Una scuola in movimento: il Puntoemme
Nato dalle spinte più radicali e libertarie dei movimenti democratici dell’800, ma piegato fin da subito alle esigenze di controllo dei nascenti governi nazionali (liberali, conservatori o democratici che fossero), il grande e contraddittorio sogno della scuola di stato – di un’istituzione cioè capace di istruire, educare e offrire pari opportunità a tutti, formando anche l’ossatura democratica di un paese – in Italia ha probabilmente il suo canto del cigno nel decennio che va dalla fine degli anni ’60 alla fine dei ’70. In quel lasso di tempo le speranze democratiche e libertarie riposte nella scuola dell’obbligo sono state rinvigorite da un fermento di critica e sperimentazioni dal basso capaci di sospingere le ultime vere riforme che l’istituzione scolastica ha conosciuto.
La tensione tra le opposte spinte originarie della scuola pubblica, di autonomia e insieme di controllo, arriva a un punto di rottura nell’inconciliabilità tra il compito di addestramento e l’utopia della formazione, come creazione di consapevolezza critica, coscienza di sé, liberazione. Alla fine degli anni ‘60 questa contraddizione è particolarmente sentita da una generazione di giovani insegnanti entrati in una scuola che, nelle dimensioni, comincia a diventare realmente e per la prima volta “di massa”, ma nei metodi e nella cultura di fondo continua a essere a impronta gentiliana e autoritaria. Uno dei “movimenti sociali” più importanti negli anni della contestazione è quello che attraversa la scuola dell’obbligo, rinnovandone per un breve periodo le pratiche e la cultura di fondo. L’arco temporale entro cui si sviluppa e si esaurisce questo movimento – cioè dalla Lettera a una professoressa (del 1967) alla “normalizzazione” della scuola media con la riforma Malfatti (del 1977) – coincide all’incirca con l’impresa culturale del Puntoemme, la collana pedagogica della Emme Edizioni di Rosellina Archinto. Il Puntoemme inizia a pubblicare nel 1971, a cinque anni dalla nascita della casa editrice, sotto la direzione di Graziano Cavallini ed è, tra i tanti e vivi progetti editoriali di quegli anni, quello che più ha saputo intercettare e dare voce in modo organico alle diverse anime del movimento della scuola e degli insegnanti.
La prima fase del movimento è più apertamente conflittuale e spontaneistica e si oppone dall’esterno al modello autoritario e classista della scuola pubblica attraverso le campagne per il rifiuto dei libri di testo, le esperienze delle scuole popolari, delle controscuole, dell’animazione e delle inchieste territoriali. Tra le molte avventure pedagogiche che fioriscono in quegli anni si distinguono: la mensa dei bambini proletari a Napoli, l’asilo autogestito di Porta Ticinese del gruppo di Elvio Fachinelli a Milano, l’animazione teatrale di Scabia, Barba e Rostagno nelle periferie industriali o nei paesi meridionali. È a questo tipo di sperimentazioni che il Puntoemme dedica gran parte del suo catalogo: Il leggere inutile: indagine sui testi di lettura adottati nella scuola elementare (1971); Con i bambini del quartiere: diari di lavoro del Gruppo del sole (1974); Il teatro i ragazzi la città (1974) di Emanuele Luzzati; Forse un drago nascerà di Giuliano Scabia (1975); Contro i libri malfatti (1976); Scuola-laboratorio: un’esperienza di progettazione della comunità e dell’ambiente con i ragazzi sottoproletari del rione Traiano di Napoli (1976); Taculot: un’esperienza di contro scuola (1976).
Il lavoro culturale della Emme non è però un’esperienza isolata. Negli stessi anni nascono e si sviluppano, con una capacità di penetrazione oggi inimmaginabile, librerie di movimento (come la Calusca di Primo Moroni e La libreria dei ragazzi di Roberto Denti), collettivi editoriali (come i Quaderni della scuola dell’obbligo, curati dal Centro di documentazione di Pistoia o La biblioteca di lavoro ideata e animata da Mario Lodi e dai maestri del Movimento di Cooperazione Educativa, Dalla parte delle bambine o Scimmia verde (celebri collettivi sull’educazione di genere e non autoritaria) e collane editoriali o case editrici di chiara ispirazione controculturale, come La ruota di Genova che pubblica proprio in quegli anni i primi volumi dell’enciclopedia Io e gli altri, o la multiforme (e più confusa) Guaraldi di Rimini.
Ma i titoli della Emme non si limitano a dare voce all’anima critica e politica del movimento. Offrono anche strumenti di analisi psicologica e pediatrica necessari a un’educazione rispettosa della vita del bambino: con Il problema inventato (1976) e La maleducazione sessuale (1981) Marcello Bernardi allargava ai problemi dell’infanzia le istanze della liberazione sessuale; Quando c’è un bambino (1979) raccoglie alcune bellissime trasmissioni radiofoniche in cui la psicanalista infantile Françoise Dolto rispondeva alle questioni poste dai genitori; con 0-3 anni: un’educazione insolita (1978) Myriam David e Geneviève Appel divulgavano per la prima volta in Italia le intuizioni sull’educazione non repressiva della pediatra ungherese Emmi Pickler, direttrice dell’orfanotrofio di Loczt a Budapest e anche autrice di Per una crescita libera (1980); con La scimmia pedagogica (1972) la filosofa Luisa Muraro attaccava fortemente la disciplina pedagogica. La Muraro, con Lea Melandri ed Elvio Fachinelli, animava in quegli stessi anni L’erba voglio, rivista di riferimento del movimento antiautoritario degli insegnanti. Non si possono dimenticare altre testimonianze: in L’asilo psicanalitico di Mosca (1972) la pedagogista russa Vera Schimdt descriveva la sua esperienza educativa nel 1921 come risposta alternativa al modello comunista e conosciuta in Italia per l’analisi che ne aveva fatto Reich in La rivoluzione sessuale; in Per una educazione creativa (1973) Arno Stern descriveva il suo lavoro pedagogico ed estetico attraverso gli atelier di pittura. Vera Schimdt e Arno Stern si ricollegano alla tradizione dei “maestri” libertari, per lo più sconosciuti alla cultura pedagogica del movimento.
In Quale scuola? (1975) venivano antologizzati alcuni dei più appassionanti articoli pedagogici che Tolstoj scrisse pensando ai suoi giovani alunni contadini di Jasnaja Poljana. L’elenco delle pubblicazioni che documentano la ricchezza di esperienze pedagogiche di quegli anni sarebbe ancora lungo.
Il lavoro di critica culturale operato dalle tante iniziative extrascolastiche, editoriali e pedagogiche, consente al movimento di ottenere sostanziali e oggi impensabili riforme che, per alcuni anni, sembrano poter ridisegnare il volto massificante e discriminatorio della scuola pubblica. Tra le più importanti e che hanno lasciato il segno: lo sviluppo di scuole sperimentali a tempo pieno; i corsi delle 150 ore per il recupero della licenza media conquistati dai metalmeccanici nel 1973 ed estesi presto a tutte le categorie di lavoratori, ai disoccupati, alle donne, agli anziani; la fine delle classi differenziali e il primo graduale inserimento degli alunni disabili; il sistema di gestione scolastica collegiale di genitori e alunni.
Dell’ingresso delle istanze del movimento nella pratica e nella struttura scolastica raccontano alcuni importanti titoli come Il mestiere di maestro (1974) di Fiorenzo Alfieri, uno degli animatori del Movimento di Cooperazione Educativa di cui la Emme pubblicò diversi quaderni di esperienze didattiche; o le prime testimonianze, portate in Italia dalla Francia, della pedagogia istituzionale che, sotto la spinta di Fernand Oury, aveva tentato di applicare ai contesti scolastici metropolitani le intuizioni della pedagogia attiva di Freinet: Memorie di un asino (1976), Il gruppo-classe e i suoi poteri (1977), Rapporto dalla scuola-caserma (1980).
Il confronto tra la parte più viva della società con l’istituzione scolastica si è rivelato impossibile, inaridito sotto l’esaurimento della spinta dei movimenti e sotto la costante tendenza dell’istituzione a riassorbire questi semi di democrazia. Al punto che prima della fine degli anni ’70 si può dire già esaurita la spinta riformatrice del movimento: sono gli anni della “svolta” sindacale, dell’affossamento delle scuole sperimentali, del ritiro dei sindacati dalle 150 ore ormai limitate alla scuola media.
È con quel riflusso e con quella inversione di rotta che, a saperlo accettare, appare evidente che quel sogno non poteva più essere veramente sognato. E non perché fosse sbagliato, ma perché forse la scuola – la scuola che conosciamo, di stato, obbligatoria, universale, burocratica, la scuola dei concorsi, dei trasferimenti, dei curricoli, dei punteggi – non era lo strumento più idoneo a realizzarlo. Da allora gli spazi per intervenire, dentro e fuori di essa, si sono sensibilmente assottigliati. E non esclusivamente sotto i colpi di ministri tecnocrati e pseudo riforme reazionarie, ma anche per la nostra incapacità a mettere in discussione il modello scolastico, quasi che con ciò se ne mettessero in discussione gli ideali, e a immaginare altri modi e altri luoghi dove poter nuovamente parlare di quegli ideali e soprattutto dove tentare di realizzarli.
Resta che i 167 titoli della collana Puntoemme, dal 1971 al 1985, hanno documentato le esperienze e le analisi dei problemi sociali e culturali più vivi di quegli anni e sono un documento storico importante e, per molti aspetti, ancora vivo.