Un modo vero di raccontare
Agostino Ferrente è autore di pochi film ma centrati, da L’orchestra di Piazza Vittorio a Intervista a mia madre. A metà tra il “cinema di strada” e il progetto sociale, ha dimostrato una capacità inconsueta di penetrare dentro realtà complesse, svelandole dal di dentro. Selfie è la sua ultima ricerca: bellissima autorappresentazione di due ragazzi del Rione Traiano alle prese con la loro quotidianità, nella memoria di un loro coetaneo scomparso, ucciso per errore dalle forze pubbliche. In questa intervista, fatta a caldo subito dopo il festival di Berlino, abbiamo chiesto a Ferrente di spiegarci una cosa importante: la realtà che viene svelata nel film è il frutto di un metodo di auto-rappresentazione (quello del selfie fatto con lo smartphone) pensato ed elaborato in una drammaturgia condivisa e in una regia pedagogica. Per noi che stiamo da quest’altra parte, analizzare il metodo vuol dire capire che quella realtà (sovraesposta dalla mediatizzazione seriale e dal reportage narrativo) deve essere accostata attraverso una nuova pedagogia della messa in scena, della ripresa, della rappresentazione. Vediamo come.
Non è la prima volta che il cinema documentario cede lo strumento delle riprese al personaggio per rappresentarsi, in questo senso c’è una certa tradizione. Qui però il progetto cinematografico si fa estetico, sociologico, pedagogico, didattico e ha un metodo che va indagato.
Avevo già usato questo metodo con Intervista a mia madre, d’altronde quella dell’autorappresentazione è una mia ossessione, ma solo come meccanismo per destrutturare la resistenza e l’ansia da prestazione del personaggio, tanto più se viene da una cultura come quella napoletana che tende all’autorappresentazione teatrale. Non parliamo, però, di “film partecipati” che spesso hanno un valore prettamente documentale. Se un clandestino che, attraversando il Mediterraneo, rischia di morire registrasse delle immagini con un cellulare, avremmo un materiale esteticamente poco interessante ma in grado di trasformarsi in un archivio unico attraverso una rivisitazione registica postuma, fatta al montaggio. L’idea di ricorrere a un metodo partecipato mi aveva sfiorato, ma è durata cinque secondi, anche meno, perché non mi è sfuggita una considerazione banale ma dirimente: la differenza tra fiction e documentario. Con una fiction si può chiedere a un ragazzino di interpretare un personaggio che non esiste, facendogli fare qualsiasi cosa: sniffare, sparare… Ma facendo un documentario, è eticamente aberrante chiedere al tuo ragazzino di quattordici anni di sniffare la coca, anche se dovesse farlo per davvero nella sua vita. Io la penso così, come documentarista non sarò mai complice di questa cosa. Quindi avendo deciso di raccontare questa realtà attraverso il documentario non aveva senso per me dare in mano al personaggio un cellulare affinché fosse mimetico, affinché potessimo rubare delle immagini che i protagonisti non accetterebbero di rendere pubbliche. Quindi l’idea di consegnare uno strumento come un cellulare a dei ragazzini di Napoli dicendogli “rappresentatevi”, l’ho considerato assolutamente aberrante, è un furto, è come guardare dal buco della serratura…
E dunque come hai lavorato?
Il mio desiderio era di raccontare un ragazzo di sedici anni che porta il caffè in un bar e un altro che sogna di fare il barbiere… Non potevo pensare di trasformarli in due piccoli registi, sceneggiatori e direttori della fotografia. Quindi la mia idea era di spingerli a guardarsi nello specchio, la stessa cosa che ho fatto con Intervista a mia madre: tenerli impegnati sul fare le interviste alle mamme – cosa che psicologicamente li prendeva moltissimo – destrutturava la loro necessità di mettersi in mostra; loro diventavano immediatamente soggetti e non più oggetti. In quel modo avevamo la restituzione di un momento di verità, un artificio narrativo per ottenere una verità, che è il nostro mestiere. In Selfie ho abolito il filtro, l’operatore e la telecamera. Io non faccio le riprese, non voglio essere distratto da problematiche di natura tecnica. Allo stesso tempo è un ostacolo per me avere un operatore professionista che deve interagire in tempo reale e interpretare quella che io definisco “drammaturgia sul campo”, anche perché l’operatore ha una sua sensibilità, un suo gusto, si crea un dibattito e si perde il film. È come un’operazione al cuore, non ti puoi mettere a dibattere con il co-chirurgo se è meglio così o meglio colà… quindi: via il filtro dell’operatore e della telecamera.
Il mezzo di ripresa è l’iPhone…
Gli ho dato un oggetto di facile uso, un iPhone che loro già sanno usare perché si fanno i selfie e i video che postano sui social. Poi gli dico: spostatevi di lato, non fate il selfie narcisistico, non mettetevi al centro, riprendete voi e la vostra realtà, guardatevi allo specchio. In maniera lacaniana, se mi passi la citazione, è la ricerca del sé attraverso lo sguardo. Guardandoti negli occhi, non vedo solo te ma anche me stesso attraverso i tuoi occhi, ho la conferma che io esisto. Il bambino che guarda il papà se non ha una reazione del padre è abbandonato, è perso, avrà dei traumi per tutta la vita. Esisti perché ti guardi allo specchio, non nel senso narcisistico, ma esistenziale. La mia ossessione era fare un film sugli occhi, fare un film sullo sguardo. Nel cinema la prima regola che ti insegnano è quella di non permettere che il personaggio guardi in macchina. Io ho voluto trasformare la rottura di questa regola in un dispositivo cinematografico.
In questo modo è emersa una rappresentazione della realtà dei rioni inedita rispetto a quella ormai codificata delle Gomorre televisive…
Per anni s’è detto basta alla cartolina anni Cinquanta, la mozzarella, il mandolino, la pizza… Poi s’è creata una seconda cartolina: le Vele, i palazzoni, le piazze dello spaccio, il degrado urbano. Il negativo è diventato positivo! C’è quasi un livello di saturazione ormai. Il rione da dove vengono i ragazzi invece si ispira originariamente all’edilizia americana con il verde, il palazzo basso per non creare lo spaesamento, le costruzioni che dovevano ricostruire una comunità, il giardino per i bambini. Poi quel progetto è stato attraversato dal destino degli sfollati delle baraccopoli che stavano sul mare, trasferiti provvisoriamente dopo il terremoto; rimasti poi lì, hanno occupato i bassi, le cantine: le hanno arredate, le hanno fatte diventare case. Quando ho chiesto ai miei personaggi di guardare nello specchio la realtà dietro di loro, era per non vedere il solito controcampo che già è patrimonio dell’immaginario collettivo. Volevo vedere loro nel loro mondo attraverso i loro occhi. Guardiamo non quello che gli occhi vedono, guardiamo gli occhi che vedono; il controcampo ce lo immaginiamo, è un fuoricampo.
Mi fai un esempio?
Quando come regista creo una situazione, il personaggio reale – assecondando la mia richiesta che si basa sul racconto del suo vissuto – decide di accettare questo gioco dell’auto-rappresentazione. Ma, nel momento in cui lo realizza, sta parlando realmente con il padre, con la madre, con la fidanzata, sta andando per davvero sulla tomba dell’amico morto… non è fiction, non è reenactment come dicono gli inglesi. È fare una cosa che appartiene alla loro vita: in quel momento è realtà. Se non ci fosse stato il regista, magari non sarebbero andati quel giorno sulla tomba, non avrebbero fatto quella telefonata… Però, siccome il regista ritiene che quel tipo di azione può raccontare bene quella persona e quella personalità, lui la fa. Se il regista sente che il modo in cui il personaggio esprime il concetto non è sufficientemente chiaro o bello – perché il documentario ambisce a essere un’opera quindi deve essere bello esteticamente – gli dice di riprovarla, di farla meglio, interagisce in diretta, crea una relazione, con il personaggio.
Questo che hai descritto è un aspetto di quello che abbiamo chiamato “regia pedagogica”, in senso rosselliniano. C’è da una parte la regia, qui in termini di drammaturgia sul campo, del settaggio della camera, delle indicazioni su cosa può funzionare… C’è poi l’aspetto pedagogico che è quello relazionale con il personaggio quando lo stimoli, lo aiuti, lo induci a fare delle cose che passano attraverso il suo filtro, il suo sguardo. Ma qui, in più, c’è che una cosa che non possiamo dimenticare, il selfie, il guardarsi guardando. Loro sono allo stesso tempo operatori e soggetti operati, dentro l’inquadratura e dentro il quadro della realtà in cui si iscrivono.
Passami questa metafora: loro vivono la stessa esperienza del muro di Leopardi; sanno che quello che c’è al di là gli è precluso allo sguardo, con la differenza che quella di Leopardi era una preclusione esistenziale, la loro è una preclusione sociale. In questo senso raccontare quello che c’è dietro senza sapere quello che gli aspetta davanti fa parte del gioco, della metafora, non sanno cosa c’è nel futuro, inquadrano solo il loro passato, anche se nel passato c’è la radice di quello che saranno in futuro.
Il rapporto pedagogico è bilaterale. La forza di questo film è anche che loro ti hanno permesso di entrare dentro una dimensione dello sguardo e in una realtà, o un modo di vedere la realtà, che non avresti potuto immaginare…. E noi neanche!
Questi due ragazzi, che hanno abbandonato la scuola a quattordici anni, mi hanno fatto capire che io non avrei mai potuto speculare sulla loro miseria. Nel film il padre e la madre si vedono una volta sola. Io racconto i desideri, le aspettative, le voglie di una vita normale, l’affetto, ma non la loro famiglia, la loro origine. Uno abita in un basso, l’altro abita in un palazzo di cui non ha le chiavi: per andare a casa deve chiedere il permesso, perché è proprio la “piazza di spaccio”. Fino a dieci, vent’anni fa, se fossimo entrati in un rione con una telecamera professionale fatalmente attratti dalle situazioni del disagio, avremmo trovato una serie di personaggi che avrebbero utilizzato quella telecamera come uno strumento con cui gridare le proprie frustrazioni, le proprie recriminazioni. Sarebbe arrivata la vecchietta: “Diccilo a ’o sindaco, guardate, tenimmo le crepe, tenimmo dieci in una stanza, qui non ce stanno le cose…!” Da quando c’è la possibilità di riprendersi in maniera amatoriale e di condividere il messaggio attraverso i social e la rete, la denuncia televisiva non ha più senso. Questa rivoluzione li ha alfabetizzati a tal punto che sanno che la televisione non ha più il potere di strumentalizzarli. Mi dicevano è inutile che mi fai l’intervista tanto lo so che poi alla fine se io parlo un’ora poi monti i cinque minuti che piacciono a te. In questo senso loro hanno detto: tu puoi farci tutte le proposte che vuoi, tu sei il regista, noi ti seguiamo, ma sappi che noi stabiliamo il confine e i tempi.
Il tuo film ha una cosa evidente e restituisce subito questa impressione, che i ragazzi abbiano superato l’ostacolo dell’autorappresentazione. In questo senso c’è un livello di autenticità, che almeno noi percepiamo tale sinceramente, per cui non solo non hai l’impressione che loro stiano recitando o stiano su un piano di falsificazione, diciamo così, ma che non abbiano messo una maschera. Come siete arrivati a questo? Sono loro, perché poi dipende dalla soggettività, che hanno permesso questo?
Sono loro che hanno permesso questo, si sono messi metaforicamente ma anche pragmaticamente a nudo. Hanno un’autoironia, un’accettazione del sé dignitosissima, che noi non avremmo. Alessandro che sta con le ciabatte e con i calzini sul letto di Pietro, quella bellezza, un’autocelebrazione pittorica… La lingua diretta poi ti prende a schiaffi, non c’è sceneggiatore che possa competere con quella persona che è andata comprare quella camera da letto da boss o ha comprato quei calzini, quel modo di fare… Semplicemente li ho messi in moto, cioè la materia prima l’ho un po’ plasmata ma la materia è un significante che deborda di significato. Li vedi lì e hanno già raccontato tutto, non c’è altro da aggiungere. Io faccio fatica a fare le sinossi perché non ci sono parole che possano restituire quello che la materia di per sé ti dà raccontando se stessa. Credo comunque di avere la risposta alla tua domanda: loro non volevano fare il cinema e questa cosa è la medicina. Mi dicevano: “io posso girare un’ora, domani no ché sto con la mia fidanzata, con mio padre, con mia nonna all’ospedale”. Io dovevo stare solo lì ad aspettare, non potevo forzare.
Questo da una parte m’ha messo in ansia, ma dall’altra si riallaccia al discorso sulla miseria, sull’impossibilità di specularci sopra. Quando a Pietro gli chiedi “che pensi di Gomorra?” e lui “quella è fiction noi siamo realtà”… ha fatto una chiosa perfetta e io mi sono detto: sai che c’è? questi non hanno nessuna voglia di fare il cinema, questo vuol dire che quando lo fanno sono disinteressati, sono sinceri.