Venezia, sotto il segno del Mose
La lunga “querelle” sui mezzi più idonei per “salvare Venezia” e il suo ambiente viene di solito fatta incominciare (anche se risale a prima) con l’alluvione del novembre 1966. Si capì allora, certo più traumaticamente, quanto manomesso fosse stato l’ambiente lagunare nel corso di un secolo. Ci si accorse che Venezia sprofondava, soprattutto perché, per usi industriali, se ne succhiava l’acqua dal sottosuolo. L’emungimento – cioè il prelievo d’acqua – fu quindi fermato e la subsidenza rallentò fin quasi a cessare. Si scoprì anche – ma diventerà molto più chiaro in seguito – che lo stesso entroterra cominciava a essere stravolto dallo sviluppo del nascente “modello Nordest”, e scaricava disordinatamente in laguna troppa acqua (inquinata, peraltro). Per rimediare a quel dissesto nella macroregione non si fece nulla, anzi. Ancora oggi, perciò, in Veneto, le alluvioni avvengono in gran parte in terraferma e non in laguna. Se il Mose fosse la soluzione, ce ne vorrebbe uno per ogni corso d’acqua, dalle Alpi ai litorali.
Soprattutto, quel 4 novembre del ‘66 rivelò le devastanti manomissioni subite da una laguna ridotta nello spazio (dagli interramenti per usi industriali e urbani) e nella quale entrava, dal mare, una crescente massa d’acqua a velocità sempre maggiore, fenomeno poi aggravato drammaticamente dallo scavo del nuovo canale Malamocco – Marghera, il cosiddetto “canale dei petroli”, inaugurato nel 1968, usato appunto allora dalle petroliere e oggi specialmente dalle enormi portacontainer, appiattendo i fondali lagunari, azzerandone la morfologia secolare (che, con la sua trama di canali e rii e barene e velme, “addomesticava” l’onda di marea e la diluiva gradualmente). Si corse, parzialmente, ai ripari e vennero, tra l’altro, concepiti e via via realizzati molti interventi che non sono affatto “minori” come spesso si dice. Alcuni sono davvero ciclopici: ricostruire le barene, scavare e reinventare canali e rii, rifare le rive, le fondamenta, sollevare parti sempre maggiori di città! Sono attività complesse e impegnative, che hanno anche aperto nuove prospettive di lavoro e di ricerca. Salvare (e studiare) Venezia è diventato così anche un volano per nuove dimensioni socioeconomiche e nuove attività tecnologico-scientifiche.
Da ultimo, dopo il 1966, si capì che un altro grave rischio, il più globale fra tutti, incombeva: quello derivante dal mutamento del clima e cioè dall’aumento del livello dei mari (eustatismo) – pericolo divenuto di anno in anno più spaventoso, come si è infine visto il 12 novembre 2019, con la seconda acqua alta di tutti i tempi, 1,87 m., peraltro ripetutasi a livelli eccezionali per più giorni, con la città in ginocchio, stravolta, disastrata.
Dopo la prima “aqua granda” (1,94 m.) del 1966, si cominciò a pensare di intervenire alle tre bocche di porto (Lido, Malamocco, Chioggia) dalle quali l’Adriatico entra in laguna. Secondo la legge speciale per Venezia – i cui estensori, quasi come gli antichi savi, sapevano che l’ecosistema lagunare è uno di quei luoghi in cui “anche gli angeli dovrebbero esitare prima di poggiare un piede”, pur essendo un luogo in cui naturale e artificiale agiscono sempre insieme: si legga, o rilegga, su questo, ad esempio, il più bel libro sulle origini e sulla natura peculiare della Serenissima, Venezia. Nascita di una città di Sergio Bettini, ristampato Neri Pozza – secondo la legge, dunque, questi interventi dovrebbero essere “graduali, sperimentali, reversibili”.
Il Mose non è niente di tutto questo: è un intervento drastico e definitivo, irreversibile. Per questo fu contestato, già alle origini, dal Consiglio superiore dei lavori pubblici negli anni ‘80, dalla commissione statale di Valutazione di Impatto Ambientale nel 1998, dai Ministeri dell’Ambiente, dei Beni culturali e della Ricerca scientifica a più riprese (e fino a oggi). Queste valutazioni negative, di tipo tecnico-scientifico, sono state sempre superate solo con decisioni politiche che hanno eluso i nodi critici evidenziati e non hanno mai degnato di vera attenzione le soluzioni alternative proposte. Il Consorzio Venezia Nuova ha sempre avuto una tale capacità di promozione – con soldi pubblici – dell’opera che, senza gara, si è accaparrato l’esclusiva di realizzare e finanche di controllare (bell’esempio di controllore-controllato), da far apparire quantomeno improbabili le alternative, malgrado fossero state proposte da tecnici di vaglia e da imprese che altrove le hanno sperimentate efficacemente (mentre il Mose, pensato più di trent’anni fa, non è mai stato sperimentato da nessuna parte: Venezia farà da cavia e da paziente insieme!).
Un giorno di giugno del 2014 si è capito con quali altri mezzi il Mose sia stato criminosamente “promosso” dalla potente lobby che controllava il Consorzio e i suoi numerosi alleati e complici dentro e fuori delle istituzioni. La storia di corruzione e intrigo che ha aperto la strada al Mose e che si sdipanava ineffabile e feroce soprattutto a ogni snodo critico, quando apparivano più forti le obiezioni e più evidenti i limiti del progetto, è stata ricostruita nel modo più completo nel libro uscito a scandalo ancora caldo, La retata storica, di tre giornalisti del Gazzettino (che lo edita, 2014), Gianluca Amadori, Monica Andolfatto, Maurizio Dianese. Il contesto di capziose normative e di chiavi interpretative bizantine di cui la determinazione politico-affaristica pro Mose si è giovata è invece ricostruito perfettamente da Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, Corruzione a norma di legge, Rizzoli 2014.
Di recente è uscito Sotto il segno del Mose. Venezia 1966–2020, (La Toletta edizioni, 2020) di Giovanni Benzoni e Salvatore Scaglione, che raccoglie, insieme a una minuziosa ricostruzione storica delle vicende dei due autori, anche testi di altri, tra i quali alcune preziose testimonianze delle tempestive e motivate obiezioni all’opera (al di là della specifica vicenda della corruzione, che però ha impedito il pieno riconoscimento dei limiti del progetto), e si veda in particolare l’intervento di Marco Rugen, già presidente di sezione del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, o delle travagliate vicende autorizzative (comprese bocciature e ripescaggi al Tar) o, ancora, sintetiche presentazioni di progetti alternativi al Mose (bocciati seccamente da un ceto politico e da organi “tecnici” pesantemente condizionati, in ogni senso).
Un utile volume, questo di Benzoni e Scaglione, che riassume decenni di storia italiana e di storia veneziana, e che conclude, giustamente, ricordando che non di solo Mose può vivere o morire Venezia, bensì di molto altro (e l’emergenza socioeconomica provocata dalla Covid, ovviamente, aggrava il quadro). Un testo che, anche, andrebbe tenuto presente assistendo, è storia di oggi, a eventi come la dapprima annunciata “inaugurazione del Mose”, poi derubricata a “primo test generale”, tenutosi lo scorso 10 luglio e festeggiato dalla gran parte dei media, e dei politici, come un successo. In realtà, anche ammesso che funzioni – e per quanto si è visto finora non è affatto detto, tra guasti, difetti, imprevisti prevedibilissimi ma ignorati: ruggine, salsedine e sabbia nei meccanismi, materiali incongrui, saldature inaffidabili e così via – il vero test per il Mose non sarà certo quello affrontato quella mite mattina di luglio, alla presenza delle autorità e sotto gli occhi di tutto il mondo.
Come un atleta che, dovendo prepararsi per una maratona in salita e sotto una tempesta, si alleni con una corsetta attorno a casa in un bel mattino d’estate, al debutto del “quasi finito” Mose è stata riservata la migliore, e la più improbabile, delle condizioni operative. La suspense che tuttavia ha accompagnato lo sforzo di ognuna delle 78 paratoie per sollevarsi dal fondo delle tre bocche di porto che collegano mare Adriatico e laguna di Venezia, la dice lunga sulla fiducia che si nutre in quest’opera, la cui gestazione dura da decenni e che oggi si ipotizza “consegnabile chiavi in mano” alla fine del 2021. Qualcuno, in realtà, ne promette, o ne chiede, l’entrata in funzione anticipata già nel prossimo autunno, in caso di maree eccezionali, e non si capisce se si tratti di una pietosa bugia o dell’annuncio di un azzardo irresponsabile: Venezia farebbe da cavia a un’opera mai testata, neanche parzialmente, in condizioni autentiche di mareggiata, realizzata senza un progetto esecutivo e senza una positiva valutazione di impatto ambientale (oltre che agevolata dai noti e già citati meccanismi corruttivi per “aiutarla” a superare le molte obiezioni scientifiche e tecniche).
Ma anche riuscisse perfino quell’azzardo in autunno, il vero test non sarebbe ancora quello. Ammesso e non concesso che funzioni, il Mose affronterebbe solo da allora in poi la vera prova: difendere laguna e città dalle acque alte ma nel nuovo contesto creato dai mutamenti climatici, dal costante aumento del livello medio del mare. Sul filo dell’acqua, Venezia registra in tempo reale quei mutamenti, ma il Mose è stato pensato in un altro tempo, calcolando male e sottovalutando la dinamica del “climate change”. Opera rigida in un contesto mutevole, la sua sola elasticità consiste nell’alzare o abbassare le paratoie. Ma se il livello del mare crescerà al ritmo accertato, se la frequenza delle maree medio alte ed eccezionali aumenterà come sta avvenendo, il Mose si alzerà sempre più spesso.
“Per la prima volta nella storia la laguna è stata del tutto isolata dal mare”, è stato trionfalmente annunciato. È esattamente questo il problema: a differenza delle opere alternative (e assai meno impattanti) a suo tempo proposte anche dal Comune di Venezia (e scartate brutalmente dal governo, come si è detto, e come Sotto il segno del Mose ricostruisce), il Mose può fare solo questo, ammesso che funzioni; ma se lo fa troppo spesso, isolando la laguna, ne condanna a morte l’ecosistema (che vive dello scambio ogni sei ore con il mare, sennò diventa una palude). Peraltro, condanna anche il porto commerciale e industriale, cuore vitale dell’economia veneziana, uno dei pochi antidoti alla monocultura turistica, rendendolo inaffidabile per la necessaria puntualità e programmabilità dei traffici di cui vive. È, da sempre, la vera questione sollevata da ambientalisti e scienziati, sempre ignorata, rinviata, mistificata.
Ora ci siamo. Ora comincia la vera storia. Se il governo vuol fare la cosa giusta, in discontinuità col passato, oltre che al check-up funzionale necessario, dovrebbe in primo luogo sottoporre l’opera a questa verifica strategica.