Vent’anni dopo: i movimenti prima dei social network
A venti anni dalle giornate di lotta contro il G8 di Genova è improvvisamente riapparsa online la Time Machine di Indymedia. Sono stati tra l’altro ripubblicati nell’ordine storico tutti i post delle giornate del luglio 2001, quelli sulla morte di Carlo Giuliani, gli scontri per strada e le torture alla Diaz e a Bolzaneto. Negli stessi giorni, è stato pubblicato da Alegre Millennium bug. Una storia corale di Indymedia Italia, una raccolta di testimonianze curata da Emanuela Del Frate, Sara Menafra, Peppe Noschese, Francesca Urijoe e Franco Vite. Genova fu una esplosione di immagini e di voci e Indymedia è stata il sistema nervoso, gli occhi e le orecchie di quel movimento nella sua espressione più indipendente e creativa.
Ricordo, perché ci ho passato lunghe giornate e notti, le stanze dove si costruiva materialmente il network digitale alternativo più conosciuto e diffuso in Italia: la fumosa “bat-caverna” nel casolare occupato del Cecco Rivolta a Firenze dove giravano i computer e gli hacker di Autistici/Inventati oppure il piano della palazzina del Teatro Polivalente Occupato di Bologna che ospitava Indymedia Italia, decine di metri quadri percorsi da cavi, disseminati di schermi, tastiere e server con mille lucine. Alla guida dell’astronave c’erano personaggi che hanno fatto la storia delle sperimentazioni su internet in Italia; le loro testimonianze nel libro sono riportate con pseudonimi; in maggioranza chi parla sono maschi, tipici profili “nerd” negli anni Duemila, mentre le voci femminili sono poche ma taglienti e originali.
L’approccio di Indymedia era racchiuso nello slogan “dont’hate the media, become the media”. La riflessione anticapitalista radicale promossa da Guy Debord nel 1967 vedeva nei media commerciali la fucina della falsificazione della verità e del controllo delle masse; il nascente movimento hacker che ha accompagnato la diffusione di internet a livello commerciale in tutto l’emisfero nord negli anni Novanta invece vedeva nella tecnologia uno strumento di liberazione o quantomeno un campo di battaglia. L’idea degli attivisti “cosmopoliti” di Indymedia fu quella di socializzare lo spirito hacker trasformandolo in un medium digitale di massa. Questo avvenne in due modi principali: da un lato, un sito web, collegato sia al network internazionale di Indymedia, sia, successivamente, a nodi locali, nel quale chiunque poteva pubblicare testi, immagini, video, restando nell’anonimato; dall’altro lato, allestendo dei media center in occasione di grandi e piccole manifestazioni, in modo da poter coordinare il flusso di informazioni in autonomia e in alternativa ai mezzi di comunicazione mainstream.
La storia di Indymedia ha visto in Italia il suo apogeo nella prima metà degli anni 2000, sulla spinta delle relazioni internazionali cresciute nel movimento contro la globalizzazione neoliberista, ed ha attraversato il movimento dei centri sociali con le sue differenze e contraddizioni. Nel periodo di massima attività, negli anni tra il 2001 e il 2006, facevano parte della rete operativa di Indymedia Italia 700 persone.
Secondo i protagonisti numerose caratteristiche tecniche e comunicative della rete indipendente hanno in seguito costituito degli elementi di innovazione sussunti e utilizzati dai social network privati nella seconda metà degli anni 2000. Racconta Manolo, uno dei videomaker più attivi e coraggiosi di quel periodo: “Ci eravamo costruiti da soli il nostro social media ideale: avevamo le chat, le mailing list, un sito dove si poteva pubblicare liberamente. Un antesignano dei social media fatto in casa, a manovella”. L’open publishing è stata una invenzione di Indymedia e altri progetti paralleli e convergenti come NGvision hanno tecnicamente anticipato Youtube o Twitter. Il fatto che queste innovazioni provenissero da un mondo genuinamente hacker ha impedito che diventassero di massa e che si trasformassero in modelli di business ma allo stesso tempo ne ha limitato l’impatto politico. A partire dal 2006 infatti il progetto Indymedia in Italia entra in crisi proprio in parallelo alla sua massima espansione territoriale, alla nascita dei primi social network proprietari come Facebook e alla espansione dei blog di WordPress e altre piattaforme. Oltre che, naturalmente, a causa della repressione giudiziaria e poliziesca. Questa violenza ha caratterizzato la storia di Indymedia in molti momenti. Era il 28 ottobre del 2006 quando a Oaxaca venne ucciso Brad Will, attivista newyorkese di Indymedia che stava documentando l’eroica resistenza della Comune di Oaxaca. Indymedia Mexico era uno dei motori della rivolta, lo stato messicano, brutale nelle strade, si muoveva ancora come un pachiderma cieco sulla rete internet. E il racconto da parte dell’attivista milanese Blicero della notte dell’assalto alla Diaz rappresenta a livello narrativo il cuore del libro e descrive il punto di svolta e anche di condensazione degli aspetti che hanno contraddistinto il collettivo di Indymedia Italia: radicalità, creatività, ingenuità a volte, generosità.
Durante le giornate di Genova 2001 e negli anni successivi la piattaforma a pubblicazione aperta ha consentito di combattere la narrazione dei media mainstream, di costruire campagne politiche de-territorializzate o al contrario di territorializzare in modo orizzontale campagne di azione diretta originate in qualsiasi punto della geografia italiana ed europea. Dopo Genova, il materiale girato e raccolto dai mediattivisti durante i cortei e poi alla Diaz è stato fondamentale anche a livello giudiziario.
Indymedia è stata vista anche come uno spazio “troppo” libero da quelle aree politiche che dopo Genova hanno tentato di egemonizzare i centri sociali italiani: Globalproject.info per gli ex-disobbedienti del Nord-Est e infoaut.org per gli autonomi torinesi. Tuttavia questi tentativi identitari non hanno mai sviluppato negli anni la stessa potenza e capacità innovativa del network indipendente, che è stato invece in grado di influenzare per molti anni anche i media mainstream producendo materiali di qualità molto eterogenei a livello di orientamento politico e di registri culturali. Il metodo è anche l’obiettivo, il mezzi sono i fini, questa la posizione metodologica radicale degli hacker etici e della generazione di attivisti e attiviste che agli albori del movimento contro la globalizzazione neoliberista ha dato vita al progetto di Indymedia Italia. Lo scambio conflittuale, il “flame”, è sempre in agguato e se, come riconoscono gli “indyani”, questa pratica di esporre in pubblico gli scazzi dentro i movimenti sociali ha fatto piacere alla Digos, è stata anche una pratica radicale di orizzontalità, di critica ai meccanismi di potere e cooptazione che inevitabilmente si creano quando più di tre individui iniziano a fare politica insieme.
La potenza “virtuale” di internet come strumento di contro-informazione e di organizzazione politica si scontrava nei primi anni 2000 ripetutamente con la brutalità “classica” del potere politico: violenza poliziesca, repressione giudiziaria, corruzione. In risposta alla potenza de-territorializzata della rete, anche in Italia in parallelo con lo sviluppo del progetto di Indymedia iniziarono le prime inchieste giudiziarie transnazionali e in vari momenti furono sequestrati i server. Tra tutte le testimonianze Genova e l’attentato alle torri gemelle del 2001 rappresentano un punto di svolta tra un periodo creativo e pieno di promesse e un dopo contraddistinto da dinamiche di lotta contro il potere molto dure che hanno indebolito e infine per qualcuno distrutto il sogno della libertà nel mondo della comunicazione digitale. Negli anni Dieci del secolo il potere ha iniziato a utilizzare dinamiche attive di creazione e manipolazione decentralizzata dei contenuti in rete con finalità repressive e di controllo, con l’introduzione massiccia dei troll, dei bot e delle strategie che oggi fanno la fortuna dei sovranisti digitali globali.
Nel libro è presente in appendice una cronologia utile a ricostruire la storia di Indymedia, che si sviluppa in parallelo con le tappe più importanti del movimento contro la globalizzazione neoliberista in Italia, in Europa e nel mondo. Ma soprattutto, il libro riflette criticamente e fornisce una ampia selezione di informazioni ai giovani che oggi sono attratti dalle potenzialità trasformative del digitale. Per chi ha percorso a fianco dei nerd di Indymedia quegli anni fondativi la lezione espressa dal libro è chiara: nei momenti di grande mobilitazione politica si producono anche delle innovazioni tecnologiche e metodologiche che moltiplicano la potenza dei movimenti sociali.
Queste innovazioni però sono sempre a rischio di essere fagocitate dalle macchine da guerra del capitalismo e a ogni generazione si pone il dilemma di non facile soluzione tra spontaneità e informalità da un lato e dall’altro lato l’organizzazione e la razionalizzazione delle innovazioni prodotte. Le autrici e gli autori non offrono una risposta definitiva a questo dilemma, un’aura di nostalgia aleggia nelle pagine, sintomo della estrema debolezza dei movimenti sociali oggi in Italia. La bat-caverna di Firenze esiste ancora ma è diventata una stanza per i bambini figli degli attivisti che ancora vivono nella occupazione, il secondo piano della palazzina del TPO di Bologna non esiste più, al suo posto ci sono dei palazzoni residenziali.
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