Una scuola italiana
E’ il racconto di un’esperienza di naturale integrazione tra bambini e tra adulti in una scuola pubblica della periferia romana, a Tor Pignattara, quartiere reso squallido dall’incuria perenne in cui è immersa questa città, dal retro del Panteon all’anello dei rioni cresciuti – negli anni del fascismo e in quelli più recenti – senza un progetto o un’attenzione ai suoi possibili abitanti.
E’ il racconto di un’esperienza di naturale integrazione tra bambini e tra adulti in una scuola pubblica della periferia romana, a Tor Pignattara, quartiere reso squallido dall’incuria perenne in cui è immersa questa città, dal retro del Panteon all’anello dei rioni cresciuti – negli anni del fascismo e in quelli più recenti – senza un progetto o un’attenzione ai suoi possibili abitanti.
Qui oggi le famiglie migranti sono numerose: dal Bangladesh alla Cina, dal Nord Africa all’India o al Vietnam, visi scuri di pelle o chiari ma con occhi di taglio insolito per noi europei, mescolati ad altri che giungono dall’Ucraina o dalla Russia, tutti egualmente mal visti dalla gente che li sopporta a mala pena, con diffidenza se non con disprezzo. Bastano le scritte ingiuriose sui muri o le occhiate dei passanti (che gli autori, come per caso, registrano) per rendersene conto.
Eppure i bambini migranti, quali appaiono in numerose carrellate assai espressive, non sembrano avvedersene: bambini di scuola d’infanzia che non conoscono ancora il pregiudizio, senza timori parlano giocano tra loro o con i rari bambini italiani con cui trascorrono le giornate, disegnando o partecipando attentissimi alle proposte delle loro maestre.
Solo quando compaiono i genitori – madri soprattutto – o fratelli adolescenti, si leggono nei loro volti tracce di nascoste sofferenze. “L’immigrato– dice una delle maestre – la paura se la porta dentro, la paura di essere diverso”, che si scontra con la paura di certe madri romane: “Che succederà a mio figlio se non ha compagni italiani e sta tutto il giorno con “musi neri o gialli”? Disimparerà perfino l’italiano!”. Di qui le protestelocali e nazionali che arrivano fino a una Gelmini, la ministra saputella che dà l’ordine: non si superi il 30% di bambini stranieri rispetto agli italiani, senza altro criterio che quello numerico.
La Scuola “Carlo Pisacane“, attaccata tuttora in ogni modo possibile dai funzionari del Comune come dai comitati di genitori romani, teatro della bella, semplice esperienza qui raccontata, contesta questa normativa e ha dalla sua un forte vissuto di integrazione non solo tra bambini, ma anche delle maestre tra loro e di queste con le famiglie, le madri in particolare che seguono con ritrovata sicurezza la scuola di italiano che Asinitas ha organizzato per loro: scrivere e leggere nella nuova lingua in comune per dire a sé e ad altri i sentimenti, la nostalgia, i ricordi, così diversi eppure in fondo così simili.
Con i bambini si parla un altro linguaggio, quello del gioco, anzi del gioco drammatico di cui Cecilia Bartoli che lo conduce è esperta in quanto formatrice CEMEA (Centri di esercitazione ai metodi di educazione attiva, fondati in Francia nel 1936, sono diffusi soprattutto in Italia e nelle regioni francofone), che di questa forma espressiva fanno largo uso. Dai disegni dei bambini si avviano dialoghi con molta attenzione alle parole di ognuno, la stessa che emerge tra le maestre nelle loro riunioni. Il film le mostra – belli questi visi di donne, quasi tutte oltre gli …anta, che portano i segni di tanto lavoro paziente con i piccoli, ma anche la luce di nuovi entusiasmi – mentre raccontano di come si siano sentite o si sentano di fronte alla forte affluenza di bambini venuti di lontano e di come desiderino prepararsi per offrire loro qualcosa di nuovo. Si accordano su un adattamento alla storia di Dorothy che, per incontrare il mago di Oz, dovrà affrontare l’uomo di paglia e quello di ferro e persino una maga cattivissima che verrà drammaticamente affrontata e messa fuori uso.
La vicenda diventa una parabola per raccontare lo straniamento di chi deve lasciare la propria casa, affrontare un lungo viaggio irto di pericoli ignoti, approdare in una terra nuova e lì ricostruire “casa mia”, il bene massimo per ciascuno di noi. La storia viene animata dalle maestre più giovani con pochi segni di trucco, e semplici ma efficaci elementi di costume. I bambini partecipano con gusto, attentissimi, imitando e a volte inventando, passando senza sforzo dalla realtà alla fantasia e viceversa, grazie all’aiuto di piccoli paraventi improvvisati e al racconto letto via via da un adulto.
Mi si perdoni, da vecchia montessoriana quale sono, qualche notazione in margine alla scuola di cui questo bel film racconta, sita in un vasto edificio di epoca fascista. Le aule piccole e i grandi corridoi hanno purtroppo l’aspetto sciatto comune a tante strutture scolastiche, imposto anche da normative e da criteri di risparmio come il rotolone di carta distribuita qua e là per asciugarsi le mani. Un peccato, visto l’alto livello di esperienze che propone. Si potrebbe anzi sostenere che proprio perché si ospitano bambini e adulti provenienti da condizioni tanto dolorose, bisognerebbe dare loro, malgrado le ristrettezze economiche, un ambiente curato al massimo, senza carta strappata ai muri, ad esempio, né gesti frettolosi, come tirar su una bambina dalla sedia senza nemmeno dirglielo, o poco rispettosi, come scrivere sui disegni dei bambini il loro commento, anziché usare un altro foglietto (è vero, lo fanno tutti, ma non per questo non è una mancanza di rispetto. È come dire al bambino: “il tuo disegno è incompleto , non si capisce!….”).
Ma si tratta di particolari che non incidono sulla qualità e l’autenticità del film e della proposta educativa qui narrata, riproponibile con poca spesa ovunque.
Il film, con un’ottima fotografia e un delicato e assai efficace commento musicale, ha momenti molto intensi negli sguardi e nei timidi sorrisi dei bambini, nel loro piacere di partecipare sentendosi sempre incoraggiati e mai giudicati: raro esempio di conduzione laica di un progetto educativo che unisce grandi e piccoli e non difende alcun dogma, pur di promuovere in tanti modi e grazie alle diversità lo scambio e l’avvicinamento spontanei.
In poche parole un film da non perdere, soprattutto per chi si senta sommerso dai “Non c’è niente da fare” ovvero dalla paura (anche questa!) di inventare piccoli semi di incoraggiante, se pur difficile, cambiamento.