Un immigrato che conosce i suoi diritti
di Yvan Sagnet. Incontro con Nicola Villa
Yvan Sagnet diventa un personaggio pubblico nell’estate del 2011. Studente del politecnico di Torino (pochi giorni fa si è laureato in Ingegneria), si reca a Nardò per lavorare come bracciante agricolo e diventa uno dei leader dello sciopero dei lavoratori africani ospitati nella “Masseria Boncuri”. Lo stile con cui Yvan interpreta il ruolo di portavoce degli scioperanti è uno dei motivi di successo della lotta: nelle assemblee, negli incontri con le istituzioni e con i giornalisti, riesce a esprimere la radicalità delle rivendicazioni degli scioperanti con estrema pacatezza, senza alzare mai la voce, senza eccessi. D’altro canto, la forza di quello sciopero, che lo stesso Yvan ha raccontato più volte (nel volume collettaneo Sulla pelle viva, DeriveApprodi, e nel libro autobiografico Ama il tuo sogno, Fandango), lo rende noto all’opinione pubblica, intervistato dalla stampa e invitato in trasmissioni televisive.
Da quel momento, Yvan decide di dedicarsi alla causa dei braccianti stranieri – le cui condizioni di lavoro soprattutto nel Mezzogiorno costituiscono senza dubbio una delle questioni sociali e politiche più drammaticamente rilevanti nell’Italia degli ultimi vent’anni – in particolare lavorando con la Flai-Cgil. Nell’ultimo anno e mezzo Yvan ha acquistato una grande conoscenza di questi fenomeni ed ha sperimentato appieno le tante contraddizioni del lavoro sindacale. Per questo la sua testimonianza è particolarmente interessante.
In primo luogo, le contraddizioni relative alla aperta sfiducia che si è creata, sin dall’esperienza della Masseria Boncuri, tra, da un lato, la Flai-Cgil e le sue articolazioni territoriali e, dall’altro lato, le molte associazioni che, in rete tra loro, supportano i braccianti stranieri nei vari territori dell’Italia meridionale: una distanza che impedisce ad oggi un lavoro comune.
In secondo luogo, le contraddizioni proprie di un’organizzazione sindacale come la Cgil (peraltro riconosciute dai migliori dei suoi esponenti), che rispetto alla difficilissima questione dei braccianti agricoli stranieri diventano ancor più evidenti: i ritardi nel comprendere i mutamenti avvenuti in questo settore del mondo del lavoro (già evidenziati nel 2008 da Alessandro Leogrande in Uomini e caporali, Mondadori); la distanza tra un’organizzazione di funzionari e i lavoratori che essa pretende di rappresentare; la mancanza di una nuova leva di operatori sindacali che emerga davvero dal mondo dei braccianti burkinabé, rumeni, tunisini, sudanesi (laddove proprio la componente bracciantile rappresentò la forza di questo sindacato nei suoi periodi migliori); l’assenza di una reale e vasta iniziativa in ambito strettamente sindacale, che non è colmata né dalle campagne lanciate in questi anni (da “Oro rosso” a “Stop al caporalato”), spesso di pura testimonianza o peggio di mera immagine, né dal supporto alle inchieste della magistratura, né dalle proposte legislative, pur in parte condivisibili.
In questo quadro è oggi preso Yvan Sagnet: da un lato, la sua visibilità pubblica aumenta, anche perché coinvolto dal suo sindacato in molte iniziative; dall’altro lato, il suo tentativo di riportare davvero la Flai nelle campagne e tra i braccianti incontra reazioni diverse, supportato dalla parte migliore di quel sindacato e contrastato da chi invece preferisce la tranquilla routine del funzionario. Con il rischio di trovarsi a vagare da solo per i campi. (Mimmo Perrotta)
di Yvan Sagnet. Incontro con Nicola Villa
Dal sogno alla realtà
Tra la realtà e il sogno vi è sempre una differenza enorme. L’Italia esercita un’attrattiva molto forte per chi viene dall’estero. Sebbene il mio paese, il Camerun, sia stato colonizzato dalla Francia, ed essendo di madrelingua francese avrei potuto scegliere proprio la Francia o l’Inghilterra, non ho avuto dubbi su quale paese avrei scelto. Il mio interesse verso questo paese è nato nel 1990, quando la nazionale camerunense di calcio ha partecipato al Mondiale italiano. Quando ne ho avuto l’occasione ho chiesto a mio padre il permesso di fare un’esperienza di studio in Italia perché in quegli anni avevo maturato una serie d’interessi – dal calcio, all’arte, alla storia – che mi spingevano qui.
Sono arrivato a Torino nel 2007 e il primo impatto, sia climatico che “sociale”, non è stato molto positivo. Sapevo che l’Europa era un continente a nord, ma non lo immaginavo così freddo. In primavera, a Torino, c’erano 18 gradi che per me sono, tuttora, una temperatura al limite della tollerabilità. Anche dal punto di vista tessuto sociale non mi aspettavo che la città fosse così “fredda”. Fino ad allora avevo considerato gli italiani come un popolo accogliente e caldo, eppure mi sono integrato con molta fatica. Ora mi trovo bene in questa città e sono entrato in contatto con una vivacità culturale nascosta, che non è immediatamente visibile. A poco a poco ho potuto sviluppare un’altra idea del paese che mi ospitava, trovando un equilibrio accettabile tra gli aspetti positivi e quelli negativi. E soprattutto ho messo a fuoco che non posso più tornare indietro. Tutto è cambiato nell’estate 2011 quando sono andato a Nardò per motivi di lavoro. Dovevo pagare le tasse universitarie e la borsa di studio non mi era sufficiente. Lì ho scoperto una realtà che non conoscevo, un’identità a me completamente sconosciuta del paese: il caporalato, la condizione di “schiavitù” a cui sono sottoposte migliaia di persone, l’anima miserabile del paese.
L’incontro tra chi sa e chi soffre
Credo che alla base dello sciopero che è scaturito nella Masseria Boncuri a Nardò nell’estate del 2011 ci sia stato l’incontro tra diverse categorie di gruppi. Tra noi vi era una parte di lavoratori che erano stanziali nel sud, la maggior parte sbarcata a Lampedusa, e un’altra di lavoratori stagionali che veniva dal nord. Questi ultimi avevano un livello di coscienza più alto, dal punto di vista dei diritti contrattuali. Alcuni di loro durante l’inverno avevano conosciuto contratti di lavoro regolare al nord, come era capitato anche a me.
Nella maggior parte dei casi gli stagionali sono lavoratori licenziati, che hanno conosciuto un certo livello di diritti e possono comprendere le soglie di sfruttamento. Questo contrasto tra i due gruppi ha portato a una riflessione generale tra noi. Non è stato semplice, perché c’era chi lo sciopero lo voleva e chi era totalmente contrario, tra questi ultimi soprattutto coloro che erano sprovvisti di permesso di soggiorno. Questa mescolanza di esperienze ha portato la riflessione sull’aspetto dei diritti del lavoro. Il sistema del caporalato si fonda sull’ignoranza dei diritti di cui godono i lavoratori ed espone a una condizione di ricattabilità da cui è difficilissimo sottrarsi. La maggior parte di loro non era a conoscenza del fatto che in Italia c’è una legge che li tutela. Quando si è parlato dei contratti collettivi nazionali per il lavoro agricolo secondo cui il vitto e l’alloggio sono a carico del datore di lavoro i braccianti erano a dir poco sorpresi ed entusiasti all’idea che potevano rivendicare molto di più che la misera contrattazione sugli spiccioli per il lavoro a cottimo.
Federazione dei lavoratori dell’agroindustria
Nonostante il caporalato pugliese sia diverso da quello calabrese e siciliano, ci sono poche differenze tra regione e regione. Quello calabrese è molto legato alla criminalità organizzata, ma per il resto ci sono aspetti molto simili. Come la paga, che nella maggior parte dei casi è a cottimo. Un bracciante che lavora nelle campagne pugliesi prende 3,5 euro per ogni cassone da 300 chili di pomodori raccolti, esattamente come in Calabria e Sicilia. È come se ci fosse un cartello che decide il prezzo uguale su tutto il territorio.
Dopo l’esperienza dello sciopero ho deciso di entrare nel sindacato Flai-Cgil per occuparmi della diffusione dei diritti tra i lavoratori e per ampliare la possibilità di intervento. Il sindacato ha una capacità nazionale, copre tutto il territorio e può intervenire in vario modo. Abbiamo messo in campo una strategia d’inchiesta e d’intervento, chiamata “Gli invisibili delle campagne di raccolta”. Da sempre il caporalato costruisce la sua forza sulla soppressione, in alcuni casi anche violenta, di ogni conflitto di tipo contrattuale. Girando le campagne italiane è molto facile constatare che la maggior parte dei braccianti non ha un contratto di lavoro regolare. Questi lavoratori non sono invisibili, è lo Stato a esserlo. È molto raro che in certe zone arrivino gli ispettori del lavoro.
I braccianti agricoli vivono in un totale isolamento, fisico e sociale. Si accampano nei pressi dei terreni in cui lavorano, distanti anche decine di chilometri dai centri abitati, senza alcun contatto con l’esterno. Per soddisfare qualunque bisogno primario, che sia farsi visitare all’ospedale o andare al supermercato, è necessario passare per i caporali. Sono stato ospite della Masseria Boncuri che si trova a venti minuti a piedi dal paese. Un lavoratore che torna alla sera, con una giornata di lavoro pesantissima sulle spalle, non può impiegare venti minuti all’andata e venti al ritorno solo per fare la spesa. La dipendenza dal caporale è strettamente collegata alla condizione di ricattabilità del lavoratore che diventa invisibile e completamente al di fuori di ogni rete sociale e di ogni spazio pubblico. Il lavoro di sindacalizzazione consiste prima di tutto nel far conoscere i diritti, offrire occasioni per imparare la lingua (in rete con le associazioni che si occupano dell’insegnamento dell’italiano), garantire presidi medici (attraverso il lavoro di associazioni come Emergency o Medici senza frontiere). La salute è un diritto fondamentale: a Rosarno se un caporale scopre che un lavoratore è stato all’ospedale gli impedisce di lavorare. In inverno in Calabria i lavoratori, vivendo in casolari senza luce acqua e gas, per riscaldarsi devono comprare le gomme dai caporali. Quando giungono in estate in Puglia, ultima tappa di una transumanza che li porta anche in Piemonte, hanno tutti problemi di intossicazione polmonare. Non esiste un sistema che tuteli i diritti di queste persone e le associazioni sostituiscono il vuoto lasciato dallo Stato.
Caporalato, lavoro nero, lavoro grigio
Ogni territorio cerca di occuparsi del problema, di contrastare il caporalato. In Puglia e nel Salento in particolare c’è stata un’operazione della magistratura che ha portato all’arresto di caporali e imprenditori. I veri colpevoli, lo ripetiamo spesso, sono i datori di lavoro. È un processo importante perché oggi sta cambiando lo scenario, oltre che i rapporti di forza. Lo Stato è complice delle imprese. L’appoggio offerto a ogni loro richiesta è imparagonabile al sostegno garantito ai lavoratori. Siamo in attesa della prossima stagione pugliese per capire cosa cambierà, ma segnali sono tutti molto negativi. Dopo lo sciopero di Boncuri del 2011, nell’estate del 2012 c’è stato un arretramento dei diritti, perché i datori di lavoro hanno voluto punire i lavoratori. La Masseria Boncuri è stata chiusa, con la scusa della crisi, una crisi che in realtà dura da anni e anni. L’anno in cui c’è stato lo sciopero per certi versi la crisi era ancora più forte. Quella masseria ha dato fastidio al “sistema” perché lì si sono accesi i riflettori dei media.
In altri territori il rapporto con le istituzioni è ancora più complesso. Nella piana di Gioia Tauro su 4mila aziende ve ne sono 5 che hanno il monopolio e i loro rappresentanti sono ex sindaci o ex assessori. Spesso ai tavoli istituzionali si siedono soggetti pubblici che dovrebbero essere imparziali e che invece incarnano interessi privati. Non scordiamoci cosa è successo dopo la rivolta di Rosarno, dove ora i lavoratori hanno paura di protestare. Ma la stessa cosa vale per Campania Sicilia e Piemonte perché il lavoro nero è una “questione” nazionale che non riguarda sacche di territori marginali. Stiamo parlando di 700mila lavoratori, più di mezzo milione di persone che sono state artigliate da quel sistema.
È stato pubblicato da poco il rapporto su Agromafie e caporalato della Flai-Cgil che fornisce molti dati interessanti e mostra anche quali sono, ad esempio, i prodotti che finiscono ogni giorno sulle nostre tavole sfruttando il lavoro dei braccianti. Questo può essere un buon modo per sensibilizzare l’opinione pubblica. Nell’edilizia c’è la presenza di un caporalato molto forte in Lombardia e Veneto. E sta raggiungendo dimensioni preoccupanti un altro fenomeno, il cosiddetto lavoro grigio, che è più difficile contrastare. Per “lavoro grigio” si intende la pratica per la quale i lavoratori stranieri raggiungono a fatica le giornate che gli consentono di prendere il sussidio di disoccupazione. Quando ad esempio si avvicinano a cinquanta giorni effettivamente lavorati, che è il minimo per poter ottenere il sussidio, il datore di lavoro dichiara dai tre ai cinque giorni lavorativi per non pagare i contributi. Il lavoro grigio è una cosa molto diffusa. Affrontare questo tipo di sfruttamento è molto complesso perché richiede la partecipazione individuale del lavoratore. L’unica strada per fare emergere il lavoro grigio è quella di incoraggiare il lavoratore a denunciare il datore di lavoro, ma è un passaggio tutt’altro che semplice.
Quella che stiamo affrontando è una battaglia durissima che si giocherà su tutti i fronti, sia su quello istituzionale e politico, che su quello “dal basso” portato avanti insieme ai lavoratori, su cui è necessario spendere maggiori energie. Dopo lo sciopero di Nardò, per la prima volta, sono venuti i datori di lavoro, non i caporali, a supplicarci di riprendere a lavorare. È stata la prima volta che si è vista in quei territori una forma di contrattazione. Mentre sui tavoli istituzionali le imprese sono troppo forti, con la battaglia sul campo è possibile ottenere di più.
Oltre le strumentalizzazioni
Dopo lo sciopero del 2011 ho ricevuto diverse minacce di morte, ma questo è il prezzo da pagare alla personalizzazione che ha preso quella battaglia. La lotta di Nardò è partita all’unanimità tra noi lavoratori e abbiamo tenuto duro nonostante facessero ogni cosa per distruggerci e dividerci. Ho dovuto respingere le bugie che iniziavano a circolare, ad esempio che facevo tutto per soldi o che rilasciavo interviste in cambio di denaro. Tutte queste cose ci hanno fatto riflettere e abbiamo cambiato strategia, coinvolgendo rappresentanti di tutte le nazionalità per mantenere un certo equilibrio nell’organizzazione della protesta. I giornalisti non ci hanno aiutato: volevano parlare sempre con due o tre di noi, perché in questo paese, a tutti i livelli, vige la cultura della personalizzazione della politica. I caporali hanno avuto gioco facile ad accusarmi. Le associazioni che erano presenti sono state strumentalizzate a loro volta, così come il sindacato. Come racconto nel libro Ama il tuo sogno. Vita e rivolta nella terra dell’oro rosso (Fandango, 2012), mi sono ritrovato in mezzo a una situazione difficile, tra il mondo dell’associazionismo e il mondo sindacale che si lanciavano accuse a vicenda. Noi lavoratori ci siamo trovati spesso in mezzo a conflitti che faticavamo a comprendere. A un certo momento sono dovuto andare via: quando sono stati i miei amici ad accusarmi non sono riuscito più a reggere psicologicamente la situazione. La cosa più importante per me erano e sono i lavoratori e alla fine è stato fondamentale che anche loro abbiano riconosciuto il mio impegno.
È necessario che la battaglia vada avanti nonostante le sconfitte. Diciamo spesso che ognuno di noi può fare la differenza e che non bisogna aspettare un aiuto esterno per cambiare, un pezzo alla volta, l’organizzazione del lavoro. La condizione generale dei diritti in questo paese è molto peggiorata ed è urgente cercare di porre qualche argine a un sistema nel quale il lavoratore è sempre più ricattabile. Per ogni singolo aspetto del problema è necessario che ognuno esca dall’isolamento e cerchi un modo per portare avanti la rivendicazione.
Vorrei lanciare un appello al mondo dell’associazionismo. Ho incontrato tante associazioni che in Italia operano nel settore dell’immigrazione e anche io vengo da esperienze che hanno portato a dei risultati grazie alla presenza e al lavoro di alcune di queste associazioni. In questa lotta, però, non è possibile adottare strategie fondate solo dall’assistenzialismo. Bisogna portare la battaglia sul campo dei diritti. Non si tratta solo di dare il pane, le coperte, il latte. È necessario prima di tutto informare i lavoratori sui propri diritti, perché solo così è possibile uscire dallo stato di dipendenza. D’altro canto però, il sindacato deve smettere di “fare burocrazia” e riavvicinarsi ai lavoratori. Se questa situazione di sfruttamento è arrivata a livelli inimmaginabili è anche responsabilità del sindacato. La battaglia si fa sempre nei luoghi di lavoro e insieme ai lavoratori.