che mi venne proposta come vera e io così la ascoltai per scrivere il ricorso. Lui affermava e bisognava certificarlo di essere stato rinchiuso in un carcere iracheno e come oppositore politico torturato facendolo sedere ripetutamente su un collo di bottiglia che gli entrava nell’ano. Quando vennero fatte le visite mediche per la certificazione il medico mi chiamò in disparte e mi disse: “non troviamo nessun segno obbiettivo di violenza, ma emorroidi sì”. Io continuai a credere alla storia del mio amico, i medici certificarono la tortura e lui ottenne dopo oltre due anni lo status di rifugiato. Questo fu necessario perché lui ormai non aveva più altro diritto che al soccorso e quindi doveva estremizzare la sua figura e metterla sul podio più alto delle vittime quello della vittima di tortura. La sua soggettività era scomparsa. Intanto seppure i medici sapevano benissimo che si trattava di emorroidi lo facevano girare l’Italia come vittima di tortura e gli facevano raccontare la sua esperienza. Più passava il tempo e più questo status si impadroniva di lui fino a diventare ciò che diceva e gli altri volevano sentire da lui. Era l’unico modo che gli si era presentato per avere una nuova identità riconosciuta, inattaccabile, persino socializzabile. La vergogna per aver fatto del proprio corpo una menzogna lo accompagnò per molti anni fin quando ebbe la forza di lasciare Roma e costruirsi altrove una vita vera lontano da quello stereotipo. Diventò però in un sistema di welfare più funzionante un assistito dei servizi sociali non più come vittima ma come semplice rifugiato e adesso cittadino italiano di origine straniera in disagio sociale. Ora a distanza di ben sedici anni sta piano piano riuscendo ad abbandonare quello status e costruire anche economicamente investendo e rischiando la propria vita e forse costruirsi la sua prima vera occasione di riscatto.
Vorrei però tornare alle prime frasi con cui esordisce il libro e che dentro di me hanno risuonato come una liberazione. “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica.”
Molti sono costretti ad assumere questa etichetta per spirito pratico trovando solo in essa le scappatoie per sopravvivere. Altri invece la incarnano consapevolmente e la fanno diventare mestiere. Diventano professionisti della propria storia e la ergono a mito procurandosi così autostima e stima, profitto, lavoro, ruoli, conquistano la parola che non verrà mai messa in discussione perché è la voce della vittima che ha preso vita nel suo stesso corpo. Tutto ciò viene sponsorizzato anche economicamente oltre che culturalmente e scientificamente in termini accademici da coloro che pure in crisi di identità trovano nella vittima il proprio faro e sapendo che chi sta con la vittima ha sempre ragione la foraggiano elevandola a mitologia offrendogli tutti quegli strumenti utili al suo mantenimento e crescita. Tutto ciò però va sotto un altro nome mistificatorio ovvero quello di dare la parola agli altri, farli diventare protagonisti della loro storia e memoria e testimonianza. Il risultato è che una sola persona viene portata a modello e testimone universalizzante dell’esperienza migratoria quasi come un divo concedendogli una sorta di status symbol. Ora tutto ciò che dirà e farà anche artisticamente quella persona sarà ingiudicabile e inattaccabile perché la cosa importante non è cosa fa e cosa dice ma chi è e lui è la vittima, la vittima del mare, la vittima del deserto, la vittima della dittatura, la vittima dell’accoglienza, la vittima del razzismo ecc. ecc.. Poco importa se i suoi connazionali che sono rimasti al paese invece lo considerano semplicemente uno che è fuggito e non ha voluto lottare per il proprio paese. Qui è l’eroe. E avere un eroe in casa vuol dire poter mettere in piedi un apparato sopratutto comunicativo, di immagine e di visibilità attraverso cui autosponsorizzarsi, fare carriera, avere un ruolo culturale e sociale che altrimenti non si sarebbe capaci di costruirsi tutto in nome e grazie a lui alla vittima e al fatto che si sta con la vittima. Costruendo l’identità della vittima costruiamo quella di noi stessi. E così teatro e cinema, università, fondazioni, associazioni danno largo sfogo alla loro creatività attraverso autori che trovano nello strumento vittimario un surrogato alla loro mancanza artistica ricattando il pubblico nel loro bisogno di consolazione e compassione. Questo spiega perché tanto pubblico è disposto a partecipate con pietà alla storia della vittima e quanti pochi sono disposti a immaginare una ratio una prassi una politica, un azione comune. Ma seduti sulle poltroncine degli eventi pubblicitari in cui la star è la vittima sono molte le persone disposte a farsi insultare e ricattare. Perché fino a quando qualcuno ci offre la possibilità di provare compassione ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza. La compassione ci proclama innocenti oltre che impotenti. E anche se la fiction realistica che ci presentano ci offre degli elementi di ricatto per cui ci viene spiegato come per esempio i nostri privilegi producono certe sofferenze e che quindi seppur nella commozione siamo anche colpevoli, a quanto pare questa parte più critica viene immediatamente rimossa e non produce altro che indignazione magari anche verso se stessi. Il che è un paradosso ma la conseguenza di provare un misto di vergogna di sé e compassione per l’altro è sempre e soltanto l’immobilismo, la passività.
Non è più che cosa ho fatto, che cosa faccio, che cosa posso fare ma chi sono, questo è il passaggio che si fa con l’affermazione della vittima come valore.
Tra i tanti addebiti che Giglioli fa della prosopopea della vittima una in particolare è forse la proposta, il che fare di questo testo, e la più utile per chi vuole immaginare delle pratiche. Ovvero quando dice che questa prosopopea estetizzante di cui ci si ammanta narcisisticamente ripetendo all’infinito la domanda chi sono in tutte le forme possibili e immaginabili alla fine “impedisce di cogliere la vera mancanza del proprio agire” e che ci deve essere un difetto di prassi di politica, di azione comune. “La storia la dovrebbero continuare a fare gli uomini e le donne e non agenzie impersonali e inimputabili in giudizio”. Ritrovare dentro di noi il diritto del fare e non semplicemente dell’essere attraverso ciò che si è subito e si subisce.
Semplicemente fare questo passaggio dal chi siamo al cosa facciamo.
“Chi
è ridotto a potersi chiedere solo chi è e non cosa può fare di sé
e delle sue relazioni con gli altri, è una vittima per definizione.”
E questo è il grande ruolo, fardello e colpa di una miriade di
pratiche sociali che hanno ridotto i contesti di appartenenza e
comunione con queste persone a dei grandi setting dove tutti si
chiedono incessantemente chi sono e non che cosa possono fare. “Non
tu, noi insieme dobbiamo cambiare la nostra vita, ma tu devi trovare
te stesso. L’auto vittimizzazione diventa simbolo di una mancanza e
suo riempitivo surrogato antidoto di un difetto di prassi e di
azione. Piuttosto che con le vittime se si solidarizzasse con gli
oppressi gli sfruttati gli esclusi potremmo avere interessi comuni.”
Non si può rispondere a un certo ordine e disordine del mondo, a questo stato delle cose solo offrendo un metodo di sopravvivenza. Questo tipo di educazione perpetrata a partire dall’ideologia vittimaria rende le persone indolenti, impotenti, narcisistiche e apolitiche, non le mette in grado di governarsi ma chiedono di essere gestite. Inoltre questo tipo di educazione finalizzata alla sopravvivenza implica che ci si salvi da soli. E nella sopravvivenza prima o poi si è “contro gli altri”. E’ necessario lottare per la sopravvivenza dei corpi ma sapendo che questo non basta: “si può sopravvivere senza essere in grado di vivere la propria vita.”
Dobbiamo sapere che impariamo la vita dalla vita e dagli altri e che dipendiamo dagli altri per vivere una buona vita. E questa comunione si fonda sulla consapevolezza di una comune precarietà. Questa precarietà e nuovo patto e allenza “non è altro che il terreno condiviso della possibile uguaglianza e dell’obbligo reciproco a produrre insieme le condizioni di una vita vivibile” (Judit Butler) per cambiare le nostre vite.
Per ora ciò che resta dominante è quello che racconta Kurt Vonnegut:
“Riflettete: eravamo al centro della vita di coloro che si occupavano di noi. Che potevano dar prova di cristiano eroismo, ai loro occhi solo se io ed Eliza fossimo rimasti degli esseri spregevoli e indifesi. Se fossimo invece diventati giudiziosi e sicuri di noi, loro sarebbero stati solo i nostri grigi e mediocri assistenti. Se noi ci fossimo mostrati capaci di percorrere le strade del mondo, loro avrebbero potuto perdere i loro appartamenti, la televisione a colori, l’illusione di essere una specie di medico e infermiera, e quegli impieghi così ben remunerati.
Così, fin dall’inizio, e senza sapere quello che facevano, mille volte al giorno ci scongiuravano di continuare ad essere spregevoli e indifesi.
Desideravano solo che noi si facesse un piccolo progresso sulla scala delle conquiste umane. Speravano con tutto il cuore che imparassimo ad andare al gabinetto.” (Kurt Vonnegut)
1 Nicola Chiaromonte, Scritti sul teatro, Torino, Einaudi, 1976, p. 107