Turismo, lavoro sfruttato e l’impossibile “sviluppo”

Negli ultimi anni al turismo in Italia (così come in altri paesi) è stato affidato un ruolo centrale nei discorsi sullo sviluppo e sulla crescita economica, ruolo che è cresciuto di pari passo con l’evidente processo di ridimensionamento industriale e di arretramento dell’Italia all’interno della divisione internazionale del lavoro. In questo contesto è stata chiara la volontà politica, registrata a tutti i livelli amministrativi, di fare del turismo un (e probabilmente il maggiore) volano dello sviluppo del paese.
A sorreggere tale scelta vi è in primo luogo il corredo di dati statistici che accompagnano i discorsi di promozione del turismo. L’effetto positivo sui conti economici e il moltiplicatore occupazionale formano quel substrato materiale che spinge le classi dirigenti, gli attori economici e parte della cittadinanza a scorgere proprio nel turismo l’orizzonte verso cui navigare. Inoltre, il turismo è un’attività produttiva capace di muoversi trasversalmente nella geografia delle specializzazioni produttive e nella divisione internazionale e nazionale del lavoro, fissandosi tanto in aree povere quanto in quelle economicamente più ricche. L’adattabilità spaziale alle diverse situazioni contingenti permette, a sua volta, che il turismo venga concepito come un abito buono per tutte le stagioni, una medicina capace di curare buona parte dei malanni dell’economia: se per le aree economicamente fragili esso si presenta come una strada che assicura una scontata crescita economica e occupazionale, per le aree più ricche il turismo è spesso ritenuto la panacea della deindustrializzazione.
C’è infine una terza ragione. È quel presentarsi del turismo come un’attività alla portata di tutti, siano essi lavoratori, aspiranti imprenditori o classi dirigenti. Per i primi, l’occupazione nel turismo è un rifugio e una praticabile alternativa alla disoccupazione. Per i secondi, basti considerare le opportunità che offre il turismo di messa a valore del patrimonio (immobiliare) nel segmento extralberghiero, dai b&b agli appartamenti a uso turistico. Per le classi dirigenti e amministrative, invece, attirare turisti è diventato una sorta di imperativo morale e politico. L’ampio e diffuso patrimonio storico, culturale e ambientale italiano non ha solo puntellato la convinzione secondo la quale “potremmo vivere solo di turismo”, ma contribuisce a esercitare pressioni sulle classi dirigenti. La capacità di mettere a valore questo “capitale turistico”, cioè di mercificare storia, tradizioni, cultura e natura, è diventata il terreno di misurazione delle abilità di azione politica e delle competenze di governo.
In questo contesto, la pandemia da Covid-19 è stata come l’ago che punge la bolla. I dati non lasciano spazi all’interpretazione: 59% in meno di presenze turistiche complessive e meno 70% delle presenze turistiche straniere (Federalberghi, “Barometro del turismo – IV trimestre 2020”). Secondo una stima dell’Istat (“Movimento turistico in Italia”, 2020), circa un terzo della perdita del Pil italiano nel corso del 2020 sarebbe da attribuire proprio alla crisi del turismo, specie alla riduzione del flusso internazionale. Una crisi devastante, quindi, che colpisce il comparto produttivo su cui l’Italia ha puntato buona parte delle scommesse sulla sua crescita.
Non sto sostenendo che questa crisi, a differenze delle precedenti, non possa essere superata. La questione, infatti, non è la singola crisi, anche se questa ha avuto un impatto non paragonabile alle precedenti. Il problema è che il turismo subisce per primo, con maggiore intensità e con durata maggiore, gli effetti di circostanze incontrollabili che emergono sia dentro sia fuori il circuito economico. Eventi su cui spesso si ha nessuna o poca influenza: dagli attentati terroristici alla pandemia, passando per le catastrofi ambientali e politiche. Finanche una situazione di prolungato maltempo ha effetti significativi sul turismo.
L’attuale crisi del turismo dovrebbe quantomeno stimolare un dibattito serio, che vada oltre gli slogan e che provi ad affrontare, fin dall’inizio, degli interrogativi finora non sollevati: può davvero un’attività così sensibile a eventi incontrollabili, anche di lieve entità, costituire una delle principali vie di sviluppo nazionale o di singole aree? Sono davvero le virtù economiche e occupazionali del turismo a renderlo così strategico e irrinunciabile nel disegno (ammesso che ne esista uno) dello sviluppo italiano? O è piuttosto il fatto che il turismo sopperisce all’incapacità di immaginare e perseguire vie alternative (e possibilmente non monocolturali) di sviluppo endogeno? Che tipo di condizioni di vita, di reddito, di lavoro e di sviluppo umano può garantire un’economia fondata sul turismo?
Vediamo alcuni dati, in particolare relativi alla qualità del lavoro nel settore turistico. Come si è sostenuto, il turismo ha un peso importante nell’economia italiana. Anche se di difficile misurazione, secondo la Banca D’Italia (“Turismo in Italia: i numeri e potenziale di sviluppo”, Occasional paper n. 505, 2019) le attività del turismo hanno inciso direttamente per il 5% del Pil nazionale (circa 100 miliardi); valore che sale a oltre il 13% (260 miliardi circa) se si considera il corredo delle attività legate al fenomeno turistico. Sul fronte della struttura produttiva, nel 2019, secondo i dati del XII rapporto dell’Osservatorio sul mercato del lavoro nel turismo dell’Ente bilaterale nazionale del turismo (Ebnt) e della Federazione pubblici esercizi (Fipe-Confcommercio), le aziende attive nel comparto turistico erano circa 200 mila.
Tuttavia, scrutando dentro la macroscopica struttura turistica si può portare alla luce più di una criticità. In primo luogo, pur essendo il turismo più volte evocato come “il petrolio del mezzogiorno”, la sua distribuzione territoriale marca perfettamente la linea delle persistenti disuguaglianze tra nord e sud del paese. Basti pensare che, come mostra il rapporto Istat sopra citato, solo poco più del 20% dei turisti internazionali che arrivano in Italia scelgono le regioni meridionali. Se di petrolio si tratta, insomma, resta ben nascosto nelle viscere della terra.
In secondo luogo, le unità produttive del turismo tendono a riflettere – estremizzandole – le tradizionali problematiche della struttura aziendale italiana, in particolare quelle dimensionali (e sociali): il 93% sono microimprese (da uno a quattro addetti) (Istat, “Risultati economici delle imprese”, dati del 2018). Inoltre, la persistente refrattarietà agli investimenti di natura tecnologica e organizzativa e la scarsa incidenza degli investimenti per addetto, fanno del turismo uno dei settori a più bassa produttività e a più basso valore aggiunto nel panorama produttivo italiano: un report della Banca d’Italia (“Tourism and local growth in Italy”, Occasional paper n. 509, 2019), mettendo assieme i dati raccolti tra il 1997 e il 2014, ha dimostrato come un aumento della spesa dei turisti del 10% in dieci anni generi complessivamente un aumento più che contenuto sul Pil nello stesso periodo (0,2%), sebbene questo impatto migliori leggermente nelle aree che partono da condizioni più svantaggiate.
Le numerosissime imprese che sorreggono il gigante turismo, pur richiedendo e consumando enormi quantità di risorse (anche in termini ambientali e di impatto ecologico, ma questa è un’altra storia), registrano performance economiche tutt’altro che entusiasmanti.
Le numerosissime imprese che sorreggono il gigante turismo, pur richiedendo e consumando enormi quantità di risorse (anche in termini ambientali e di impatto ecologico, ma questa è un’altra storia), registrano performance economiche tutt’altro che entusiasmanti. D’altro canto, però, con un pizzico di realismo bisognerebbe anche ammettere che allo stato attuale, in molte parti d’Italia, il turismo diventa un’alternativa all’inattività e alla disoccupazione.
Quest’ultimo aspetto richiede tuttavia una più attenta disamina. Sappiamo che la promozione del turismo come volano di sviluppo si nutre di una particolare retorica positiva sugli effetti che esso ha sull’occupazione e sulla sua capacità di “attivare” alcune categorie che scontano maggiori difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro (le donne, i migranti e i giovani). Leggendo ancora il XII rapporto dell’Osservatorio sul mercato del lavoro nel turismo, in effetti al turismo sono direttamente attribuibili circa il 6% degli occupati italiani (mediamente 1,3 milioni, che diventano, secondo alcune stime, 3,5 milioni considerando l’indotto). Anche in questo caso, l’impressione è che i grandi numeri contribuiscano a nascondere alcune fragilità.
Il primo elemento da segnalare è relativo all’incidenza del lavoro stagionale. La stagionalità è stata individuata come la principale caratteristica regolativa dei mercati del lavoro turistici e come la condizione che incide maggiormente, in senso negativo, sulla struttura occupazionale e contrattuale: nel 2019 il 42% degli occupati totali del turismo aveva un contratto di lavoro a tempo determinato (incluso il contratto di lavoro stagionale che pesa per il 14% dell’occupazione complessiva) e ben l’11% degli occupati avevano un contratto intermittente. Il secondo elemento si riferisce invece al tempo di lavoro: nel 2019 la maggioranza assoluta degli occupati (53%) lavorava a tempo parziale. L’ultimo dato statistico riguarda le qualifiche e l’inquadramento dei lavoratori: anche su questo fronte la situazione appare critica, poiché l’82% degli occupati è inquadrato come operaio (a fronte del 54% della media nel mercato del lavoro nazionale), il 10% come impiegato (sono il 37% nel mercato del lavoro nazionale) e l’8% come apprendista. I quadri sono solo lo 0,4% e i dirigenti sono più unici che rari: solo lo 0,06% (790 unità). Per dare una misura concreta, si consideri che nel turismo c’è un quadro ogni 40 aziende e ogni 250 dipendenti e un dirigente ogni 253 aziende e ogni 1650 dipendenti. Non occorre ammorbare il lettore con i calcoli delle probabilità di crescita professionale, se non per segnalare come le ridottissime opportunità di carriera e il bisogno di affrancarsi da condizioni di lavoro spesso degradanti hanno come esito un’elevata propensione all’autoimprenditorialità degli ex lavoratori dipendenti del turismo.
Per quanto concerne la supposta capacità del turismo di creare occupazione per i soggetti che scontano maggiori difficoltà e discriminazioni nel mercato del lavoro, come donne e migranti, è invece necessario soffermarci su due aspetti. Il turismo in Italia è un settore con un’elevata presenza di lavoratrici (53% in media), di giovani (il 60% dei lavoratori dipendenti ha meno di 40 anni) e migranti (il 25%). Tuttavia, fatta salva la presenza di giovani lavoratori, la distribuzione territoriale di lavoratrici e/o migranti sembra essere influenzata dalle condizioni strutturali dei mercati locali del lavoro. In effetti, proprio nelle aree dove queste categorie di lavoratori scontano maggiori difficoltà occupazionali (nelle regioni meridionali), la loro presenza nel turismo è significativamente inferiore rispetto alla media nazionale.
Nondimeno, anche dove la promessa di impiego di categorie più svantaggiate è rispettata, spesso i contratti di lavoro con cui le stesse sono occupate, le mansioni che svolgono e l’inquadramento attribuito sono influenzati sia dalle strutture di segmentazione e discriminazione (di genere, di nazionalità e di colore della pelle) che caratterizzano i mercati del lavoro sia da alcune caratteristiche proprie del lavoro nel turismo. Le lavoratrici, per esempio, pur essendo maggioranza complessiva nel settore in Italia, sono il 36% dei quadri e solo il 21% dei dirigenti.
Ma è probabilmente sul versante delle condizioni di lavoro che possiamo rintracciare la principale problematica del turismo. Orari antisociali (i lavoratori del turismo lavorano quando gli altri sono a riposo), condizioni di flessibilità estrema, saltuarietà dell’impiego, irregolarità, lavoro nero e informale, precarietà, bassi salari, orari che eccedono il massimo consentito dalle legislazioni nazionali, intensità di ritmi e di carichi di lavoro, infortuni, sviluppo di malattie lavoro-correlate e scarse tutele sindacali sono solo alcune delle criticità largamente diffuse che accompagnano l’occupazione turistica in giro per il mondo. Le gravi condizioni di sfruttamento che presenta il turismo sono state più volte denunciate da agenzie internazionali quali l’International Labour Organization (ILO), che proprio al turismo ha dedicato numerosi studi e raccomandazioni nel tentativo di promuovere il cosiddetto “lavoro decente” soprattutto nei paesi più poveri (UNWTO, ILO, “Measuring Employment in the Tourism Industries”, Ginevra, 2014). Tuttavia, dinamiche simili sono state osservate ripetutamente anche nei paesi tardo-capitalistici e ad alto reddito, inclusa l’Italia, a iniziare dalla cosiddetta questione salariale. Da uno studio dell’Osservatorio Jobpricing, ripreso da Repubblica (“Turismo, poca professionalità: ecco perché gli stipendi sono bassi”, 31 agosto 2019), si può osservare come la retribuzione annua lorda per i dipendenti del comparto hotel, bar e ristorazione (poco più di 23mila euro) sia tra le più basse censite dall’osservatorio, molto inferiore alla media nazionale (29mila euro). Queste stime, inoltre, non sono in grado di restituire pienamente la misura delle condizioni di lavoro e salariali nel turismo, poiché una quota rilevante dell’occupazione sfugge dalla contabilità ufficiale in quanto irregolare. A certificarlo sono i report annuali dell’Ispettorato del lavoro: nel report che fa riferimento al 2020, nonostante la sospensione delle attività turistiche dei primi mesi e la ripartenza a ranghi ridotti nel periodo estivo, si può notare come le attività di alloggio e ristorazione presentino la più elevata percentuale di irregolarità (73%), calcolata sul numero delle ispezioni effettuate (“Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale, anno 2020”).
L’Ispettorato sottolinea come sia l’occupazione stagionale a essere maggiormente esposta a fenomeni irregolari e distorsivi. Le condizioni di lavoro nelle località stagionali sono significativamente peggiori rispetto alle aree dove il turismo ha un’estensione temporale più lunga nel corso dell’anno, sebbene anche in queste non siano per nulla rari fenomeni di precarizzazione e intensificazione del lavoro (ho analizzato per esempio il lavoro nel settore turistico a Venezia nel libro Assemblare le differenze. Il lavoro nell’industria alberghiera veneziana, Guerini 2021). Alcuni anni fa, nella riviera romagnola, a seguito di alcune mobilitazioni di lavoratori e lavoratrici supportati dai sindacati di base, alcune inchieste giornalistiche e accademiche documentarono la presenza diffusa di forme di grave sfruttamento lavorativo ai danni di lavoratori e soprattutto lavoratici migranti provenienti dai paesi dell’Est Europa, spesso assunte da agenzie di lavoro transazionali. Le stesse inchieste hanno dimostrato come le forti pressioni esercitate dalla concorrenza locale, nazionale internazionale sulle località balneari e sulle strutture ricettive, insieme alla trasformazione del comportamento dei turisti (la riduzione del tempo di soggiorno medio), hanno determinato un abbassamento significativo dei prezzi di vendita a clienti, impattando, di conseguenza sull’occupazione, sulle condizioni di lavoro e sulle retribuzioni.
Occorre infine ricordare che proprio nel lavoro stagionale nel turismo si è maggiormente avvertito l’impatto delle trasformazioni legislative intervenute nel 2015 (il decreto “Poletti” e l’introduzione della Naspi) sul fronte della protezione sociale. Modifiche che hanno ridotto il periodo di percezione della cosiddetta “disoccupazione stagionale”, rendendo ancora meno attrattivo (e si dica anche sconveniente) questo tipo di occupazione. In effetti per lungo tempo, tra gli anni 1970 e i primi del 2000, il lavoro stagionale ha rappresentato un’opzione percorribile e finanche vantaggiosa per molti lavoratori, spesso giovani meridionali che si spostavano nelle numerose località balneari del centro-nord Italia, attirati da salari più alti della media (sempre a fronte di condizioni di lavoro impegnative) e dalla possibilità di accesso agli ammortizzatori sociali che permettevano di sbarcare il lunario durante l’inverno. Peggioramento delle condizioni di lavoro, arretramento dei salari e riduzione della disoccupazione stagionale hanno dato come esito l’allontanamento di molti lavoratori con molte stagioni alle spalle e la rapida sostituzione con lavoratori e lavoratrici migranti, con condizioni di lavoro ancora peggiori.
In definitiva, per tornare alle domande di apertura, questi dati ci mostrano come la svolta dell’Italia verso un percorso di sviluppo centrato sul turismo sia più propriamente una ritirata improvvisata che una scelta strategica. Il turismo nel suo complesso non sembra garantire né una dinamica di crescita equa e sostenibile né tantomeno, per usare la terminologia dell’Ilo, condizioni di lavoro e di vita decenti a tutti i suoi occupati. Tuttavia, rispetto a queste affermazioni sono necessarie due avvertenze conclusive.
In primo luogo, evitando facili generalizzazioni, e soprattutto di cadere nella trappola di considerare queste condizioni come un dato immutabile, è importante sottolineare che il turismo non produce naturalmente posti di lavoro di cattiva qualità o impatti economici contenuti. Tanto le performance economiche quanto la qualità dell’occupazione sono il risultato sia di come i mercati del lavoro sono istituzionalmente e socialmente regolati e segmentati, sia delle condizioni economiche e sociali più generali sia, infine, del valore che attribuiamo ad alcune professioni. Se non si può incidere significativamente sulla stagionalità perché, oltre a dipendere anche da condizioni ambientali, richiederebbe di intervenire sulle dinamiche della vita quotidiana delle persone e sulla strutturazione del loro tempo libero, si può certo incidere su tutti gli altri aspetti che rendono l’occupazione turistica così fragile. Ripristinare e irrobustire gli ammortizzatori sociali, rafforzare il potere salariale, promuovere una cultura sindacale (che è rara nel turismo), limitare la segmentazione contrattuale e ricostruire le più ampie tutele lavoristiche avrebbe certamente un impatto positivo sull’occupazione turistica. Così come positivo sarebbe l’impatto se si offrissero alle persone opportunità di impiego di qualità evitando che le stesse si rifugino nell’imprenditorialità di disperazione (che proprio nel turismo trova spesso un canale privilegiato), anziché promuoverla come valore di per sé positivo. E consistenti sarebbero gli effetti di un eventuale intervento legislativo sul versante dell’offerta turistica volto a limitare, per esempio, la proliferazione degli appartamenti turistici. Fenomeno, quest’ultimo, che oltre a essere carico di conseguenze economiche (inclusa una buona dose di evasione ed elusione fiscale) produce sia effetti sociali di un certo rilievo nei tessuti urbani, sia dinamiche di concorrenza al ribasso. Insomma, migliorare le condizioni del lavoro nel turismo e le sue performance economiche richiede un certo tipo di intervento politico. Che è quello che manca.
In secondo luogo, la critica qui mossa alle performance del turismo riguarda esclusivamente gli aspetti economici e occupazionali. Ma il turismo non è solo occupazione ed economia. Il turismo è anche un fenomeno sociale e culturale e gli effetti che questo fenomeno produce dal punto di vista della crescita culturale, della qualità del tempo libero, e della riproduzione sociale nel suo complesso non possono essere compresi entro valutazioni esclusivamente di natura economica. D’altro lato, il fatto che il turismo produca benefici culturali e sociali significativi non costituisce una ragione sufficiente per soprassedere sulle condizioni di sfruttamento del lavoro su cui spesso il turismo si basa.
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