Ventimiglia frontiera mediterranea

Ventimiglia si affaccia sul Mediterraneo. Il mare lo vediamo spesso qui, eppure la sua presenza non ci è mai parsa centrale. Era un racconto di viaggio, spesso drammatico, o un paesaggio mozzafiato in un contesto pieno di ingiustizie e contraddizioni. Negli ultimi mesi però qualcosa è cambiato in questa percezione. Se il naufragio di Cutro, ennesima strage di una guerra che prosegue da anni, ha innescato un ulteriore inasprimento delle politiche migratorie che ha toccato anche Ventimiglia, la morte di due persone, ritrovate in spiaggia nel mese di giugno, a quindici giorni di distanza l’una dall’altra, ci parla degli effetti di queste politiche di morte, criminalizzazione e invisibilizzazione in questo territorio.
La frontiera italo-francese è chiusa da ormai più di otto anni, ma questo non ha comunque impedito che le persone continuassero a passare. Ciò che è cambiato in questi anni sono i livelli di violenza che le persone in viaggio sono costrette a subire. L’insieme dei controlli infatti non è mai stato pensato per impedire definitivamente il passaggio, quanto come un deterrente, un filtro ed una valvola che lo stato francese ha usato per gestire il fenomeno secondo i suoi interessi contingenti. L’Europa mostra il suo vero volto tanto alle frontiere esterne quanto alle frontiere interne dell’Unione.
Le persone non-bianche e senza documenti che hanno raggiunto Ventimiglia in questi anni con l’intenzione di passare il confine hanno trovato ad aspettarle un insieme di controlli che evolve in maniera non lineare, con momenti di forte militarizzazione che si alternano a parziali smilitarizzazioni, da osservare e capire nella loro dinamica euromediterranea. Ventimiglia infatti riflette e condensa dinamiche complesse, e geograficamente dislocate altrove, che ad una prima osservazione non appaiono sempre evidenti.
Ciò che viene definito “regime di frontiera” è una realtà estremamente concreta fatta di controlli razziali e militarizzazione del territorio. Per le persone in migrazione, che queste provengano dalla rotta del Mediterraneo centrale o dalla rotta balcanica, Ventimiglia è stata per molto tempo il punto di passaggio scontato verso alcune delle mete più ambite del nord Europa: Francia e Inghilterra, ma non solo. Chi viaggia in un continente che non conosce tende a scegliere le soluzioni di viaggio più facili ed economiche, per l’Europa tendenzialmente il treno. Ecco, le stazioni di Ventimiglia e Menton Garavan, rispettivamente l’ultima stazione italiana e la prima stazione francese, sono luoghi dove è visibile ed evidente il razzismo strutturale della frontiera.
Qui i controlli sono permanenti e sistematici dal 2015, e la loro natura razziale è impossibile da negare e ci mostra come i regimi di apartheid non siano un’immagine sfocata del passato, ma un presente distopico. Qui ogni giorno le persone non-bianche, non-europee, senza i giusti documenti-lasciapassare, siano esse uomini, donne o bambini, vengono fermate, controllate e fatte scendere dal treno. Quando i media riportano le fredde cifre del numero di respingimenti alla frontiera tra Italia e Francia ciò che viene riportato è un controllo razziale.
Una volta fatte scendere dal treno sul lato francese le persone vengono trasferite presso gli uffici della Police aux Frontières, al valico di Ponte San Luigi, dove avvengono le pratiche di respingimento in collaborazione con la Polizia di Frontiera di Ventimiglia, secondo gli accordi di cooperazione transfrontaliera. Per le persone respinte questo significa la detenzione in container dove, a seconda del momento del giorno e dello status delle persone fermate, si possono passare svariate ore, in alcuni casi la nottata, e fino a 24/48 ore.
Controlli razziali dello stesso tipo avvengono anche in val Roya e in val Bevera. Chi non riesce a passare al primo tentativo comincia a passare in rassegna le altre possibilità di attraversamento: altri treni, i sentieri possibili ecc. Queste valli, storiche vie di comunicazione tra il Piemonte e la costa, sono state via via militarizzate, prendendo a pretesto gli attentati di Parigi del novembre 2015 e di Nizza del luglio 2016. E così a Castellar, paesino appena sopra Menton, la presenza dell’esercito è diventata normale, con i mezzi dell’operazione anti-terrorista Vigipirate a far bella mostra di sé nei parcheggi del paese e militari armati a pattugliare i sentieri che arrivano dall’Italia. A Sospel sta venendo ultimata la costruzione della nuova caserma della gendarmerie accanto alla stazione dei treni, e negli anni anche qui non è mancata la presenza di militari di diversi corpi, compresa la Legione straniera. A completare questo quadro recentemente è stata ufficializzata da parte delle autorità francesi la presenza di ben cinque droni tra Menton e Breil, ciascuno con un settore preciso da pattugliare.
Sarebbe però sbagliato dare un’immagine di questo dispiegamento di forze come qualcosa di inaggirabile. Sebbene si noti un progressivo “affinarsi” del dispositivo messo in campo, il numero di effettivi e la loro efficacia repressiva subisce diverse variazioni a seconda della dimensione dei flussi, delle rotte percorse nonché del momento politico.
Politica alla frontiera
Il rafforzarsi e l’allentarsi dei controlli ci mostrano le connessioni esistenti tra le frontiere interne, quelle esterne e lo spazio euromediterraneo nel suo funzionamento concreto. La prima “variabile” sono i cosiddetti flussi e le rotte delle persone in migrazione, cioè quante persone entrano nello spazio europeo con l’Italia come primo approdo, e cosa scelgono poi di fare in base alle differenti opzioni.
Lo sbarco di più di 90.000 persone da gennaio a oggi dovrebbe essere un’informazione sufficiente a mettere in ridicolo un governo salito al potere al grido di “zero sbarchi”, e indicare a tutti chi è la prima forza sociale e politica con la quale confrontarsi quando si parla di migrazioni: i/le migranti stessi/e ed il loro movimento autonomo. Se infatti il numero dei naufragi e le condizioni di vita delle persone in migrazione ci restituiscono un quadro drammatico della situazione, non possiamo non notare come non sono bastati all’Italia ed alla fortezza Europa gli accordi con la Libia a chiudere la rotta del Mediterraneo centrale. Le persone in viaggio hanno cominciato a passare dalla Tunisia, che è diventato il primo paese da cui partono i/le migranti che sbarcano sulle coste italiane.
Anche nei prossimi mesi saranno soprattutto le persone in migrazione ed il loro movimento collettivo a determinare cosa succederà a Ventimiglia. Il tempo dell’organizzazione collettiva in frontiera è fatto di accelerazioni, spontaneità e si dà sul posto, ma di sicuro da questo tempo dipende la possibilità di strappare pezzi di libertà contro la geografia del controllo, innestando legami di solidarietà e cura.
Altro fattore importante per capire le dinamiche migratorie è l’andamento delle relazioni tra i due paesi confinanti all’interno del quadro europeo. Se con il nuovo accordo sulle migrazioni sembra si stia infine trovando una sintesi tra neoliberisti ed estrema destra, le contraddizioni maggiori restano tutte sul piatto.
La questione centrale, dopo quella degli sbarchi, è quella dei movimenti secondari. Il principio del primo paese di ingresso rimane e la politica dei ricollocamenti, che non ha mai funzionato, sembra messa in avanti per dimostrare una qualche sorta di intesa piuttosto che per trovare soluzioni percorribili.
I soli punti di accordo sono le politiche di esternalizzazione delle frontiere e la detenzione e deportazione delle persone senza documenti verso i cosiddetti paesi terzi. Se il quadro europeo è questo non stupisce che tra Francia e Italia si siano aperte piccole crisi sulla questione del transito, con conseguenze reali nella vita dei territori di frontiera e delle persone che li attraversano. Per citare due episodi recenti abbiamo il caso della nave Ocean Viking, fatta sbarcare a Tolone l’11 novembre 2022 dal governo francese dopo che l’Italia le aveva per diversi giorni rifiutato il permesso di attraccare, che ha determinato un rafforzamento dei controlli alla frontiera italo-francese, e la crisi scaturita a inizio maggio dalle dichiarazioni del ministro dell’interno francese Darmanin sulla premier italiana Meloni, giudicata incapace di gestire la questione migratoria.
L’estrema destra francese ha colto l’occasione per alzare un polverone, e la risposta della prima ministra francese Elisabeth Borne non si è fatta attendere. Centocinquanta agenti in più e l’annuncio della costituzione di una nuova Border Force. Il ministro degli esteri Tajani ha subito rilanciato annullando un viaggio a Parigi previsto da tempo. L’Italia nel frattempo aveva già iniziato a rifiutare i rimpatri dei cosiddetti “dublinati”, cosa sicuramente non gradita al governo francese, determinando una di quelle situazioni paradossali in cui i razzisti italiani fanno gli interessi delle persone senza documenti, obbligando la Francia ad accettare la loro domanda d’asilo. L’incontro tra Tajani e Catherine Colonna, ministra degli esteri francese, ha sancito la distensione delle relazioni a partire dal comune interesse a occuparsi della “questione tunisina”. Dopo questo incontro, senza che nulla di ufficiale sia stato comunicato sui controlli alla frontiera italo-francese, questi ultimi si sono drasticamente ridotti e la presenza delle forze di polizia francesi in frontiera si è rarefatta.
I dibattiti, i conflitti sociali e le linee di tensione della società francese hanno spesso un impatto diretto su quanto accade in frontiera. Abbiamo già accennato agli attentati terroristici del 2015 e del 2016, che hanno determinato un brusco rafforzamento dei controlli e l’attivazione del piano di sicurezza Vigipirate. Inversamente, le ondate di scioperi e mobilitazioni (Gilets Jaunes, Loi Travail, Loi Retraite), così come le rivolte urbane scoppiate dopo l’omicidio di Nahel (diciassettenne della banlieu di Nanterre) da parte della polizia, hanno sempre prodotto una drastica diminuzione dei controlli in frontiera. In tutti questi casi il grosso degli effettivi viene richiamato nelle città per la gestione dell’ordine pubblico, permettendo un transito più facile per le persone bloccate a Ventimiglia.
Una volta colti alcuni aspetti generali sull’andamento dei controlli vale la pena ribadire come questi siano comunque andati progressivamente crescendo in questi ultimi otto anni incidendo profondamente sul territorio di Ventimiglia.
Nel corso di questi anni le condizioni di vita delle persone in migrazione si sono progressivamente degradate. L’assenza di qualunque forma di accoglienza istituzionale (il Campo Roya, la struttura di accoglienza gestita dalla Croce Rossa, è stato chiuso durante la pandemia), dopo la repressione dei campi autogestiti del 2015/2016, ha portato alla creazione di insediamenti informali dove le condizioni di vita si son fatte via via più precarie, con seri problemi per la salute delle persone e condizioni di marginalità, violenza e sofferenza difficili da accettare. La maggior difficoltà ad attraversare il confine ha portato le persone a scegliere percorsi sempre più pericolosi. Negli anni sono quindi aumentati tanto i ricoveri legati agli incidenti durante i tentativi di attraversamento, quanto le morti (almeno 44 dal 2015 ad oggi) direttamente o indirettamente imputabili alla violenza strutturale della frontiera.
È su questa situazione di estrema durezza e violenza che la linea Meloni-Piantedosi, scelta dal governo per reagire alle accuse di mancato soccorso a seguito del naufragio di Cutro, si è imposta a Ventimiglia. Nel giro di qualche settimana abbiamo visto il nuovo prefetto rilanciare la politica repressiva con un’attenzione particolare alla comunicazione e al coordinamento delle forze in campo. A fine marzo, un mese dopo la strage costata la vita ad almeno un centinaio di persone, viene annunciata un’ordinanza anti-degrado che prevedeva il divieto di «bivaccare o disporre giacigli» in via Tenda, nel centro cittadino, nei pressi della stazione ferroviaria e in tutte le zone all’interno dell’alveo del fiume Roja e lungo entrambi gli argini. L’ordinanza prevedeva inoltre la possibilità di emettere degli ordini di allontanamento (Daspo urbano) per chi non rispettava i divieti stabiliti dall’ordinanza, dando così uno strumento in più alle forze dell’ordine contro chi abita in strada e negli insediamenti informali (oltre alle deportazioni verso hotspot e i Centri di Permanenza per i Rimpatri – CPR già in uso negli ultimi anni).
Il 28 marzo è la cosiddetta Operazione Pantografo, portata a termine con la collaborazione tra le procure di Imperia e di Nizza e tra la polizia di frontiera di Ventimiglia e quella francese (Paf, la Police Aux Frontières) di Mentone. Elicottero in volo, cani anti-droga e decine di volanti sono stati mobilitati per arrestare 13 persone che, a dire dello stesso procuratore di Imperia Lari, non costituivano una vera e propria organizzazione (non viene contestata l’associazione a delinquere). Stiamo parlando di passeur “poveri”, senza una reale organizzazione e che applicavano prezzi per il passaggio, dai 30 ai 150 euro, al di sotto degli attuali prezzi di mercato (circa 200 euro per un passaggio con le organizzazioni più strutturate che agiscono a Ventimiglia con la copertura della ‘ndrangheta).
A un mese dalla strage di Cutro, insomma, il governo, tramite il suo rappresentante sul territorio, sceglie di applicare a Ventimiglia la stessa strategia decisa a livello nazionale: indicare un nemico immaginario al quale dare la caccia spostando l’attenzione dalle proprie responsabilità. Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, cioè aiuto al passaggio in cambio di denaro (smuggling), e tratta di esseri umani (trafficking), vengono volutamente confuse in un’unica categoria. I “trafficanti” diventano i responsabili delle morti di Cutro così come di quelli di Ventimiglia (il nome “pantografo” dell’operazione succitata fa riferimento a quella parte del treno dove diverse persone hanno trovato la morte per elettroshock nel tentativo di nascondersi per entrare in Francia), mentre i veri responsabili della violenza della frontiera e l’apparato repressivo messo in campo si legittimano come attori dell’ordine in un mondo in subbuglio.
Tra aprile e maggio le poche forze solidali presenti sul territorio cercano di riorganizzarsi per rispondere alle manovre del prefetto, che nel frattempo annuncia l’apertura di quattro Punti di Assistenza Diffusa (PAD) per ospitare donne e bambini. Il prefetto ottiene la collaborazione delle maggiori organizzazioni umanitarie, Caritas e Croce Rossa, e un silenzio imbarazzato delle altre ONG presenti sul territorio. Il 30 aprile viene indetta un’assemblea pubblica contro frontiere, razzismo e violenza istituzionale e da questa prenderà corpo la decisione di tornare a manifestare a Ventimiglia. Domenica 21 maggio, tra i due turni delle elezioni comunali della città di confine, si terrà la manifestazione in ricordo di Moussa Balde (morto nel maggio 2021 all’interno del Cpr di Torino dopo essere stato picchiato da tre italiani a Ventimiglia) che ribadirà come tutte le condizioni di violenza e razzismo strutturale che hanno portato alla sua morte sono tuttora presenti e attive. La settimana dopo il candidato della Lega Flavio di Muro viene eletto sindaco e la sua prima passerella sarà un regalo del prefetto Romeo: lo sgombero dell’insediamento informale sotto il cavalcavia di via Tenda, con tanto di ruspe.
Nel corso di quest’estate la situazione non è migliorata e la strategia di repressione e criminalizzazione è rimasta la strategia principe di fronte all’impossibilità di evitare che le persone continuino a muoversi nello spazio europeo e quindi anche abitare Ventimiglia per periodi variabili. Se la patina umanitaria dell’azione del prefetto, oggi sostenuto dal neo-eletto sindaco leghista, comincia a mostrare le prime crepe e la stessa Caritas è stata costretta ad ammettere di non condividere fino in fondo le scelte istituzionali, dall’altra sono continuate le retate interforze, i cosiddetti “pattuglioni”, e il comune ha deciso di spendere soldi pubblici per mettere reti “anti-degrado” e pagare una società di vigilanza privata per scacciare le persone dall’ultimo luogo in cui queste hanno cercato riparo e un punto d’acqua: il cimitero.
A Ventimiglia, come nel Mediterraneo e nel deserto libico, non si muore per caso, ma a causa delle politiche di morte che le istituzioni, nelle loro diverse articolazioni internazionali, nazionali e locali hanno scelto come reazione al movimento delle persone, ed è per questa ragione che per capire fino in fondo cosa accade a Ventimiglia non si può prescindere dal guardare cosa accade in questo momento in Tunisia. Gli stati europei, di fronte all’ingovernabilità del loro movimento, cercano in ogni modo strumenti per contenere e controllare le persone in migrazione, a costo di sacrificare in questo sforzo migliaia di vite umane. A dire che il problema sono i trafficanti oggi non è solo la Meloni, ma un’intera classe politica europea cinica e senza vergogna. L’accordo chiuso tra la commissione europea e il governo tunisino, fortemente voluto dall’Italia, segnala in questo senso il superamento di un’ulteriore soglia. L’ossessione di Tajani di questi ultimi mesi per la crisi tunisina, e il consenso che attorno a questo tema si è creato a livello europeo, rivela come sia strategico allontanare la crisi umanitaria dal cuore dell’Europa verso paesi terzi lautamente pagati per lasciar morire le persone lontano dalle nostre coste e dalle nostre città, come sta accadendo nel deserto al confine tra Tunisia e Libia.
La questione umanitaria è un sottoprodotto della chiusura prolungata delle frontiere e della loro militarizzazione, e per questa ragione diventa urgente ricominciare a ribadire la centralità della libertà di circolazione, attivare pratiche di cura e porre la necessità del disarmo. Strappare pezzi di libertà e supportare chi quotidianamente “buca” la frontiera rimane una pratica di solidarietà radicale che va oggi affiancata alla cura delle ferite, non solo fisiche, prodotte dalla violenza razzista. Dare supporto psicologico alle persone in transito, occuparsi dei morti di frontiera e delle loro famiglie, e tanti altri gesti di cura, sono oggi la premessa necessaria per qualunque possibilità di relazione politica tra solidali e persone senza documenti. È sempre più necessario aprire un dibattito su come possiamo, dal basso, promuovere azioni concrete che contribuiscano a disarmare l’imponente apparato repressivo che si è andato rinforzando in questi anni. Libertà, cura, disarmo sono alcune delle parole possibili per ripensare una strategia efficace in questo momento difficile in cui il rischio concreto è quello di sentirsi schiacciati dagli avvenimenti. Il movimento delle persone non accenna a fermarsi, la macchina repressiva insegue questo movimento, a noi europei/e solidali con le persone in viaggio il compito di sintonizzarci con questa situazione e rilanciare una lotta antirazzista che dismetta paura e sconforto per costruire libertà.