Un oscuro scrutinare
Lo stile è l’uomo. Come decidi di parlare, cosa fai con le parole ti definisce e ti crea. I generi del discorso che adoperi ti determinano nel tempo esistenziale e sociale, ti portano a esistere in quella tale forma e non c’è un’autenticità o un altro piano in cui tu non sei quel tuo modo di esprimerti.
Così come parli della studentesse e degli studenti che ti sono affidati fa di te l’insegnante che sei: non c’è contesto che tenga, confidenza, occasione da considerare. Se ti permetti di dire che quella ti sta sulle palle o quell’altra è cretina, o un’oca o un addormentato, fosse pure con la tua amica al bar o a cena con il tuo compagno, tu sei e sarai quell’insegnante. Quanta rigidità, che moralismo…. “Non dirai mica che non hai simpatie e antipatie, che non pensi certe cose di una ragazzina o ragazzino, no?”. In un certo senso è così: non mi consento di provare, anzi di dirmi, che quella o quel ragazzino non mi sta simpatico, che è odiosa. Mi posso dire che mi crea problemi, che non lo capisco, che mi costa fatica e ci fa penare ma io sono lì per portarla a un certo punto, per far sì che il nostro tempo nella scuola sia inteso a un acquisto di sapere, non sia perso, non sia ingiusto, che si trovino limiti al dolore e ai danni inevitabili. Sono lì per essere quell’adulto benevolo attento disponibile collaborativo di cui si ha bisogno per crescere affettivamente e intellettualmente. Sono lì al servizio di ciascuna ragazzina o ragazzino mi sia affidato.
Non posso dirne o pensarne male perché finirei per lavorare male. Cosa ci posso fare se ciò si manifesta in maniera così lampante da non potersi eludere? Ci sono maestre e professoresse che la sera prima di dormire ripensano alle frasi dette in classe, ai loro “casi” spinosi e di notte in sogno trovano “la formula che mondi possa aprirti ” almeno quelle parole e nuove organizzazioni che cavino dall’impasse. Accade così nei lavori di cura e di relazione, che hanno una dimensione clinica che riguarda il profondo e in cui la qualità degli scambi simbolici che avvengono tra le persone determinano il successo o il fallimento del processo. Riusciremo mai a farci carico di questa verità nelle nostre istituzioni di cura e di educazione?
Non si scrive abbastanza a scuola, non teniamo diari non abbiamo il tempo di ritornare sui casi e sulle vicende con le parole: una professione come questa, in cui tutto passa nella relazione, anche un metodo, anche i contenuti, che non si dà un luogo di elaborazione riflessiva dell’esperienza è un’assurdità. Anzi no. La scuola dei certificati e della selezione non ha bisogno di questa cura estrema.
Non produrre partecipazione, cittadinanza, inclusione, empatia, solidarietà, autonomia, cultura diffusa, competenze per la vita democratica: se no non funzionerebbe così, non più da tempo, qualsiasi siano stati i “peccati” della sua origine, le storture legislative e politiche storiche. La funzione attuale della scuola si fa patente non tanto nell’assenza nella formazione docente di uno spazio di riflessione pedagogica tramite la scrittura (questione complessa e per iniziati) ma nella valutazione, in quella faccenda dei voti.
In tal senso rivelatori straordinari sono gli scrutini. Atto legale in cui la lingua è performativa, procedura rituale e formale, durante la quale ogni magagna viene a galla, tutto l’irriflesso, l’oscuro non lavorato circa le proprie ideologie, supposizioni, rappresentazioni sulla scuola, le sue funzioni, la natura delle relazioni tra le persone con diverso statuto. Giugno è il periodo in cui si raccolgono le storie emblematiche dal fronte degli scrutini, storie di ingiustizia, di violenza, riportate da quelle quelli di noi ferite, incavolate, stremate. Ne parliamo come di battaglie e lo sono: in palio c’è la promozione o la bocciatura di qualcuno, si parteggia per l’una o per l’altra sostenendo che sia per il bene della ragazza o del ragazzo, per la giustizia, ma in gioco c’è molto altro, questioni di potere, di paura, di ignoranza, di cattiveria, di classe soprattutto e poi dinamiche relazionali, vissuti di paura o ferocia più agiti che riflessi. E non vi è barriera e limite a questa massiccia aleatorietà.
Si arriva agli scrutini senza aver lavorato come si dovrebbe e si scrive nelle relazioni, con consigli di classe durante l’anno troppo brevi, troppo spesso incompleti (chi ha 9 classi e circa 250 alunne. Chi ne salta vari perché non rientrano nelle 40 ore funzionali) e in cui non si parla con criterio e consulenze di questioni didattiche ed educative ma in cui fondamentalmente si sparla delle alunne e degli alunni. Arrivati agli scrutini si cerca, a volte in buona fede a volte per non entrare in crisi o assumersi responsabilità, un criterio oggettivo che è ingiustamente un criterio aritmetico. “Ha 5,82 di media con quattro materie insufficienti di cui una col 4 = bocciata. È giusto così, si è fatto così in tutte le classi, non si può fare altrimenti se no non sarebbe giusto”. La scuola nella stragrande maggioranza dei casi funziona così e non importa se le leggi dicono altrimenti. Vince su quelle, spesso ignorate e non tradotte durante formazioni di gruppo attive, la consuetudine fatta norme “locali” sancite nei Regolamenti di istituto. Se lì, con voto favorevole del Collegio docenti, è scritto: “Si prevedono tre valutazioni numeriche a registro per disciplina, con 3 insufficienze di cui una con 4 non si è ammessi alla classe successiva”, questa norma sarà il solo criterio da soddisfare per mettere al riparo il proprio operato da critiche, verifiche, discussioni. Sono dogmi della consuetudine inattaccabili. Chi dovesse dire che non esiste media aritmetica per definire un percorso scolastico nella scuola dell’obbligo, che quella non è la valutazione, che non esiste una valutazione oggettiva che non sia costruita nel tempo, con la documentazione e la validazione condivisa di pratiche didattiche, passa per un buonista, una persona che fa politica a scuola, esponente di una sinistra intellettualoide, un anticonformista rompipalle. Oppure peggio: passa per chi ci espone al rischio della critica, che ci lascia intendere che non si è lavorato bene. Mentre è lui è lei che non hanno voglia, non hanno gli strumenti, non possono farcela ad andare avanti. La scuola inclusiva non esiste.
Gli scrutini hanno una valenza rivelatoria perché nella fretta estrema dei giorni di giugno si consuma l’atto del verdetto, momento di massimo potere e di massima responsabilità, in cui le questioni di giustizia merito uguaglianza mai elaborate in collettivo vengono avvertite acutamente e agite ciecamente. Una raccolta di cronache di ciò che viene detto, deciso, agito durante gli scrutini di giugno sarebbe materiale di studio per varie tesi di laurea e illustrazione sulla condizione attuale della scuola più veritiera di tanti discorsi e scritti. Qui ripotiamo brevemente due “casi”.
G. ha perso e non dorme la notte. Un’alunna di famiglia marocchina, italofona, con buone risorse, era stata bocciata al primo anno del tecnico ed era passata all’istituto professionale. La respingono anche qui, per il secondo anno di seguito: ha quattro insufficienze e “da regolamento” non può passare. Secondo la norma sulla valutazione contenuta nella legge di riforma dei professionali potrebbe anzi dovrebbe essere promossa: la valutazione deve essere condotta sul biennio. Si valuta cosa ha raggiunto alla fine del primo anno e si boccia eventualmente solo quando a fronte di numerose insufficienze si ritenga che la studentessa non possa recuperare in seguito una riforma del Pfi e delle proposte didattiche. Lo spirito della riforma della valutazione nel professionale è mandare avanti tutti tra primo e secondo anno per dare le chance di completare l’obbligo scolastico e quindi un percorso formativo di base. Troppo pochi conoscono questa riforma dei professionali e la notarella dedicata alla valutazione intermedia. G. furioso dopo gli scrutini scrive una lettera che critica l’operato alla Dirigente la quale con tutto il suo staff lo convoca per accusarlo di denigrare la scuola e minaccia un provvedimento formale.
L. quest’anno invece ha vinto. L’anno prima si era quasi ammalata: avevano respinto F. alla fine della seconda media, alunna con Piano didattico personalizzato per bisogni educativi speciali dovuto a disagio socio culturale, 4 insufficienze e media del 5,84. La famiglia non aveva voluto fare la certificazione per disabilità (come le era toccato per i tre figli precedenti) e del resto F. non è disabile, è che la scuola e la sua famiglia non hanno nulla in comune e lei ha bisogno di aiuto. Ma l’aiuto devi chiederlo, devi meritartelo, deve essere certificato se no te la fanno pagare. Anche se la docente di materie letterarie assicura che stava facendo grandi progressi, che aveva amiche nella classe capaci di darle supporto e che in un anno senza Dad la ragazzina avrebbe proseguito ancora più spedita, si votò, L. perse, fece mettere a verbale la sua contrarietà e accusò tutti di ammazzare gli ammalati e curare i sani senza nemmeno saperlo. Passa per matta. Quest’anno arriva agli scrutini armata di calma, determinazione, lucidità. Nella classe dove ha due ore di geografia c’è in ballo il destino di A., candidato a ripetere per la terza volta la seconda media. All’inizio dell’anno si impegnava, pareva determinato a farcela, poi più nulla. Alle spalle ha genitori separati che si detestano, con vite complicate da dipendenze, turni di notte, figli grandi con grandi problemi. Hanno visto il padre a colloquio: dice che il figlio “ha sangue calabrese, come la madre e quindi è stupido”; la madre non ha le credenziali per il registro, nessuno le ha e nessuno a volte lo sveglia per andare a scuola la mattina. Non si impegna e ha 5 insufficienze, da bocciare. L. insiste: la famiglia non lo sostiene, sta a noi supportarlo, non abbiamo trovato un doposcuola, ci volevano interventi personalizzati, lo dice la legge. La attaccano: quale legge dice che devo trovargli io il doposcuola?
Abbiamo chiamato i genitori, poteva fare il corso di recupero di spagnolo e di matematica e non è venuto (a fare due ore uguali alla mattina, seduti a sentire, per tre pomeriggi in più). La Costituzione lo dice: L. si impunta, si vota e anche il prof di motoria trentenne che ha messo 9 a tutti è per fargli ripetere l’anno, anche la prof. di religione e quella di sostegno votano contro A. Perché? un misto di paure, pregiudizi, antipatie, una corrente momentanea che combina credenze, emozioni fa decidere. Ma L. non ci sta e pretende che la presenza della Dirigente in una data successiva all’8 giugno visto che quello che si sta facendo è ufficialmente un pre-scrutinio. Al secondo round A. passa senza nemmeno una votazione.
Cosa ci insegnano queste storie fra i milioni che si potrebbero raccogliere? Che manca qualsiasi consapevolezza sulla valutazione: bocciature o promozioni sono viste come premi e punizioni. Che una giustizia scolastica come norma su cui convenire grazie ai numeri e non tramite la fatica della convivenza nel lavoro didattico e nell’impresa di far funzionare le classi come luoghi di vita e di impegno non è giustizia.
L’isolamento che vive la o il docente che la vede diversamente è logorante. Un’arma forse sarebbe quella di registrare le conversazioni, renderle pubbliche. Un atto illegale, di disobbedienza civile: solo una lunga trascrizione di come si parla ad esempio di disabilità nei Consigli di Classe o in generale di come ci si esprime su alunni e alunne di qualsiasi età potrebbe rendere manifesto a tutti che la scuola è ancora in troppi casi un luogo di violenza e di ingiustizia.
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