Un giornale per i piccoli. Un’esperienza napoletana
Caro Goffredo, peggio di un brutto giornale, di un brutto spettacolo, di una brutta mostra d’arte c’è forse solo un brutto giornale, un brutto spettacolo, una brutta mostra d’arte che gli autori “adulti” “sani” e “bianchi” tentano di far passare per lavoro fatto “dai bambini”, “dai matti”, “dai migranti”… Penso che al brutto in questi casi si aggiunga l’abominio. Siamo anche noi convinti che una volta che l’opera si separa da chi l’ha fatta e viene proposta come “prodotto” non c’è altro che la bontà del prodotto stesso per attestarne la qualità. Come se qualcuno volesse convincerti a mangiare una mela che fa schifo motivando la sua offerta con il fatto che l’albero che l’ha generata, poverino, ha passato un sacco di guai. Il mondo dei bambini strasborda di maestre e maestri, educatori e pseudoartisti frustrati che ci riprovano, costringendo ogni anno migliaia (forse milioni?) di bambini e adulti a prendere parte a percorsi e prodotti assimilabili più alla tortura che all’arte, cercando in suffissi del tipo “etti”, “ini” e soprattutto dietro al “l’hanno fatto loro” il lasciapassare per un mai arrivato successo personale. Questi percorsi “creativi” penso possano fare molti più danni di una normale lezione frontale, avendo implicazioni più profonde perché legate a narcisismo e emozioni. Mi rammarico se da questo incipit emerge un po’ di astio, perché le lunghe giornate da alunno, genitore, maestro, educatore passate a sopportare recitine, lavoretti, giornalini, eccetera… meriterebbero ben altra furia distruttrice. Ovviamente vanno fatte salve le vere eccezioni, quelle in cui il prodotto può davvero permettersi di non avere niente a che fare con i criteri utilizzati abitualmente.
Anche noi del Mammut facciamo un giornale “con” i bambini, e avendolo messo in circolazione come “prodotto” rientriamo pienamente tra quelli condannabili per crimini contro la bambinità, senza appello. Sapendo bene quanto sia difficile e quanto siamo ancora lontani da un giornale di pregio.
Il “Barrito” è nato dieci anni fa, assieme al Centro territoriale Mammut che è un progetto di ricerca azione nazionale con sede a Scampia, con lo scopo di migliorare scuola e città assieme. Attorno a domande come questa (come fare un prodotto che non danneggi il percorso e viceversa) andiamo invece arrovellandoci da molto più tempo. Dallo “Straniero” e da quel filone di fare scrittura, abbiamo imparato la possibilità che una rivista ha di farsi puntello di comunità, fornace dove far prendere forma a valori, pensieri, spinte etiche e materiali, a relazioni non superficiali tra distanti. Quello che ci si aspetterebbe da Università e affini noi lo abbiamo trovato in quella rivista. E quando ha preso forma il Centro di Scampia (organizzativamente, come sede, come rete) ci è venuto immediato far corrispondere a tanta azione un “luogo” dove raccogliere riflessione e crescita, anche con chi non potevamo avere contatti diretti ogni giorno eppure partecipava alla stessa ricerca avviata insieme.
L’indispensabile andirivieni tra pratica e teoria (fondamento di tutti i nostri autori di riferimento come Dewey, Lewin, Malinowsky) ci ha portato a raccogliere i materiali teorici trovati o prodotti lungo il percorso da maestri e educatori nelle pubblicazioni periodiche come il “Barrito”, o anche in libroni più o meno corposi. È questa tensione itinerante tra pensiero e azione che ci ha probabilmente permesso di vivere ancora. Se da una parte la spinta all’azione nasceva dal voler uscire dalla propria celletta del privato edeglialtrichisenefrega, quella alla pubblicazione di materiali teorici ci è venuta dalla voglia di evadere dall’orticello, di condividere fatiche e conquiste con quante più persone interessate possibili. Dar vita cioè a “prodotti” buoni anche per chi per il nostro Mammut non nutriva alcuna simpatia. In entrambi i casi – cioè tanto per le azioni realizzate quanto per le teorizzazioni pubblicate (ma anche per le mostre, i video e gli spettacoli teatrali realizzati in questi anni come Mammut) non sappiamo quanto siano davvero nate da generosità autentica e quanto invece fossero frutto di nostre frustrazioni e turbe interiori. Probabilmente un po’ e un po’, come sempre accade. E in ogni caso, al di là delle curiosità di natura psicologica (pratica a cui abbiamo costantemente ricorso per tenare di mantenere un minimo di lucidità sulla questione), l’unico vero metro è quanto le nostre azioni e le nostre teorizzazioni siano state utili agli altri e non a noi soltanto. Per non cantarcela e suonarcela da soli, abbiamo cercato di capirlo ricorrendo anche stavolta a strumenti della ricerca azione, dando conto dei riscontri nelle pubblicazioni stesse. Ma il dubbio resta legittimo, non credendo noi nell’oggettività, specie in questo ambito.
Il “Barrito” nasceva come giornale per grandi e piccoli, per gli educatori che partecipavano alla ricerca Mammut e per i bambini che ci partecipavano ugualmente ma dai banchi di scuola o di altri centri educativi come il nostro. Dopo alcuni anni di pausa (in cui, per mancanza di fondi, a stento abbiamo avuto la forza di portare avanti le tante azioni messe in campo tra Scampia e il resto d’Italia) abbiamo deciso di riavviare la pubblicazione del giornale per bambini, convinti che ce ne fosse davvero bisogno e possibilità. Ancora una volta a spingerci è stata l’idea che dietro a un prodotto sia possibile attivare processi altrimenti insperati.
Molto del nostro lavoro è stato finalizzato a stanare, mettere in contatto, alimentare e rivitalizzare quei barlumi di vita ancora presenti in scuole e associazioni. Il “Mito del Mammut” è stato il primo di questi tentativi. Nove anni di seguito è durato il gioco a molte tappe che coinvolgeva per l’intero anno scolastico scuole e associazioni, dove maestre e alunni dovevano affrontare il più in autonomia possibile prove relative alla scuola attiva, per poi incontrarsi tutti insieme per una caccia al tesoro nella piazza Giovanni Paolo II di Scampia. La piazza in cui prima che il nostro Centro vi prendesse sede, esistevano solo fiumi di sangue e siringhe e gente che veniva a farsi dal Lazio alla Calabria. Se il “Barrito” dei grandi era lo strumento di comunità per gli educatori e i maestri che prendevano parte alla ricerca degli adulti, il “Barrito dei piccoli” raccoglieva materiali, vissuti e rielaborazioni lasciate e raccolte con i bambini durante l’anno di Gioco. Uno strumento per fare comunità, in entrambi i casi.
Il “Mito” è riuscito a sdoganare la piazza ripulendone l’immaginario di quartiere e oggi piazza Giovanni Paolo II – non è certo piazza di Spagna ma – è una normale piazza di periferia, consentendo contemporaneamente alle varie sperimentazioni attivate nelle scuole di Scampia di radicarsi. Agli esordi il “Barrito”, nella sua parte bambini, aveva il solo scopo di fare da collegamento tra quelli che partecipavano al gioco, con una dignità grafica e vesti editoriali meno scolastiche possibili. Ma non era un prodotto, nel senso che non aveva la pretesa di essere appetibile per chi non avesse preso parte al percorso generante.
Se dietro alla rivista/comunità c’era Goffredo e il suo Straniero, dietro all’idea di un giornale a scuola c’era tutta la potenza delle sperimentazioni di maestri fondatori come Freinet e poi Lodi ei molti altri dell’Mce e non.
Il tentativo di avvicinare la vita alla scuola, di fare dei bambini cittadini di oggi pienamente titolari dei diritti politici e culturali, di far diventare la vita scrittura, matematica, geografia, storia, arte e viceversa (nell’ottica di quell’andirivieni di cui sopra) sono solo alcune delle possibilità comprovate con quelle sperimentazioni. Fare integrazione non da politicanti e predicatori, ma a partire dal ricondurre a unità bambino e adulto, animale e essere razionale, scritto/lettura e esperienza reale, vita in famiglia e vita a scuola, emozione e ragione, il mostro cattivo che cresce assieme al bravo bambino sono altre di queste possibilità provate dai giornali di Freinet. Una volta avviato il lavoro su questa integrazione viene più facile l’incontro con rom, africani, rumeni e addirittura con chi abita in un’altra parte di città. E sì perché oggi sembra essere proprio questa la sfida principale, e in città come Napoli ancora di più. Come fare incontrare le distantissime città? Oggi più che mai la forbice tra chi può permettersi scuole decenti e extrascuole non c’è male e chi invece è condannato alla lobotomizzazione sin dalla primissima infanzia – senza nemmeno più poter contare sulla strada – è diventata abissale.
Freinet e altri come lui avevano scoperto che nella corrispondenza con coetanei di altre città, nella comunicazione con l’altro distante, poteva esserci una molla fortissima anche per imparare e migliorare le abilità scolastiche, a partire da lettura e scrittura. La tipografia di classe e il giornale murale ci sono stati tramandati come strumenti impareggiabili rispetto a ognuno dei punti di lavoro elencati sopra. Ed è questo che abbiamo cercato di fare in questi anni con il nostro giornale “con” i bambini, trovando sempre una conferma strabiliante sull’attualità e grande efficacia di questi strumenti. Con i “ricchi” quanto con i “poveri” e molto meglio di voti, castighi, punizioni e tecnologie sofisticate.
Da un anno a questa parte abbiamo tentato di fare il salto. A partire dalla considerazione che dovevamo prenderci più responsabilità come Mammut nell’intervenire su questioni che riguardano scuola e città, anche a prescindere dalle azioni messe in campo, abbiamo tentato di far diventare il “Barrito” anche un prodotto. Qualcosa cioè capace di interessare direttamente (ovvero senza la mediazione di adulti né di amatori del Mammut) i bambini. È nato così il “Barrito dei piccoli”. E se la potenza del mezzo giornale si è a dir poco triplicata per l’efficacia rispetto alle varie sperimentazioni nelle scuole, sulla bontà del prodotto non riusciamo ancora a dire molto. Di fronte alle facce sbalordite e felici dei bambini redattori che ne ricevono una copia fresca di stampa non riusciamo a mantenere il distacco necessario.
Di sicuro si è rivelato uno strumento molto utile rispetto allo scopo principale di fare comunità e cercare nuovi alleati. Lo scorso anno, in occasione del decennale del Mammut, abbiamo girato più di venti tra associazioni e scuole sparse tra Napoli e altre città della Campania. È stato per noi un modo di fare inchiesta, intercettare forze amiche ma anche per far crescere le basi di sperimentazione pedagogica. Molti di questi luoghi erano presidio dei centri sociali occupati nati in questi anni a Napoli, ma anche di scuole come quella di Casoria e comitati di quartiere come “Città Viva” a Caserta. In ognuno di questi spazi recuperati siamo andati con il Mammutbus e i suo giochi di strada a fare racconti e fondare “tane” (così si chiamano gli scatoloni/cassette della posta dove i bambini che frequentano quelle scuole e quei centri possono depositare i propri racconti/articoli per il “Barrito dei piccoli”). A partire da giochi, riti e un racconto teatrale di miti antichi per scaldare gli animi, a ciascuno dei luoghi visitati abbiamo proposto di dare vita a un giornale murale e di prendere parte al lavoro collettivo, anche e soprattutto a partire dalla messa in discussione e formazione degli adulti. Modi e strumenti affinati durante gli anni del gioco del “Mito del Mammut” sono diventati quelli di questo giro di fondazione del “Barrito del Mammut”. Lo sfondo integratore di animali bestiali prima e intergalattici poi, l’inchiesta di territorio, le campagne (come quella “risvegliamoci in cortile” finalizzata alla riappropriazione degli spazi aperti interni alle scuole quasi mai utilizzati dai bambini a Napoli) e le tante rubriche come i concorsi, le barzellette, i quiz, eccetera. hanno trovato spazio piano piano all’interno del giornale. Con poche regole chiave, alcune più etiche (tentare di non manipolare i bambini), altre più pratiche (vietati i falsi infantilismi). Come sul primo “Barrito”, quello rivolto ai grandi, anche su questo trovano spazio i frutti del percorso fatto insieme ai bambini che ci sembrano utili anche per chi non c’era. Nella scuola che vorremmo e che proponiamo, tutto parte dal cerchio degli alunni, dalle loro domande e curiosità (magari a seguito di una suggestione degli adulti). Il percorso di ricerca e sperimentazioni che ne segue è appunto la scuola che vorremo. Ed è qua che il gioco si fa difficile per il ruolo del maestro che dovrebbe riuscire a farsi sollecitatore, guida ed ermeneuta, custode del gruppo e delle sue regole, ma attento a non mettersi mai al “posto di”, capace di controllare la sua indole di fabbricatore di risposte preconfezionate e infarcitore di teste altrui, sacerdote della terribile idea di insegnare a vivere a qualcun altro. In questi anni di sperimentazione abbiamo capito che il peggior nemico del cerchio è il maestro in ansia di prestazione perché incallito nella sua incrollabile maestritudine. Ed è proprio in questo cerchio che i bambini scelgono gli articoli per il “Barrito”, dopo averne discusso, con le parole ma anche con il gioco teatrale e altri linguaggi. Quando il cerchio riesce nascono ragionamenti e scambi altissimi, dove il primo che potrebbe imparare qualcosa è il maestro, fuori da ogni retorica. Nascono nuove domande e la necessità di materiali di approfondimento. Attorno alle domande del cerchio dei bambini del V circolo di Scampia su come sia possibile che un pinguino reale maschio (che è un uccello per di più) possa allattare i propri cuccioli, chiediamo a Yasmine Accardo, tra l’altro veterinaria appassionata, di venire a farsi una chiacchierata con i bambini. Ne nasce una discussione interessantissima sulla genitorialità, sui ruoli tra sessi e sulla cura. La maestra Rossana Sanges ne fa uscire vari pezzi per il giornale murale della sua classe, e la discussione finisce sul secondo numero del “Barrito dei piccoli”. Così come a partire dalle domande su buchi neri e anni luce creiamo un contatto tra quella classe un il fisico della luce Thomas Strauss, attivista dell’Opg “Je so’ pazzo” (centro sociale occupato) e il dialogo diventa un pezzo molto lucido sul numero tre della rivista. In una delle mattinate più incredibile a cui abbia assistito, siamo stati organizzatori di uno scambio senza parole tra il maestro d’arte Riccardo Dalisi e gli alunni di una delle terze elementari, da cui sono nati disegni e sculture destinate ad abbellire le loro aule e poi pubblicati sul “Barrito”. In un’altra mattina chiamiamo Luca Mori, docente universitario di Pisa, da tempo impegnato in una sperimentazione chiamata “Il gioco delle 100 utopie” a incontrarsi con le classi quarte della scuola elementare cianquattotesesimo circolo di Monterosa, dove la maestra Carmela De Lucia porta da tempo avanti insieme al Mammut sperimentazioni legate alla filosofia con i bambini. Nasce così la rubrica enigmi di filosofia, curata appunto da Luca Mori. Molti altri sono gli intrecci per noi fonte di grande soddisfazione, anche perché fuori da ogni logica del progettificio, nati davvero a contatto con la necessità/possibilità del momento. Nelle mie classi seconde molti dei bambini hanno preso a chiedermi con insistenza cosa fossero tutti quegli attentati di cui sentivano parlare in televisione. Ci abbiamo parlato e lavorato a lungo. Ma l’articolo chiesto a Domenico Chirico (direttore dell’ong Un ponte per…), pubblicato sul terzo numero della rivista ha chiarito molto le cose a me per primo.
C’è talmente tanto di vita e di scoperte e di fatica e di felicità che per noi è davvero difficile capire quanto buono sia il nostro prodotto.
Una delle principali criticità è che per fare un buon giornale c’è bisogno di professionisti che si mettano a farlo, possibilmente dietro un equo compenso. E oltre ai costi di stampa e a quelli per la grafica, non abbiamo soldi da destinare alle figure che generalmente si trovano in una redazione di giornale. Forse non solo per mancanza di soldi (chi si azzarderebbe a finanziare un giornale come il nostro oggi! Su carta poi), ma perché per noi è sempre stata chiara la necessità di assicurare l’assoluta preponderanza della pratica, delle azioni, dare centralità a questa sfera piuttosto che all’altra. Tuttavia questo è un grave limite per un giornale che voglia considerarsi prodotto. A partire dalla distribuzione, che abbiamo curato noi direttamente mettendo insieme una rete di piccole librerie su scala nazionale, visto che nessun distributore ci ha nemmeno preso in considerazione.
Professionisti in redazione ne servirebbero soprattutto riguardo a grafica, immagini e illustrazioni. E per questo la mancanza di soldi è davvero un gran problema (soprattutto perché ci chiediamo da sempre quanto sia giusto non pagare qualcuno per il lavoro con cui campa). Abbiamo tentato in molti modi di invitare a collaborare fumettisti, scrittori e altri che sarebbero capaci di alzare di tanto la qualità del nostro giornale. Convinti di quanto possa davvero essere utile e potente il confronto diretto con i bambini. Ma al momento pochi hanno voluto accettare la sfida con generosità, tra questi gli studenti della scuola italiana del fumetto di Comix e dell’Accademia di belle arti di Napoli. Nella nostra idea anche loro farebbero parte del progetto di avvicinare mondi distanti, oltre che centro e periferia, studenti dell’università – sempre più abituati a (non) entrare in contratto con la realtà attraverso la tecnologia e nel chiuso di un’aula – e quelli delle scuole per piccoli. Per il momento l’incontro è stato molto bello, almeno per quanto riguarda il percorso. Come molto fertile è stato l’ormai consolidato scambio con gli studenti della scuola di italiano per migranti di Modena (della cooperativa Caleidos), che all’interno del loro percorso partecipano al lavoro di redazione del “Barrito dei piccoli” con racconti e immagini preziose. Durante l’anno si sono aggiunti molti bambini “diversi”, anche quelli di scuole considerate per “ricchi”. E vedere quanto un giornale e il suo modo di farlo possa essere bello ed efficace senza differenza di ceto e provenienza geografica è molto importante per noi. Rimanendo quello dello scorso anno ovviamente solo l’inizio di uno dei tanti tentativi a cui abbiamo scoperto il modo di partecipare anche noi per avvicinare mondi apparentemente inincontrabili.
Sarebbe molto bello se in questo picaresco arcipelago che sta prendendo forma attorno al “Barrito dei piccoli” volessero cominciare a navigare anche adulti capaci di parlare direttamente ai bambini, attraverso linguaggi introvabili sui libri di scuola, televisioni, videogiochi o a spippate intellettuali senza corpo.